VII. La fondazione metafisica della libertà di scelta in Søren Kierkegaard

Esistenza, soggettività, libertà indicano tre momenti i quali, nelle riflessioni di Kierkegaard, s’intrecciano per operare e fondare una inter­pretazione dell’uomo come spirito concreto cioè esistente, situato in un preciso contesto metafisico e storico. La caratteristica della sua posizione è ch’egli ha penetrato a fondo l’alternativa dissolvente sulla libertà della speculazione moderna, che ha la sua formula nella libertà-necessità di Spinoza: è vero pertanto che il Singolo come soggetto particolare «di­viene» e questo divenire costituisce la storia, ma il singolo particolare è semplice «modo» (Spinoza) o «parvenza» e «momento» (Moment: Hegel) della storia ch’è il Tutto in cui si dispiega la vita dello Spirito assoluto. Il determinismo formale, enunziato dal razionalismo illuministico (Spinoza-Leibniz-Wolff…), diventa nello storicismo idealistico determini­smo reale. Schelling perciò nega espressamente la libertà secondo la concezione tradizionale poiché «mediante la libertà si viene ad affermare, accanto e fuori della potenza divina, una potenza per principio incondizionata la quale è impensabile secondo quei concetti. Come il sole nel firmamento estingue tutti gli altri splendori celesti, così e più ancora la potenza infinita elimina ogni altra potenza finita. La causalità infinita nella Una Essenza lascia a tutti gli altri solo una passività incondizionata»370.E Schelling precisa, come già san Tommaso371 ma in una prospettiva diame­tralmente opposta, che la causalità di Dio (nell’atto libero) deve attingere ogni atto (finito) nella sua determinata singolarità come una continua rinnovata creazione: «Dire allora che Dio ritiri la sua onnipotenza affinché l’uomo possa operare ossia che egli (Dio) conceda la libertà, questo non spiega nulla: se Dio ritirasse per un istante la sua potenza, l’uomo allora cesserebbe di essere»372. Heidegger nel suo commento allo scritto di Schelling rileva che la libertà dell’uomo come libertà (als Freiheit) si può dire anche una «incondizionatezza condizionata» (be­dingte Unbedingtheit), una «indipendenza dipendente» (abhängige Unabhängigkeit) nel senso di una «assolutezza derivata» (derivierte Absolutheit) ch’è la formula di Schelling. Heidegger osserva insieme che (per Schelling) la libertà è solidale col «sistema» e viceversa; la libertà richiede perciò il panteismo, il panteismo richiede necessariamente la libertà. Qui certamente libertà è essenzialmente l’appartenenza necessaria e non ha più il significato di «libertà di scelta»373.Heidegger infatti subito osserva che il primo passo della filosofia è il superamento del pensiero comune: la filosofia rimane un continuo attacco contro il sano senso comune. Non c’è filosofia fin quando non si supera la «immaturità» (Unmündigkeit) e insufficienza (Unzulänglichkeit) del senso comune. Ma quest’affermazione vale tanto quanto la concezione che la filosofia è e debba essere necessariamente «sistema»: ciò che Heideg­ger stesso esprime più radicalmente riducendo la verità dell’essere all’«apertura» nella presenza dell’essere. A sua volta perciò la concezione di Heidegger ricade nell’identità (apparentemente!) opposta ch’è quella della coincidenza dell’essere (del Dasein) con l’apparire. Così la libertà si pone direttamente o meglio radicalmente nella linea ontico-ontologica: essa ripete, ma a rovescio, l’identità dei trascendentali della metafisica classica. Qui è l’ente che fonda l’unum, il verum, il bonum…, in Heideg­ger è il plesso del verum ridotto a comportamento esistenziale (Verhalten) che esprime la libertà in quanto è la realizzazione ormai dell’identità lineare cioè orizzontale di atto e oggetto, sfrondata dall’elevazione (con­traddittoria?) a sistema dell’essere dell’Assoluto ch’è propria di Schelling e Hegel. In termini formali: nel pensiero moderno si ha un processo progressivo di radicalizzazione della libertà: in una prima fase col raziona­lismo il volere s’identifica col conoscere e di conseguenza il volere con l’agire e l’agire con la libertà ch’è in sé l’agire assoluto dell’Assoluto, un processo che ha il suo primo culmine nel panteismo di Spinoza e nell’ot­timismo di Leibniz; una seconda fase s’inizia con Kant e si compie con l’idealismo trascendentale secondo il quale l’attività dell’Assoluto è intrin­secamente infinita e immanente nella storia umana; in una terza fase, che si può far cominciare con Feuerbach e culminare con Heidegger, la libertà (come l’essere dell’essente) è intrinsecamente finita nell’essenza e tutta immanente nell’uomo storico, sia quanto a forma come a contenuto. Nel pensiero moderno c’è allora un doppio capovolgimento della libertà: prima (fino ad Hegel) il capovolgimento dell’identificazione della libertà con la necessità della Vita (dell’Assoluto), poi il capovolgimento di Heidegger ch’è l’identificazione della libertà con il presentarsi finito dell’essere del­l’essente nell’apertura infinita ch’è la libertà come Existenz, cioè l’incon­dizionato «lasciar essere» l’essere dell’essente. Qui la libertas indifferen­tiae non è più il terminus a quo della Scolastica essenzialistica, che però manteneva un rapporto estrinseco a Dio, ma anche terminus ad quem: così è tolta completamente la libertà in senso morale come libertà di scelta nel senso di una libertà che realizza decisioni grazie alle quali il singolo è respon­sabile davanti ad una distinzione assoluta di vero e falso, di bene e male. Allora mentre in Hegel il falso e il male sono ridotti a momenti dialettici, dopo Feuerbach e in Heidegger il falso e il male si dissolvono nel semplice «non-presente». La formula è: «La Ec-sistenza radicata nella verità come libertà è la ec-posizione nel non-nascondimento dell’essente come tale»374.Ovviamente l’accostamento di Heidegger a Feuerbach non si riferisce ai rispettivi sistemi ma alla comune derivazione da Hegel e dall’idealismo e con il comune traguardo della finitezza dell’essere. La decapitazione dell’essere da infinito a finito è fatta in ambedue, benché non allo stesso modo, mediante la reduplicazione ossia fondazione radicale dell’essere a livello antropologico. Soltanto che Feuerbach si ferma ancora alla dialettica (io-tu, amore coniugale), mentre Heidegger trapassa nell’indifferente lassen-sein, nello es gibt375,nell’Ereignis o evento puro. Compito della libertà così intesa, cioè come il lasciar-essere dell’essente, è di compiere ed eseguire l’essenza della verità nel senso di disvelamento dell’essente… mediante il quale si mostra una aperità376. L’essere della libertà allora è tutto nel comportamento di lasciar-essere. Ormai la verità, una volta ch’è tolto il fondamento dell’essere (e quindi l’Assoluto), non si fonda che sull’essente nel suo mostrarsi come un Tutto. Di qui la conclusione: «L’essenza della verità si svela come libertà (e) questa è il lasciar-essere ec-sistente disvelante dell’essente»377.Perciò la liber­tà è il fondamento della trascendenza: ma la trascendenza a sua volta è l’apertura dell’uomo (Dasein) al mondo il quale, si badi bene, è l’essere come il Tutto ossia la totalità dell’orizzonte umano378. È il semplice lasciarsi essere che si rapporta (e si può dire: deriva, coincide…) con l’essere puro, vuoto… (reines, leeres Sein) di Hegel: questa libertà è perciò la negazione stessa di ogni qualità, è l’essere asettico, sterilizzato… del semplice farsi presente di una presenza così che scelta (Wahl) e apertura (Offenheit), come essere e volere, coincidono. Il comportamento verso l’essere è la verità dell’esistente così che tanto la verità di tale com­portamento – cioè lo stare aperto – è la libertà e la libertà di questo comportamento è la verità379.In questo senso Heidegger è d’accordo con Hegel che la libertà non è una «proprietà» (Eigenschaft) dell’uomo ma che essa è l’essenza stessa dell’uomo: è infatti la sua coscienza in atto, la quale costituisce di volta in volta la verità come libertà. Heidegger può perciò fare a meno di tutta la terminologia della metafisica e della mo­rale tradizionale.

Invece per Kierkegaard la libertà esistenziale non si rapporta al finito nel tempo, come in Heidegger, perché l’uomo nella vita del tempo, ch’è tempo di prova della libertà, si rapporta all’eternità ed aspira all’Infinito. Così mentre la coscienza hegeliana è solo apparentemente oggettiva e svanisce nella storia universale e mentre il Dasein heideggeriano non è mai né può essere soggettivo perché essenzialmente gettato nel mondo…, l’uomo di Kierkegaard si muove dal plesso oggettivo iniziale, quello di trovarsi a vivere in una precisa e qualificata situazione storica, per «di­ventare» sempre più soggettivo nel senso di «decidere» di stabilirsi nel fondamento che si attua come rapporto libero all’Assoluto sussistente. Come Schelling, anche Kierkegaard concepisce l’io e la libertà come «un’indipendenza derivata» ma non nel senso dell’assorbimento pantei­stico spinoziano il quale sostituisce rapporto a rapporto e perde perciò la libertà del Singolo e con essa l’io personale. Infatti l’idealismo concepisce il rapporto fra l’io (individuale) e l’Assoluto come un semplice rapporto fra particolare e universale riducendo l’io dell’uomo a semplice momento così da trasferire la realtà – e con ciò la verità e la libertà… – nell’universale ch’è il genere umano… Così prima si pone il rapporto del particolare all’universale, dell’io singolo all’Assoluto, ma poi riducendo l’io singolo a fenomeno si toglie quest’io e con esso il rapporto che lo contiene. L’idealismo proclama così l’Io assoluto, lo Spirito assoluto, l’Idea assoluta, la Libertà come necessità assoluta… come l’unica realtà consistente ch’è la Totalità dei rapporti come «sistema» (il panteismo di Schelling rilevato dallo stesso Heidegger): ma non sono però effettivamente rapporti poiché uno solo dei membri (l’Assoluto) è reale, vero, libero… Kierkegaard osser­va che per l’idealismo sia filosofico come teologico (Hegel, Schleiermacher) tutto è fermo sull’Assoluto, tutto è fermo in esse e manca il divenire cioè la libertà380. Così la storia universale manca di soggetto e parlare dell’io universale non ha senso, è una contraddizione.

Per Kierkegaard invece l’io si costituisce come un doppio rapporto dentro un rapporto, perciò l’io è principio come un rapporto derivato, quindi l’io non è una «unità», come per l’idealismo, ma una sintesi ch’è un rapporto fra due principi381: finito e Infinito, tempo ed Eternità, possibilità e necessità. Ma perché da questo rapporto sorga l’io come libertà ossia come spirito occorre che l’io nel duplice rapportarsi (al finito e all’infinito, al tempo e all’eternità, alla possibilità e alla necessità) non sfumi nell’uno o nell’altro dei termini ma ritorni in se stesso, che sia il terzo. Ma questo terzo, ch’è l’io del Singolo (come rapportarsi del rapporto), che ora si presenta libero come possibilità, è effettivamente libero se nel rapportarsi a se stesso si attua non come rapporto a se stesso (Io = Io) cioè circolare ma che si mette in rapporto con ciò che ha posto il rapporto intero ossia riflettendosi infinitamente nel rapporto con la Potenza che l’ha posto cioè scegliendo Dio. Anche per Kierkegaard l’io è libertà, ma opera in quanto egli si riflette nell’Assoluto e questo riflettersi è riferire se stes­si, l’oggetto della scelta e la scelta stessa, a Dio. L’io è libero non perché si trasferisce e si annienta nell’Infinito, neppure perché si lascia essere (cioè trascinare all’infinito) nel finito, ma perché si erge come affermazione di capacità di scegliere l’Assoluto. L’io allora è libero in quanto precisamente «… mettendosi in rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, egli si fonda in trasparenza nella potenza che l’ha posto»382.La libertà si costituisce perciò mediante il rapportarsi dell’io a Dio: l’io non si potreb­be porre come rapporto, non potrebbe porre nessun rapporto, se non in quanto è stato già posto da un Altro. Che sia l’io a porre se stesso originariamente, nel senso dell’autoctisi dell’idealismo, è un’espressione senza senso. Questo nonsenso è per Kierkegaard l’essenza della specula­zione moderna del cogito-volo…, un nonsenso che si è radicalizzato con l’espulsione coerente dell’Assoluto come Principio nell’ateismo strutturale della filosofia contemporanea.

1. Possibilità-realtà come categorie del divenire. Kierkegaard, rifa­cendosi espressamente ad Aristotele, intende la «possibilità» nel senso formale di indeterminatezza ed insieme nel senso reale di capacità (du,namij), mentre la realtà è essere e trovarsi in atto (evne,rgeia). Si deve dire che lo spirito, ossia l’io, attua la libertà come sintesi di opposti cioè di finito e infinito da parte della determinazione dell’oggetto, di possibilità e necessità da parte della determinazione del soggetto383. Prima della scelta l’io è solo kata. du,namin cioè è tanto finito quanto infinito, tanto possibile quanto necessario, cioè non lo è ancora ma lo deve diventare.

La costituzione in atto della libertà è nella sintesi, la sua perdita nella separazione di ciascuno dei termini della sintesi. Si perde la concretezza dell’io e la libertà non solo legandosi (scegliendo) al finito ch’è principio di limitazione, ma anche disperdendosi nell’infinito fantastico384:un tale infinito è p. es. l’umanità in abstracto che porta ad una sentimentalità astratta e diffusa, fantastica appunto, o ad una conoscenza astratta cioè fantastica anch’essa perché mai si fissa nel compito. In questa scissione dell’io si può dire che la possibilità non è più possibilità ma il vuoto e la realtà è anch’essa resa impossibile poiché non solo non è accaduto nulla, ma neppu­re nulla può accadere: perché accada qualcosa ovvero affinché si attui la libertà occorre che l’io si ricostituisca come sintesi e diventi concreto e questo costituisce il passaggio dalla possibilità alla realtà. Si deve dire allora che la realtà è pertanto l’unità di possibilità e necessità e non, come afferma la filosofia moderna, che la necessità sia l’unità di possibilità e realtà. In questa formula la possibilità è concepita a pari con la realtà ed essa impedisce allora all’io di «raggiungere la realtà». Così l’io si smarrisce o nella forma del desiderio vago e dell’aspirazione vuota o nella forma malinconico-fantastica di timore, dell’angoscia, della speranza a vuoto… – di qui la disperazione ch’è la malattia dell’uomo moderno. Essa è doppia: o di mancare del finito scegliendo l’infinito fantastico (fatalismo…) o di mancare dell’Infinito scegliendo il finito (determinismo di tutte le forme).

Ora in ambedue le forme all’io viene a mancare la possibilità o perché tutto è diventato necessario o perché tutto è diventato trivialità… e tutto si esaurisce nel probabile. La possibilità di cui si parla non è ovviamente quella della logica astratta (la mancanza di contraddizione fra i concetti), ma quella metafisica della divina onnipotenza perché a Dio tutto è possi­bile: così occorre entrare in rapporto con Dio e allora chi entra in rapporto con Dio sa che a Dio tutto è possibile. È questo il «divenire» della realtà dell’io (libertà): così chi non ha Dio, non ha neanche un io, non ha libertà per costituire il proprio io e non ha libertà perché gli manca la possibilità mancandogli Dio: «Come infatti tutto è possibile per l’onnipotenza di Dio, allora l’esistenza di Dio, ammettere Dio, è ammette­re che tutto è possibile» nel campo dello spirito, è perciò costituire l’io come spirito perché l’io è spirito quand’è libero e l’io si costituisce in libertà quando si rapporta nel rapporto ossia quando nella scelta l’io si rapporta a Dio ch’è il Principio che l’ha posto (creato). Non è perciò un io meramente umano, ma Kierkegaard lo chiama «l’io teologico» (det theo­logiske Selv) in quanto ha preso per sua misura Dio: «È l’io di fronte a Dio. E che realtà infinita non acquista l’io acquistando coscienza di esistere davanti a Dio, diventando un io umano, la cui misura è Dio!»385.

Il passaggio dalla possibilità alla realtà è perciò il movimento che costituisce il divenire o attuarsi della libertà e questo è il processo, anzi per Kierkegaard è il carattere fondamentale dello spirito. La filosofia fino ad Hegel ha pensato il reale sub specie aeterni, ma nell’eternità tutto è e niente diviene, scompare ogni aut-aut ed ogni dovere è possibilità di scelta, cioè per la libertà non c’è alcun futuro, è togliere la differenza fra pensare ed essere ossia fra pensare ed esistere nella realtà ossia fra il pensare e l’impegnarsi nella scelta: è togliere alla radice, diremmo oggi, la scelta fra l’impegno e il disimpegno oppure – come dice Kierkegaard – fra il pensiero e l’azione, fra la quiete e il rischio. Insieme la possibilità ha un significato reale, quello appunto di capacità di scelta ch’è il poter agire come esige l’esistenza386. Quando perciò Spinoza afferma che «essentia involvit existentiam», e quando Hegel fa entrare l’esistenza nella logica, essi intaccano e negano il principio stesso di contraddizione e quindi l’opposizione di vero e falso e di conseguenza quella tra il male e il bene. La tesi in particolare di Jo. Climacus è perciò che la «realtà» non si lascia comprendere. Infatti comprendere è risolvere la realtà in possibilità: ma allora è impossibile comprenderla, perché comprenderla è trasformarla in possibilità, quindi non mantenerla come realtà. Rispetto alla realtà, il comprendere è un regresso, è un passo indietro, non un progresso. Non però nel senso che la «realtà» sia senza concetto: il concetto che si trova quando la si comprende, risolvendola in possibilità, è anche nella realtà. Ma nella realtà vi è un di più – cioè il fatto che esso concetto è realtà. Il passaggio dalla possibilità alla realtà è un progresso (eccetto per quel che riguarda il male): quello dalla realtà alla possibilità un regresso.

Perciò «essere nella realtà» significa decidersi davanti a Dio, sceglie­re, portarsi là dove il mare misura 70.000 cubiti di profondità; più precisamente è esistere in quel che si crede, costi quel che costi fosse anche la morte. Questo è «raggiungere la realtà» (at naae Virkeligheden), è l’unico autentico riportarsi al fondamento sia in quanto, come si è visto, si attinge il senso primitivo e originario dell’esistere, sia perché si affronta direttamente quel che si crede il pericolo più grande. Il pensiero moderno riporta la realtà e la libertà alla possibilità. Fin quando però io mi limito a pensare, mi confino nella possibilità, resto immutato e mi servo della fantasia: invece quando la cosa diventa realtà, sono io che mi devo cambiare perché devo scegliere e pensare alla mia salvezza387. Il momento cruciale è perciò il «diventare» che in danese (Tilblivelse) significa l’entrare (til-blive) dell’evento (umano) nel tempo mediante la libertà: qui c’è il nodo allora di tutte le categorie esistenziali implicate nella scelta e la denunzia dell’aberrazione insanabile del pensiero moderno sia nelle correnti che affermano l’Assoluto ma in cui assorbono il singolo (Spinoza, razionalismo, idealismo metafisico…), come nelle correnti post­hegeliane che affermano il concreto (empirismo, nominalismo…) ma dissolvono il singolo nel fattuale, perché negano l’Assoluto. In ambedue le correnti ciò che va perduto è soprattutto la «consistenza» dell’uomo reale che viene posto fuori di se stesso trasferito ad altro da sé e tolto dalla propria radice: è questa la disperazione dell’uomo moderno. Kierke­gaard esprime questa dialettica dei due momenti o aspetti della possibilità con la duplice formula: «La possibilità più alta della realtà. La realtà più alta della possibilità»388 –la prima caratterizza l’apertura illimitata della libertà ossia la sua capacità di avere a disposizione sempre la possibilità di scelta, la seconda afferma l’essere in atto cioè l’attuarsi della libertà la quale pertanto può vincere la dispersione nel finito ch’è la disperazione.

2. Il «Singolo» (det Enkelte), chè lio come spirito, come soggetto di libertà. Si tratta della verità ovvia che esistente è solo l’individuo singolo, non il genere ch’è un astratto: anche questo principio Kierke­gaard dice di averlo attinto dal pensiero classico e soprattutto da Aristote­le secondo il quale esistono in natura soltanto gli individui, ed i generi e le specie soltanto in quanto realizzati negli individui. Il pensiero moderno invece si è caratterizzato come la rimozione progressiva del Singolo, e perciò della persona, a vantaggio dell’universale astratto sia in forma di sostanza immobile, sia come umanità storica abbandonata alle vicende del tempo: perciò Kierkegaard al Singolo contrappone la massa, la folla, il pubblico… che sono le categorie dell’inautentico, del disimpegno e dell’irresponsabilità quale sperimentò egli stesso nella sconcia gazzarra del Cor­saro e prima di lui provarono Socrate, Cristo e tutti gli eminenti. Un testo maturo del Diario ci mostra che la categoria del Singolo penetra la tematica di tutti gli Pseudonimi: «L’affare del “Singolo” è trattato in ciascuno degli “Scritti pseudonimi”. – Sì, senza dubbio, e anche in questo modo: il far girare gli pseudonimi attorno a questi temi definisce cos’è il generale, il Singolo, il Singolo particolare (l’eccezione), e designando il Singolo particolare nel suo soffrire e nella sua straordinarietà. Così l’As­sessore in Aut-Aut pose il problema della situazione eccezionale del celibato. Poi vennero Timore e Tremore, La Ripresa, lEsperimento psicologico: nuovi commenti alla categoria del Singolo. Inoltre gli stessi pseudonimi presi come libri, in rapporto al pubblico dei lettori, fanno valere la medesima categoria del Singolo»389. Ed ora il commento pole­mico soprattutto (è ovvio) contro l’hegelismo: «L’errore [di Hegel] sta principalmente in questo: che l’universale, in cui l’hegelismo fa consistere la verità (e il Singolo diviene la verità, se è assunto in esso), è un astratto, lo Stato, ecc. Egli non arriva a Dio che è la soggettività in senso assoluto, e non arriva alla verità: al principio che realmente, in ultima istanza, il Singolo è più alto del generale, cioè il Singolo considerato nel suo rapporto a Dio». Segue la deplorazione: «Quante volte non ho scritto che Hegel fa in fondo degli uomini, come il paganesimo, un genere animale dotato di ragione. Perché in un genere animale vale sempre il principio: il Singolo è inferiore al genere. Il genere umano invece ha la ca­ratteristica, appunto perché ogni Singolo è creato ad immagine di Dio [Gen 1,27], che il Singolo è più alto del genere»390.Si tratta secondo Kierkegaard che nei regni inferiori della natura gli individui sono semplici «copie», perché non hanno un’affinità con Dio e non possono realizzare con la scelta un diretto rapporto a Dio, perciò ciascuno è inferiore al genere. Il «Singolo» umano invece è più del genere perché (come spirito) egli è tutto il genere e nello stesso tempo l’individuazione: perciò nella vita eterna il genere (e la generazione) sparirà.

Questo concetto fondamentale di «quel Singolo» (hiin Enkelte) è preso in particolare esame nel Punto di vista della mia attività di scrittore quasi in forma di testamento spirituale ove K. lo chiama la «mia categoria» grazie alla quale egli ha potuto lottare contro il «tempo» e realizzare l’assoluta eguaglianza fra gli uomini ossia come singoli davanti a Dio e come ciascuno impegnato – ossia in grado d’impegnarsi – per «diven­tare» spirito mediante la scelta dell’Assoluto. Ed è sul fondamento di questa categoria del «Singolo» (davanti a Dio) che si fonda il rapporto (di comunicazione) all’altro e perciò la categoria del «prossimo» e con essa il dovere, ch’è insieme timor di Dio, di «amare il prossimo» (at elske Naesten) come se stesso391. Per Kierkegaard allora non è possibile un rapporto all’altro che non passi attraverso il rapporto a Dio ossia che non si fondi in Dio: è qui che la formula oggettiva della libertà come decisione e scelta si salda con quella oggettiva del rapportarsi al fondamento in quanto precisamente – secondo la formula già indicata della Malattia mortale – l’io si costituisce in atto solo come rapporto e precisamente come il rapportarsi del rapporto al Principio che l’ha posto. In questo senso, come subito vedremo, la libertà nella prospettiva kierkegaardiana assume una tensione dialettica infinita ch’è agli antipodi sia del collettivi­smo (scientista, sociologistico-marxista) come dell’individualismo (libera­loide, anarchico, esistenzialistico…).

3. LAssoluto come «fondamento» della libertà. L’Assoluto come lo concepisce il pensiero moderno, immanente al mondo ed alla storia, è per Kierkegaard un semplice «superlativo umano» ossia una amplificazione della fantasia confinata alla sfera estetica, riferita al mondo e all’uomo che pensa e vuole soltanto mediante il pensare e volere dell’uomo: perciò una caricatura dell’Assoluto che la filosofia posteriore ha dovuto per coerenza eliminare. Se Dio pertanto è legato al mondo, tanto più lo è l’uomo e non fa meraviglia che il pensiero moderno abbia concepito (dissolto) la libertà come sintesi dialettica di «casualità» e «necessità».

Il procedere di Kierkegaard anche su questo punto è esattamente l’opposto del pensiero moderno: esso è di un’estrema semplicità, ma è proprio questo che costituisce la sua ardua originalità. L’originalità è nel­l’elevazione assoluta dell’Assoluto ossia nell’affermazione della sua radicale distinzione o trascendenza metafisica non solo dal mondo materiale, ma anche da quello dell’uomo e di ogni spirito finito. Tale trascendenza metafisica infatti ch’era ovvia per la filosofia e teologia dell’Occidente qui si approfondisce nella riflessione esistenziale che qui è nuova e originalis­sima perché «supera» (per la prima volta?!) il rapporto di dipendenza nella forma di semplice causa efficiente estrinseca e si configura nel rapporto di causa immanente intensiva, di causa cioè non condizionante ma costituente ossia – per dire con un’espressione assai vicina a Kierkegaard – di Onnipotenza fondante ch’è libertà liberante. A questo riguardo c’è un testo di eccezionale vigore speculativo nel Diario del 1846, quindi pressoché contemporaneo del suo più elaborato scritto teoretico ch’è la Postilla392. Lo dividiamo per comodità in tre momenti: tema e tesi, la dimostrazione, l’epilogo. L’argomento del testo è il tema essenziale di ogni «teodicea» che ha tormentato e affaticato la riflessione umana nella lotta della libertà contro il male. Rileggiamo ora l’intero testo sopra indicato.

Tema: «Tutta la questione del rapporto fra la onnipotenza e la bontà di Dio e il male (invece della distinzione che Dio opera il bene e soltanto permette il male) può forse essere risolta del tutto alla semplice nel modo seguente»393. La parentesi qui è significativa e per nulla sibillina. Cer­tamente Kierkegaard sa e ammette che la creatura riceve ogni bene da Dio, quindi anche la libertà con tutti i suoi frutti. Inoltre, egli non ha cessato di riferire il male (morale) alla decisione della volontà dell’uomo: di qui la sua insistenza (specialmente nei Papirer) circa il potenziamento della libertà mediante l’educazione (Opdragelse) del carattere. La tesi qui suggerita è perciò che l’uomo è, nel suo ordine, il principio attivo e quindi responsabile nell’uso della propria libertà. Questa tesi è dimostrata con assoluto rigore metafisico, non a partire dall’analisi psicologica dell’uomo ma dall’essere profondo di Dio stesso: è perché Dio è Dio, perché Dio è l’Assoluto e l’onnipotente in sé e per sé, ch’egli può creare altri esseri liberi, così che proprio per via dell’onnipotenza creativa egli li pone nella completa indipendenza della libertà d’agire.

Tesi: Lonnipotenza di Dio fondamento della libertà delluomo. – «La cosa più alta che si può fare per un essere, molto più alta di tutto ciò che un uomo possa fare per esso, è di renderlo libero. Per poterlo fare, è necessaria precisamente l’onnipotenza. Questo sembra strano, per­ché l’onnipotenza dovrebbe rendere dipendenti. Ma se si vuol veramente concepire l’onnipotenza, si vedrà che essa comporta precisamente la de­terminazione di poter riprendere se stessi nella manifestazione dell’onni­potenza, in modo che appunto per questo la cosa creata possa, per via dell’onnipotenza, essere indipendente».

Il nerbo dell’enunciazione è nella corrispondenza fra l’onnipotenza e la trascendenza di Dio da una parte e l’indipendenza e la responsabilità dell’uomo dall’altra. San Tommaso394, con una terminologia più tecnica, esprime lo stesso principio quando afferma che Dio, in quanto Causa prima e totale dell’essere e dell’agire, non può avere col mondo e con l’uomo una relazione reale ma soltanto di ragione395; è la creatura soltanto che ha una relazione reale (di dipendenza) da Dio. Ora Kierke­gaard richiama proprio questo principio mediante un’ardita analisi tra­scendentale della dialettica della «potenza» nella doppia tensione di finito-Infinito e di finito-finito: quella come autentica, questa inautentica e ambigua o che tende di per sé a porsi nell’ambiguità.

Dimostrazione: La potenza finita limita, la Potenza infinita invece fonda la libertà creata.

a) La potenza finita, poiché qui il «dono» non può essere mai totale e il darsi totalmente disinteressato, limita la libertà creata: «Per questo un uomo non può rendere mai completamente libero un altro uomo; colui che ha la potenza, n’è perciò stesso legato e sempre avrà quindi un falso rapporto a colui che vuol rendere libero. Inoltre vi è in ogni potenza finita (doti naturali, ecc.) un amor proprio finito. Soltanto l’Onnipotenza può riprendere se stessa mentre si dona, e questo rapporto costituisce appunto l’indipendenza di colui che riceve. L’onnipotenza di Dio è perciò identica alla Sua bontà. Perché la bontà è di donare completamente ma così che, nel riprendere se stessi in modo onnipotente, si rende indipen­dente colui che riceve. Ogni potenza finita rende dipendenti; soltanto l’Onnipotenza può rendere indipendenti, può produrre dal nulla ciò che ha in sé consistenza, per il fatto che l’Onnipotenza sempre riprende se stessa»396.Questo tipo di dimostrazione potrebbe essere detto sia ontico-trascendentale, come metafisico-esistenziale: è preso infatti dalla finitezza non come puro limite ma come limitante e quindi come caduta metafisica che si verifica in ogni rapporto di libertà nell’ambito delle coscienze finite. Di qui, diciamolo subito, l’impossibilità di una comunica­zione autentica nell’ambito dei soggetti finiti che sia ristretta alla sfera del finito e non rapportata all’Infinito ossia che non sia una scelta «davanti a Dio» (for Gud ).

b) Solo l’Onnipotenza divina è il fondamento della libertà creata: qui il comunicare è dono puro, completamente disinteressato. «L’Onnipotenza non rimane legata dal rapporto ad altra cosa, perché non vi è niente di altro a cui essa si rapporta; no, essa può dare, senza perdere il minimo del­la sua potenza, cioè può rendere indipendenti. Ecco in che consiste il miste­ro per cui l’onnipotenza non soltanto è capace di produrre la cosa più im­portante di tutte (la totalità del mondo visibile), ma anche la cosa più fragi­le di tutte (cioè una natura indipendente rispetto all’Onnipotenza)».

c) L’Onnipotenza divina è la garanzia dell’indipendenza dell’attuarsi della libertà: «Quindi l’Onnipotenza, la quale con la sua mano potente può trattare così duramente il mondo, può insieme rendersi così leggera che ciò che è creato goda dell’indipendenza. È soltanto un’idea miserabile e mondana della dialettica della potenza, pensare che essa cresca in proporzione della capacità di costringere e rendere dipendenti. No, allora comprese meglio Socrate che l’arte della potenza è di rendere gli uomini liberi. Ma nel rapporto fra uomo e uomo ciò non è possibile (sebbene sia sempre necessario accentuare che questa è la cosa più alta), poiché ciò costituisce una prerogativa dell’onnipotenza. Perciò se l’uomo godesse della minima consistenza autonoma davanti a Dio (come pura “materia”), Iddio non lo potrebbe rendere libero. La creazione dal nulla esprime a sua volta che l’Onnipotenza può rendere liberi. Colui al quale io assolutamente devo ogni cosa, mentre però assolutamente conserva tutto nell’essere, mi ha appunto reso indipendente».

Conclusione: Solo la dipendenza totale da Dio, fondata sulla comuni­cazione damore della creazione, rende possibile la libertà delluomo.

 

È la dialettica del passaggio al limite, poiché nel rapporto del finito all’Infinito le cose stanno all’inverso del rapporto fra finito e finito: «Se Iddio, per creare gli uomini, avesse perduto qualcosa della Sua potenza, non potrebbe più rendere gli uomini indipendenti»397. Fin qui il nostro testo.

Ciò che Kierkegaard vuol suggerire è ancora altrettanto nuovo quanto fondamentale, cioè primitivo e originario. Nella speculazione moderna Dio è soggetto alla metamorfosi di trovarsi sempre più implicato nel mondo, come Sostanza unica, come il Tutto e l’Intero, come Volontà universale… così che Dio non è più Dio ma la Realtà (come Intelletto, Ragione, Volontà… del e nel mondo), mentre la creatura ed i cosiddetti spiriti finiti sono i momenti transeunti e contingenti della presenza attuosa di tale Principio tutt’abbracciante (das Allumfassende: Hegel). Il pensare primitivo e originario considera invece questa implicazione come una mistificazione dell’onnipotenza di Dio per togliere l’etica alla sua prima radice. È appunto disonestà398. L’Assoluto per Kierkegaard non assorbe in sé, ma fonda e distingue da sé la libertà dell’uomo. Egli è l’Essere «senza predicati» nel senso di Parmenide, «l’essere per essenza», nella formula parmenideo-neoplatonica di san Tommaso, che Kierkegaard con la tradizione patristica riporta alla Bibbia: «Jahvé dice: “Io sono Colui che sono” (Es 3,14). “Io sono”, questa è la forma più alta dell’essere»399.

L’aspetto profondo – cui l’esegesi della Kierkegaard-Renaissance filosofica e teologica è passata finora completamente sopra – è che Dio come Assoluto metafisico ha assicurato il valore assoluto della libertà solo al Singolo e mai al numero. Di qui la conclusione: «Più il numero è grande, e più si è distanti da Dio: il Singolo è colui che gli sta più vicino. Ma anche con lui, Dio si è assicurata la sua maestosità perché più il Singolo gli si avvicina, e più sentirà la sua distanza da Dio»400.Qui Kierkegaard presenta la versione metafisica del principio di Parmenide a fondamento della sua rivoluzione spirituale: se Dio è l’Assoluto, il rap­porto dell’uomo a Dio dev’essere una scelta assoluta di obbedienza assolu­ta senza rivali. La conseguenza è, per il cristiano, che il peccato ha un rilievo assoluto. Così che la rinunzia al mondo non può essere che assoluta: la venuta storica di Cristo ed il cristianesimo costituiscono un evento assoluto che non passa ma impegna l’uomo in modo assoluto per la sua salvezza eterna (problema di Lessing). Invece l’uomo, disperdendosi nelle bagatelle della cultura, si è mosso in senso esattamente inverso «in direzione della razionalità, della razionalità finita. Ma questo pro­gresso è in senso più profondo talmente ambiguo, ch’è un regresso, un vero regresso dall’Assoluto, dall’impressione dell’idea dell’Assoluto: ed è un progresso nel senso d’intendersela sempre più con ciò ch’è relativo e mediocre, con ciò che è “fino ad un certo punto”. Così si vede anche facilmente che questo progresso è una caduta da ciò ch’è eterno» (IX A 149). Solo l’Assoluto tiene, nel fluire incessante delle cose e nella babele dei pensamenti degli uomini. Si assiste qui, nell’ultima evoluzione del pensiero di Kierkegaard rappresentata da questi ultimi Diari del 1854-55, quasi ad un capovolgimento: ossia mentre nel testo citato del 1846 si rivendica l’in­dipendenza che la creazione stessa della libertà dal nulla fonda nella crea­tura da parte dell’onnipotenza divina, ora si afferma che l’Assoluto lega a sé la libertà creata in modo assoluto. È un principio ovvio, altrimenti la strut­tura in sé dell’Assoluto e del rapporto dell’uomo all’Assoluto sarebbe la­sciata in balìa dell’uomo e Dio sarebbe così detronizzato. Ma perché Dio è l’Assoluto, Egli esige dall’uomo che si metta con lui in un rapporto assoluto. Il testo infatti insiste: «L’Assoluto, lo “in-sé-e-per-sé”: già, mo­strami, se sbaglio, ma io dubito che ci sia un solo uomo che abbia la minima impressione di un essere simile o possa venirgli in mente di mettersi in rela­zione con un tale essere. Ciò che naturalmente uno non può fare se non col­l’obbedire incondizionatamente, col voler annientarsi, per così dire; perché l’Assoluto è letale per l’essere relativo, e solo attraverso questa morte di­venta vivificante»401.

Questa è la «costrizione» (Tvang) radicale metafisica cioè oggettiva: essa non contrasta ma rivela e fonda quella che dev’essere per l’uomo l’estrema concentrazione della sua libertà di scelta dell’Assoluto402.In tutto questo si vede l’errore fondamentale di Kant di «pensare che l’uomo sia a se stesso la sua legge (autonomia), cioè che si leghi alla legge ch’egli stesso si è data. Ma con ciò si pone in sostanza, nel senso più radicale, la mancanza di ogni legge e il puro sperimentare. Questa diven­terà una cosa così poco seria, come i colpi che Sancio Panza si dà sulla schiena». La ragione è molto semplice, legislatore e suddito non possono coincidere perché non possono coincidere giudice e reo e verrà così abolita ogni legge: «È impossibile che in A io possa essere effettivamente più severo di quel ch’io sono in B o che possa desiderare a me stesso di esserlo. Se si deve fare sul serio, ci vuole costrizione. Se ciò che lega, non è qualcosa di più alto dell’Io e tocca a me legare me stesso, dove allora come A (colui che lega) dovrei prendere la severità che non ho co­me B (colui che dev’essere legato), una volta che A e B sono il medesimo Io?»403. Per questo la libertà si attua, secondo Kierkegaard, mediante un raddoppiamento effettivo della coscienza il quale presuppone «un terzo che stia fuori e costringa»404:la costrizione di cui si parla, com’è ovvio, non è di natura fisica e soggettiva ma metafisica e oggettiva ossia la presenza alla coscienza dell’Assoluto. Poi tocca all’uomo, ed è precisamente questa la libertà (assoluta) kata. du,namin, come la chiama Kierkegaard405, ossia la «possibilità» di decidersi assolutamente per l’Assoluto, per fare la scelta assoluta dell’Assoluto ch’è l’unica scelta che conviene all’Assoluto. Qui si può affermare il senso profondo e dialettico della soggettività di reduplicazione ch’è la libertà kierkegaardiana, tutta penetrata di assoluto: il rapporto all’Assoluto è l’alpha e l’omega, la libertà è il «buttafuori» del rischio dell’uomo nell’avventura dell’esi­stenza terrena.

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Il problema della libertà, come si è detto all’inizio, domina l’intera attività letteraria di Kierkegaard e la muove dall’interno verso determina­zioni sempre più perentorie della scelta dell’uomo per la sua salvezza.

1. Critica del «liberum arbitrium» come «libertas indifferentiae». – La libertas indifferentiae, che doveva necessariamente portare alla risolu­zione della libertà nella necessità, procede dall’essenzialismo della Scola­stica formalista ma trova la sua definitiva espressione metafisica nel dubbio radicale del cogito vuoto del pensiero moderno, nella noia e nella nausea dell’esistenzialismo contemporaneo: in forma più speculativa cioè risolutiva esso ritorna in Heidegger con la sua interpretazione del Sein del Dasein come «lasciar essere» e «libero poter essere»…, ossia la «a­pertura» (Offenheit) e lo «stare aperto» (Offenständigkeit) della verità. Per le riflessioni precedenti sappiamo che l’Assoluto per Kierkegaard non ha competitori ed esige perciò dall’uomo la scelta assoluta; l’Assoluto è per essenza il Sommo Bene e non può perciò consentire all’uomo che tanto l’impegno della scelta come l’oggetto sia considerato in sé indifferente – l’uomo «deve voler volere» cioè decidersi a volere per poter poi appli­carsi alla scelta del bene. Per questo Kierkegaard ha scelto come motto della propria vita, ch’è anche il titolo della prima e più brillante sua opera, il semantema della risolutezza: Aut-Aut. Questo si applica anzitutto all’alternativa fra la vita estetica e quella etica – la scelta (fra il bene e il male) costituisce propriamente il compito dell’etica: «Il mio aut-aut non significa soprattutto la scelta fra il bene o il male; esso significa la scelta con la quale si sceglie il bene e il male oppure li si esclude. La questione qui è (di sapere) sotto quali determinazioni si vuole considerare l’intera esistenza e anche viverla. Non c’è dubbio che chi sceglie [la sfera del] il bene e il male, sceglie il bene, ma questo si vede soltanto in seguito; poiché l’estetico non è il male ma l’indifferenza, perciò ho detto che [la sfera del] l’etico costituisce la scelta». La filosofia moderna da parte sua ha introdotto la mediazione degli opposti ed allora non esige più alcuna scelta assoluta e se questa non esiste, non c’è più neppure nessun aut-aut assoluto: la conclusione è che nella sfera del pensiero puro ovvero del cogito moderno non c’è posto per la libertà perché non c’è posto per la moralità. Non c’è allora neppure contrasto fra il bene e il male, a cui si rivolge invece la libertà: «Io non confondo affatto, conclude con ragione, il liberum arbitrium con la vera libertà positiva; poiché anche se questa ha fin da tutta l’eternità il male fuori di sé, come fosse pure una possibilità impotente, essa non diventa perfetta assumendo sempre più il male ma perché l’esclude sempre più – ma l’esclusione è precisamente l’opposto della mediazione»406.Vigilius Haufniensis perciò riporta l’origine del peccato ossia la sua possibilità all’angoscia originaria che è «una libertà vincolata non nella necessità ma in se stessa»: perciò il peccato non ha potuto entrare nel mondo né per necessità (sarebbe una contraddizione) e neppure con un atto di un liberum arbitrium astratto che non è mai esistito nel mondo né in principio né più tardi, nota Kierkegaard, poiché è un concetto assurdo407.Anche Il Vangelo delle sofferenze del 1847 condanna espressamente la libertas indifferentiae e ripropone questa «via unica» della libertà di scelta: «Infatti ci devono essere molte vie, affinché l’uomo possa scegliere: ma ci deve anche essere una soltanto da scegliere, se la serietà dell’eternità deve riposare sulla scelta. Una scelta di cui è indifferente se si sceglie l’una o l’altra cosa, non ha la serietà eterna della scelta; dev’essere in ballo l’alternativa di guadagnare tutto o di perdere tutto affinché la scelta abbia la serietà dell’eternità, anche se – come si dice – deve esserci una possibilità di poter scegliere qualcos’altro perché la scelta possa essere realmente una scelta»408.Il punto è decisivo per l’essenza stessa del peccato come atto di libertà ed è ripreso più sotto.

Quel che deve stare saldo secondo Kierkegaard è che il peccato, la caduta dell’uomo nel peccato e questo tanto per il primo peccato dell’u­manità o peccato originale del primo uomo, come per i peccati dei singoli uomini posteriori, è un atto di libertà ed è posto perciò col salto qualitativo della libertà ed è stolto credere o pensare che l’uomo «debba peccare» (at Menneske «maatte synde»). E spiega: «Il peccato, come la libertà, presuppone se stesso e, come questa, non si può spiegare da qualcosa che lo precede. Se si fa cominciare la libertà come un liberum arbitrium (una cosa che non si trova in nessun luogo)409, il quale può scegliere ugualmente il bene e il male, si rende impossibile» poiché sta alla radice stessa dell’io come spirito quale possibilità infinita e perciò infinito nella sua emergenza sul mondo: «Parlare del bene e del male – conclude a ragione – come se fossero l’oggetto della libertà [radicale = aggiunta nostra], vuol dire rendere finiti tanto la libertà quanto i concetti di bene e male. La libertà è infinita e sorge dal nulla»410. Se la libertà fosse finita l’uomo peccherebbe con necessità, e questo è un voler disten­dere il circolo del salto in linea retta: è negare la libertà e il peccato, come fanno appunto Heidegger e la pseudo Kierkegaard-Renaissance che dialettizzano il determinismo spazio-temporale. Più profondamente Kierkegaard tenta un’escursione più radicale e svincola la libertà dalle maglie dell’intelligenza raziocinante per riportarla alla sua radice che è essa stessa come «possibilità per la possibilità» ossia quella indeterminatezza attiva, e perciò infinita in senso ontico, per cui la libertà pone se stessa originariamente ed esprime alla sua radice l’originarietà della scelta dell’io come spirito. Mentre Kant e gli idealisti si sono fermati all’io funzionale e l’hanno quindi immediatamente estroverso cioè alienato – ossia annegato – nella natura e nella storia, per Kierkegaard l’io è anzitutto e soprattutto un soggetto metafisico-morale ch’è capace di formare se stesso e perciò – come subito diremo – ha il dovere di scegliere se stesso nella sua incomunicabile individualità personale che l’esistenzialismo fenomenologico (come il marxismo) ignora, anzi nientifica. La pretesa libertà d’indifferenza molinista si appaia alla libertà finita di Heidegger e degli heideggeriani: lo stadio etico è ricondotto allo stadio estetico e tale era per Kierkegaard la condizione di ogni filosofia razionalistica. Inoltre la situazione d’indiffe­renza è in sé un’astrazione, com’è astratto il pensatore puro e l’esteta puro: l’uomo reale è in tensione di fronte alle prospettive della vita cioè allo aut-aut della scelta incombente, questa è l’angoscia: lo stato cioè che attesta la libertà che però non è ancora libertà in atto ossia in sé costituita, è appunto ancora possibilità per la possibilità della scelta ed è in questo che consiste ad un tempo sia la sua infinità come la sua ambiguità. Per questo la scelta, afferma Kierkegaard, è decisiva per il contenuto della personalità e se c’è qualche momento in cui il Singolo può (o sembra) mantenersi nell’indifferenza, si tratta di un momento astratto come il «momento» platonico411:in verità ciò che dev’essere scelto si trova nel rapporto più profondo con colui che deve scegliere.

2. La dialettica della libertà di scelta: la scelta di se stesso e la distinzione del bene e del male. Lo stadio estetico è il «lasciarsi essere» heideggeriano ch’è la versione fenomenologica della dialettica hegeliana della cattiva infinità, ancorata appunto al nulla, la quale allo pseudo-Asso­luto hegeliano sostituisce il presentarsi all’infinito del finito nel finito ch’è l’essere come presenza il quale è intrinsecamente finito. Di qui, dalla finitudine dell’essere, la sua risoluzione come «essere per la morte» (Sein zum Tode) ch’è la «libertà per la morte» (Freiheit zum Tode): una convergenza originaria nell’essere di morte, colpa, coscienza, libertà e finitezza presenti in modo parimenti originario costituisce l’essente essen­zialmente futuribile (zukünftig) nel suo essere e perciò «… libero per la sua morte» (frei für seinen Tod)412.Così va perduto non solo Dio ma anche l’io, non solo la metafisica ma anche l’etica e non c’è più posto per la scelta ossia per la libertà di scelta e tutto si sprofonda nel fatum della storia.

Per Kierkegaard invece l’io si afferma soltanto mediante l’io, la libertà si attua mediante la libertà: io e libertà sono come il concavo e il convesso e crescono l’uno per l’altro poiché l’io è essenzialmente libertà. Questa scelta che l’io deve fare e fa di se stesso davanti a Dio è l’attuarsi originario formale della libertà: esso è l’antitesi del cogito moderno. C’è un prima che non è il vuoto del dubbio, il puro nulla, ma la tensione dell’an­goscia in cui l’io si avverte come possibilità per la possibilità di fronte alla scelta nell’alternativa fra il finito e l’Infinito. Si tratta in sostanza della scel­ta dell’ultimo fine, di ciò che nel pensiero classico era la felicità in generale, e nel pensiero cristiano il consenso esistenziale alla rivelazione storica di Dio in Cristo come impegno concreto della persona per «dirimere» la ten­sione dei contrari (bene o male, vero o falso…). Questa scelta di salvezza ha alle spalle la lotta dell’io fra il finito e l’Infinito e la consapevolezza di questa lotta è il «pentimento» del passato da cui si deve fare il salto della scelta di se stesso in modo infinito: «Egli sceglie se stesso, non in senso finito, poiché allora questo “io” si distenderebbe nella finitezza accanto alle altre finitezze, ma in senso assoluto»: quindi egli sceglie se stesso e non un altro. E spiega: «Questo io ch’egli sceglie è infinitamente concreto, poi­ché è lui stesso ed è però assolutamente diverso dal suo io anteriore, poi­ché egli l’ha scelto assolutamente. Questo io non è esistito prima, poiché esso è diventato con la scelta, eppure esso è esistito poiché è certamente “lui stesso”»413. Ciò significa, e Kierkegaard lo spiega subito, che la dia­lettica è tutta interna all’io – ecco la novità della prospettiva esistenziale – ma non ha per fondamento l’io, bensì l’Assoluto – ecco la continuità col pensiero metafisico. È questo l’io nella sua concretezza: questo io si è costituito grazie alla scelta ed è la coscienza di questa sua essenza libera ch’è se stessa e nient’altro, è la personalità dell’Io ch’è passata dalla possibilità alla realtà.

Kierkegaard a questo punto osserva che non si tratta che «scegliendo me stesso» in senso assoluto io abbia scelto nello stesso tempo il bene e il male in senso egualmente essenziale, e questo per il fatto che il punto di partenza della sfera etica – come si è detto – è il pentimento – cioè la consapevolezza (storica esistenziale) della colpevolezza, quindi della possi­bilità della colpa. Ora il pentimento esprime che il male mi appartiene e ch’esso non mi appartiene. Se il male mi appartenesse essenzialmente, allora non potrei sceglierlo; ma se non ci fosse in me qualcosa di assoluto, non potrei in generale neppure scegliere me stesso in modo assoluto, allora io non sarei con l’Assoluto ma soltanto (un) prodotto ossia non avrei fatto la scelta etica. Si tratta quindi di un rovesciamento completo del fronte speculativo che consiste nel riguadagnare la soggettività costitutiva della libertà con un procedimento del tutto originale ossia esistenziale; esso consiste – si potrebbe dire con una formula dirimente – nella fondazione trascendentale della libertà mediante il riferimento dellio alla trascendenza, in antitesi al monismo moderno che opera invece la dissolu­zione della trascendenza mediante la costituzione dell’Io come trascenden­talità.

3. La risoluzione (scelta) radicale come fondazione della libertà (l’io nel mondo davanti a Dio, l’io nella storia davanti a Cristo). – In questa deduzione allora il trittico di personalità, responsabilità e dovere deve procedere dall’assoluto esistenziale ch’è la libertà in atto ossia dall’io che ha scelto se stesso davanti all’Assoluto reale ossia metafisico. La formula di Victor Eremita è piuttosto complessa ma è esplicita e già prepara gli sviluppi dei posteriori pseudonimi: «Infatti appena la personalità ha trovato se stessa nella disperazione, ha scelto assolutamente se stessa, si è pentita (di) se stessa, allora egli possiede se stesso come suo compito sotto una responsabilità eterna e così il dovere è posto nella sua assolutezza. Ma poiché egli non ha creato se stesso, ma ha scelto se stesso, ecco che il dovere è l’espressione per la sua dipendenza assoluta e della sua libertà assoluta nell’identità dell’una con l’altra»414.Non è quindi l’uomo l’arbi­tro del bene e del male, al contrario egli ha il dovere assoluto di decidersi per l’uno o per l’altro cioè di scegliere il bene poiché egli, come si è visto, non può partire dall’indifferenza. Il nuovo passo del Concetto dellangoscia, nella determinazione della libertà, è nella dichiarazione che dalla possibilità reale di scelta, rivelata dall’angoscia, segue la positività della scelta stessa e quindi la concezione – ch’è fondamentale nel cristianesimo, secondo Kierkegaard – che la scelta del male è un atto positivo di libertà e che il peccato quindi è una «posizione» e non il semplice negativo dialettico come pensa la filosofia moderna. Il nocciolo di questo saggio tanto celebrato, che ha sbarrato nella Kierkegaard-Renaissance l’approfon­dimento della mirabile metafisica dello spirito di Kierkegaard svolta da Anti-Climacus, è nella seguente formula: nell’innocenza la libertà non è ancora posta come libertà e la sua possibilità diventa nell’individuo ango­scia in direzione della libertà, (angoscia del male), nel demoniaco o peccato qualificante il rapporto è inverso ossia la libertà è posta come non-libertà essendo perduta, così la possibilità della libertà è qui ancora angoscia (angoscia del bene) che tende a chiudersi sempre più in se stessa (la taciturnità), mentre la libertà tende a comunicarsi415.Ciò è portato a termine nella mirabile indagine della Malattia mortale che approfondisce l’essenza del peccato nella disgiunzione della sintesi ch’è l’io di finito e Infinito ossia come non voler essere se stesso (debolezza) oppure dispera­tamente voler essere se stesso (ostinazione). Si tratta, e ormai si comprende, che l’io è elevato a una potenza infinita grazie all’idea di Dio e di qui nasce la massima consapevolezza del peccato come azione: in questo, conclude, si esprime che il peccato è una «posizione», il suo essere davanti a Dio – perciò in quanto l’uomo assoggettandosi o ribellandosi qualifica il suo io – è ciò che costituisce in esso l’elemento positivo416.La salvezza è quindi nel movimento della libertà in senso inverso ossia mediante quel passaggio «… ch’è in virtù dell’eterno (ove) l’io ha il coraggio di perdere se stesso per conquistare se stesso»417.Il peccato poi viene «qualificato», all’interno della realtà storica dell’uomo, per essere «davanti a Cristo» ossia per il fatto – è quello che Kierkegaard chiama il «problema di Lessing» – che Dio con Cristo entra nell’esistenza (bliver til) come Uomo-Dio e l’uomo, nessun uomo, può restare indiffe­rente di fronte a questo fatto ma deve prendere una decisione pro o contro: o credere o scandalizzarsi. L’Esercizio del Cristianesimo esamina, con una penetrazione del mistero di Cristo densa di fascino e di orrore, il dispiegarsi di questo scandalo nella cristianità storica e la tragedia dell’uomo moderno che, come ha risolto il singolo nell’universalità del genere, così ha dissolto il peccato nel negativo. Per questo la filosofia moderna ha fatto piazza pulita dell’etica418,poiché senza trascendenza viene a mancare il fondamento del dovere come legame assoluto.

Ciò ch’è proprio in questa contestazione radicale del pensiero moderno è la rivendicazione della funzione costitutiva della trascendenza come fondamento della libertà al doppio livello sia metafisico (Dio) come storico (Gesù Cristo), quale finora non era mai apparsa nel pensiero cristiano alme­no in una forma teoretica così esplicita. Qui la libertà (come possibilità) di­venta libertà (come realtà), cioè non parte dall’indifferenza ossia dal punto zero dell’indifferenza: «… la libertà non può dirsi facoltà uguale del bene e del male… Né si può dire che la ragione del male sia l’abuso della volontà poiché proprio nell’abuso della volontà consiste il male»419. Perciò, anche se si può peccare per debolezza (la prima), poi proprio per via della disperazione il peccato desta una forza ed una brama disperata di vivere, mentre l’uomo buono sospira la morte420:è ciò che Kierkegaard ha analizzato e descritto nel Concetto dellangoscia e nella Malattia mortale come il potere del demoniaco.

L’originalità della fondazione kierkegaardiana della libertà consiste perciò nella dialettica (sempre aperta) di corrispondenza fra il lato oggetti­vo e quello soggettivo: a) l’uomo è creato libero in quanto spirito ed ha potuto esser creato libero in quanto il creatore è l’Onnipotente; b) l’uomo diventa libero in quanto sceglie «assolutamente» se stesso davanti a Dio; c) l’uomo allora sceglie assolutamente se stesso in quanto prima di tutto sceglie assolutamente l’Assoluto (Jo. Climacus). Di qui poi, nella effettiva prospettiva in cui si trova l’uomo dopo la venuta di Cristo, segue infine; d) l’uomo deve assolutamente decidersi di fronte a Cristo cioè pronun­ciarsi a riguardo dell’Uomo-Dio (Anti-Climacus). La prima è la scelta di fondo ch’è il fondamento di ogni scelta al livello della natura ovvero della religione naturale, quella di scegliere anzitutto e assolutamente Dio e il Regno di Dio: questa è l’unica scelta esistenziale, una scelta ch’è principio e fine di se stessa e perciò una scelta che non è scelta ma una decisione. Questo non è un linguaggio strano ma profondo, osserva Kierkegaard che continua: «Così dunque c’è qualcosa rispetto alla quale non si deve scegliere, e secondo il cui concetto non vi può essere questione di scelta e che pure è una scelta. Quindi, proprio questo, che non c’è alcuna scelta, esprime con quale intensità e passione immensa uno sceglie. Si potrebbe esprimere con precisione maggiore che la libertà di scelta è solo una determinazione formale nella libertà? e che proprio l’accentuazione della libertà di scelta come tale è la perdita della libertà? Il contenuto della libertà è decisivo a tal punto per la libertà, che la verità della libertà di scelta è appunto di ammettere che qui non ci dev’essere scelta, benché sia una scelta». Per Kierkegaard la libertà non è un problema da risolvere, e la filosofia infatti che l’ha ridotta a un problema non ne è venuta a capo ed ha finito per negarla: l’unica posizione logica è qui quella di Spinoza che l’ha negata. L’unica condizione per salvare la libertà è questa: «nello stesso momento, nello stesso secondo ch’essa è (libertà di scelta), s’affretta incondizionatamente, in quanto che incondizionatamente lega se stessa per via della scelta della decisione, di quella scelta che ha per principio: qui non vi può essere questione di scelta». Lo sfondo esistenziale perciò della libertà è una dedizione d’amore sia da parte di Dio che crea, attira e attende, come da parte dell’uomo che ha da decidere: «È incomprensibile, è il miracolo dell’amore infinito, che Iddio effettivamente possa accordare tanto a un uomo, così che egli, per ciò che lo riguarda, pos­sa dire quasi come un pretendente (qui c’è quel bel gioco di parole: svincolare, chiedere la mano): “Mi vuoi tu, sì o no?” – poi aspettare un secondo solo, per la risposta»421.In questo contesto il vero nemico ed ostacolo per la libertà è l’indugio della riflessione: «Fissando invece di scegliere la “libertà di scelta”, egli perde e la libertà e la libertà di scelta. Per via della riflessione non si può più riguadagnarle; se l’uomo le deve riavere, dev’essere per via di un timore e tremore prodotti dal pensiero di averle sprecate. La cosa enorme concessa all’uomo è la scelta, la libertà. Se tu la vuoi salvare e conservare, non c’è che una via: quella nello stesso secondo, assolutamente in piena dedizione, di renderla a Dio e te in essa». Ed ecco la conclusione drammatica: «Se ti tenta la vanità di guardare ciò che ti è stato concesso, se tu soccombi alla tentazione e guardi con brama egoista alla libertà di scelta, tu perderai la libertà. E la tua punizione è allora di smarrirti in una specie di confusione e di pavoneggiarti col pensiero che tu hai la libertà. Guai a te! sarebbe la tua condanna. Tu dici: io ho la libertà di scelta, e tu però non hai ancora scelto Iddio»422.Il succo di tutte queste riflessioni è in fondo un duplice pensiero fondamentale, quello che ha guidato quest’analisi, cioè che tanto sotto l’aspetto oggettivo come sotto quello soggettivo la libertà si attua in quanto è l’Assoluto che la dona all’uomo per amore ed in quanto l’uomo la dona tutta a Dio con una scelta d’amore e non per ragioni: «L’in-sé-e-per-sé e la ragione si rapportano fra loro in senso inverso: dove c’è l’uno non c’è l’altro. Quando la ragione ha penetrato completa­mente tutto e tutti, allora l’in-sé-e-per-sé è completamente sparito. Ed è a questo punto che press’a poco ora ci troviamo. Dappertutto ragione. Invece di innamoramento incondizionato, matrimonio di ragione. Invece di obbedienza incondizionata, obbedienza per forza di ragionamento. Invece di Fede, sapere per ragioni. Invece di fiducia, garanzie. Invece di rischio, probabilità, calcolo prudente. Invece di azione, semplici accadimenti. In­vece del Singolo, una combriccola. Invece di personalità, una oggettività impersonale, ecc. ecc.»423.

Conclusione. La struttura della libertà è quindi un plesso di necessità oggettiva – poiché il Sommo bene è esclusivo, non ha rivali, ed è perciò escludente – e di contingenza (scelta) soggettiva, poiché tocca ad ognuno fare anzitutto la scelta dell’Assoluto (che non è propriamente «scelta» ma lo stabilirsi nel fondamento) per fondare le ulteriori scelte. È questa la tesi che apre l’elevazione teologica degli Atti dellamore424: «Tu devi amare. Solo quando c’è il dovere di amore, allora soltanto l’amore è eternamente salvaguardato da ogni mutazione; eternamente e felicemente contro la disperazione». Il «tu devi» infatti non è che il riflesso etico che la presenza e realtà dell’Assoluto produce nella coscienza finita e questa è infinitamente più sicura di qualsiasi «prova» che gli amanti si chiedono l’un per l’altro: infatti il «tu devi amare», poiché ha alle spalle l’eternità, garantisce anche per l’eternità contro ogni mutazione poiché l’eterno non invecchia mai e nella sua immutabilità si presenta sempre giovane.

Ora niente meglio della sfera dell’amore illumina la tesi della fonda­zione della libertà nella necessità: «Soltanto quando l’amare è un dovere, solo allora l’amore è eternamente reso libero in beata indipendenza». Il cosiddetto amore libero cioè immediato si dissolve nelle accidentalità senz’alcuna consistenza, mentre la vera ricchezza di un uomo è seguire l’aspirazione (Trang) profonda e così anche l’espressione vera della libertà è ch’essa nell’uomo libero è un’aspirazione. Colui nel quale l’amore è un bisogno, egli si sente certamente libero nel suo amore e proprio colui che si sente completamente indipendente così che perderebbe tutto se perdesse l’amato, proprio costui è indipendente – a patto però di non scambiare l’amore col possesso dell’amato. La formula dell’amore essenziale cioè liberante è allora: «o amare o morire» (enten elske eller döe), mentre per l’amore immediato cioè interessato amare è «possedere l’amato» fino a proclamare: «o possedere l’amato o morire», o ottenere quest’unico o morire – un amore ch’è perciò dipendente nel peggiore dei modi poiché non si rapporta a se stesso ed ha la sua esistenza fuori di sé ed è perciò dipendente in senso peggiorativo cioè dipendente dai beni corruttibili, terrestri, temporali. Invece l’amore che ha subìto la mutazione dell’eterni­tà diventando dovere, ed ama perché deve amare, esso è indipendente perché ha la legge della sua esistenza nello stesso rapporto dell’amore all’eternità. Quest’amore non può mai diventare dipendente in senso peggiorativo (usand = non vero), poiché l’unica cosa da cui esso è dipendente è il dovere, e il dovere è anche l’unica cosa che rende liberi. L’amore immediato rende un uomo libero, ma nel momento seguente lo rende dipendente. È come nel «divenire» (Tiblivelse) dell’uomo; coll’en­trare nell’esistenza (at blive til), col diventare un «io», egli diventa libero, ma nel momento seguente egli è dipendente da questo io. Invece il dovere verso Dio rende l’uomo dipendente e nello stesso momento eter­namente indipendente. «Solo la legge [divina] può dare la libertà», e non è vero che la legge lega la libertà come non è vero che la legge faccia differenza; perché quando non c’è legge, non c’è neppure differenza poiché è proprio la legge, che fa differenza, nel fare tutti uguali davanti alla legge.

Così questo «tu devi» libera l’amore in beata indipendenza; un simile amore non sta o cade con la casualità del suo oggetto, esso sta e cade con la legge dell’eternità – ma allora appunto non cade mai –; un simile amore non dipende da questa o quella cosa, esso dipende soltanto dall’u­nica cosa che rende liberi, quindi esso è eternamente indipendente. Con quest’indipendenza nessun’altra si può paragonare. Alle volte il mondo ce­lebra l’orgogliosa indipendenza la quale si dichiara senz’alcuna inclinazione per sentire di essere amata, anche se nello stesso tempo pensa «di aver bisogno di altri uomini – non per essere amata da essi, ma per amarli, per aver qualcuno da amare». O, com’è falsa quest’indipendenza! Essa non sente nessun’inclinazione di essere amata, ed ha però bisogno di qualcuno per amare; dunque essa ha bisogno di un altro uomo – per poter soddisfare il suo orgoglioso sentimento di sé. (…) Ma l’amore che si è sottoposto alla mutazione dell’eternità diventando dovere, sente certamente un’inclinazione di essere amato e quest’inclinazione è perciò in accordo armonioso con questo «devi»; ma esso può fare a meno, se deve essere, mentre esso però continua ad amare: questa non è indipendenza? Quest’indipendenza è dipendente soltanto dall’amore stesso per via del «devi» dell’eternità, esso non è dipendente da qualcosa d’altro e perciò non dipende neppure dall’oggetto dell’amore appena questo cambia apparenza. Questo però non significa che l’amore indipendente allora cessi, si tra­sformi in orgoglioso autocompiacimento: questa sarebbe dipendenza. No, l’amore permane, è indipendenza. L’immutabilità è la vera indipendenza; ogni mutazione, tanto l’accasciarsi della debolezza come l’induramento dell’orgoglio, sia quella che supplica come quella che si compiace di se stessa, è dipendenza425. Pertanto solo colui che continua ad amare, prescindendo dal fatto di essere amato, può dire di avere un amore eternamente reso libero in beata indipendenza. Egli non dice per orgoglio – in dipendenza del suo orgoglio: no, egli lo dice con umiltà, umiliandosi sotto il «devi» dell’eternità appunto perché egli è indipendente426. Ecco perché allora la formula assoluta per la libertà assoluta è soltanto l’obbe­dienza assoluta dell’Assoluto, il «tu devi» assoluto che corrisponde a quel che Kierkegaard chiama «la purezza del cuore di volere una cosa sola»427. Cioè, volere il bene in verità e libertà cioè senz’ambiguità (Tvesindethen) la quale rende l’uomo schiavo degli uomini (Menneskenes Trael) e preda indifesa delle vicissitudini del tempo e della violenza e viltà degli uomini.

Possiamo concludere che il «tu devi» kierkegaardiano sta agli anti­podi di quello kantiano428,poiché mentre questo astrae anzi esclude il rapporto di dipendenza da Dio quello si fonda totalmente in Dio ed esige la totale dedizione a Dio nel rischio della decisione incondizionata.

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370 Schelling nella «Freiheitsschrift» del 1809 non vede contro questa argomen­tazione altra via d’uscita che salvare l’uomo con la sua libertà, poiché essa è «impensa­bile in contrasto con l’onnipotenza, nell’essenza divina stessa, dicendo che l’uomo non è fuori di Dio ma in Dio e che la sua attività stessa appartiene alla vita di Dio» (W. Schelling, Philosophische Untersuchungen…, S.W., Abt. I, Bd. VII, p. 339).

371 S. Tommaso, che concepisce lo spirito finito come ens participatum e non come fenomeno di coscienza, e perciò non semplice «momento» dell’Assoluto, ammette (d’ac­cordo con Schelling e gli immanentisti) la causalità totale e continua di Dio sulle crea­ture e sugli spiriti finiti, ma lungi dal concepire tale causalità della Causa prima come escludente, egli la pone anzi fondante la causalità e libertà della causa seconda. La ragione profonda è che Dio è il summum bonum e lo stesso esse per essentiam, quindi «… Deus movet non solum res ad operandum, quasi applicando formas et virtutes rerum ad operationem, sed etiam dat formas creaturis agentibus et eas tenet in esse». E conclude con ben maggiore profondità degli idealisti spinoziani: «Et quia forma rei est intra rem, et tanto magis quanto consideratur ut prior et universalior; et ipse Deus est proprie causa ipsius esse universalis in rebus omnibus quod inter omnia est magis intimum rebus; sequitur quod Deus in omnibus intime operetur» (S. Th., Ia, q. 105, a. 5). Perciò la Causa prima, proprio in virtù della sua totalità causativa, non sostituisce ma costituisce la causalità della Causa seconda sull’effetto: «Causa enim prima dat secundae quod influat super effectum suum» (De Ver., q. 6, a. 6; ed. Leon., Roma 1970, t. XXII, vol. 1, fol. 195, l. 123). Ed in un contesto ancor più pertinente per la dissoluzione idealistica: «Sicut autem Deus non solum dedit esse rebus cum primo esse inceperunt, sed quamdiu sunt esse in eis causat, res in esse conservans, ita non solum cum primo re conditae sunt eis virtutes operativas indidit, sed eas in rebus causat: unde cessante influentia divina omnis operatio cessaret» (C. Gent., lib. III, c. 67, Amplius. Per un maggiore sviluppo, cf. C. Fabro, Partecipazione e causalità, Torino 1961, p. 424ss.).

372 W. Schelling, Philosophische Untersuchungen…, S.W., Abt. I, Bd. VII, p. 339. Nella concezione panteistico-teosofica di Schelling si parla come in Eckhart della «nascita eterna» (ewige Geburt) ch’è Dio stesso come «libertà eterna», fondamento e inizio della sua realtà ma questo fondamento senza fondamento (Ungrund) da cui procede la creazione e la coscienza che Dio prende di sé è «senza coscienza» (bewusst-los). Così Dio non è un coscienza eterna, ma «un eterno diventar cosciente». Siffatta libertà eterna, che fonda l’essere, è un nulla poiché è una volontà che nulla vuole e da nulla è mossa, indifferente a tutto («… dem alle Dinge gleich sind» [Die Weltalter, S.W., Abt. I, Bd. VIII, p. 235]. Cf. al riguardo: F. O. Kile Jr., Die theologischen Grundlagen…, p. 97ss.).

373 M. Heidegger, Schellings Abhandlung…, p. 82ss. e 98. Secondo Heidegger questa polemica è in rapporto con la Pantheismusstreit fra Schelling e Jacobi nella quale il primo ha sostenuto precisamente che solo il panteismo come sistema può garantire la libertà in quanto «il sentimento (Gefühl) che noi abbiamo del fatto (Tatsache) della libertà include in sé una certa prenozione (Vorgriff = pre-concetto, pre-afferramento) sul tutto dell’essente e questo presentimento per il tutto dell’essente è determinato mediante una prenozione sulla libertà umana» (ibid., p. 83. Sulla polemica Jacobi-Schelling ci permettiamo di rimandare ancora alla nostra Introduzione allateismo…, t. I, p. 588ss.).

374 M. Heidegger, Vom Wesen der Wahrheit, § 4, ed. cit., p. 15. Infatti «… das Seinlassen d. h. die Freiheit ist in sich aussetzend, ek-sistent» (ibidem).

375 In questa semantica radicalizzata tutto è riportato alla superficie del puro darsi e lo stesso essere «non è», ma si dà come il dono del darsi del «c’è», come lo svelarsi del presentarsi: «Sein gehört als die Gabe dieses Es gibt in das Geben… Sein ist nicht. Sein gibt Es als das Entbergen von Anwesen» (M. Heidegger, Zur Sache des Denkens, Tübingen 1969, p. 6). Di qui, a differenza di S. Tommaso, l’eliminazione del rapporto del Sein al Seiende, per pensare il Sein unicamente in ciò ch’esso ha di proprio cioè mediante il tempo proprio – a partire dall’evento «… durch die eigentliche Zeit in sein Eigenes zu denken – aus dem Ereignis» (ibid., p. 25: è la conclusione). E pertanto l’ultimo programma è stato di «Sein ohne das Seiende zu denken» (ibid., p. 2).

376 «Die in der Wahrheit als Freiheit gewurzelte Ek-sistenz ist die Aussetzung in die Entborgenheit des Seienden als eines solchen» (M. Heidegger, Vom Wesen der Wahrheit, ed. cit. p. 15).

377 «Das Wesen der Wahrheit enthüllt sich als Freiheit. Diese ist das ek-sistende entbergende Seinlassen des Seienden» (M. Heidegger, ibid., § 5, p. 18).

378 «Das Wesen der Endlichkeit des Daseins enthüllt sich aber in der Trans-zen­denz als der Freiheit zum Grunde» (M. Heidegger, Vom Wesen des Grundes, ed. cit., p. 50). Corsivo di Heidegger.

379 «Die Offenständigkeit des Verhaltens als innere Ermöglichung der Richtigkeit gründet in der Freiheit. Das Wesen der Wahrheit ist die Freiheit» (M. Heidegger, Vom Wesen der Wahrheit, § 3, ed. cit., p. 12). Corsivo di Heidegger.

380 Sull’impossibilità del cominciamento moderno col cogito ed in particolare di quello hegeliano cioè col puro essere, Kierkegaard si è pronunciato sempre con nettezza ed energia per la ragione che siffatto pensiero puro coincide con la massima cioè totale astrazione dall’essere e dall’esistere ossia col nulla: ciò comporta la «mancanza di ogni interesse» (Interesseloshed), la stasi assoluta (cf. S. Kierkegaard, Postilla…, P. II, Sez. II, c. 3, § 2; S.V. VII, p. 304. Le cita­zioni rimandano sempre all’ed. II dei S.V., Copenaghen 1920­-1926; tr. it. di C. Fabro, Bologna 1962, t. II, p. 126; Opere, p. 433ss.).

381 Cf. spec. S. Kierkegaard, La malattia…, P. I, A; S.V. XI, p. 143ss.; tr. it., Firenze 1953, p. 215.

382 S. Kierkegaard, La malattia…, P. I. A; S.V. XI, p. 145; tr. it., p. 217. Kierkegaard perciò applica questa formula di struttura della libertà anche all’atto di fede (Tro) ch’è la scelta ultima cioè l’atto di libertà decisivo per l’essere dell’io come spirito (cf. ibid., pp. 182 e 219; tr. it., pp. 260 e 301).

383 Cf. S. Kierkegaard,  La malattia…, P. I, C; S.V. XI, p. 160ss.; tr. it., p. 235.

384 Per Kierkegaard – che apprezza in questo la teoria di Fichte sulla Einbil­dungskraft – la fantasia è il «medio dell’infinitizzazione» è la facoltà instar omnium nella quale si riflettono tutte le potenze dell’uomo: sentimento, intelletto e volontà (…) secondo un doppio movimento cioè o di concentrazione (in Dio) o di dispersione nell’astratto impedendo all’io di ritornare a sé (La malattia…, S.V. VI, p. 162; tr. it., p. 237). L’osservazione è approfondita più avanti: «Quando l’io, con una passione resa infinita dalla fantasia, si dispera per qualcosa di terrestre, la passione infinita trasforma questo [che di] particolare, questo qualcosa, nel terrestre in toto, vale a dire la determinazione della totalità dipende da chi dispera» (ibid., p. 194; tr. it., p. 273s.).

385 S. Kierkegaard,  La malattia…, P. II, c. 1; S.V. XI, p. 215; tr. it., p. 297.

386 Non si tratta ovviamente per Kierkegaard di «possibilità» semplicemente logica come assenza di contraddizione, ma in senso esistenziale ch’è la capacità attiva della libertà di porsi l’aut-aut della scelta, davanti a Dio e perciò di fare la scelta stessa mediante la quale si compie il «passaggio» nella realtà. L’espressione che ricorre più spesso è kata. du,namin ed è certamente di origine aristotelica (cf. H. Bonitz, Index Aristotelicus, 368 b 34ss. Per l’uso di kata. du,namin in Kierkegaard, cf. A. Ibsen, Sagregister, in S.V. XV, p. 221 a. L’espressione ricorre soprattutto nella Postilla conclusiva e nella Malattia mortale, p. es.: «L’io kata. du,namin non esiste real­mente, ma è soltanto ciò che deve diventare», S.V. XI, p. 161; tr. it., p. 236).

387 Sono decisive a questo riguardo le dichiarazioni del Diario posteriori ad Anti-Climacus (cf. Papirer, Copenaghen 1909-1948, X2 A 202, X2 A 328, X2 A 439, X2 A 632; tr. it., nri. 2658, 2729, 2802, 2925).

388 S. Kierkegaard, Postilla…, P. II, Sez. II, c. 3, § 2; S.V. VII, p. 360 ss; tr. it., t. II, p. 126ss.

389 S. Kierkegaard, Diario 1849-50, X1 A 139, p. 320s.; tr. it., nr. 2138, t. V, p. 167. E già in un testo di poco precedente, in polemica con Spinoza e Kant benché a diverso titolo, Kierkegaard osserva che «… l’esistenza corrisponde alla realtà singolare, al Singolo (ciò che già insegnò Aristotele): essa resta fuori, ed in ogni modo non coincide con il concetto. Per un singolo animale, una singola pianta, un singolo uomo, l’esistenza (essere – o non essere) è qualcosa di molto decisivo; un uomo Singolo non ha certo un’esistenza concettuale. Il modo col quale la filosofia moderna parla dell’esistenza mostra ch’essa non crede all’immortalità personale; la filosofia in generale non crede, essa comprende solo l’eternità dei “concetti”» (ibid., X2 A 328, p. 240, tr. it., nr. 2729, t. VII, p. 46).

390 S. Kierkegaard, Diario 1849-50, X2 A 426, p. 303; tr. it., nr. 2792, t. VII, p. 82.

391 S. Kierkegaard, Synspunket for min Forfatter-Virksomhed (del 1849, ma pubblicato postumo nel 1859; Bilag; nr. 1: Til Dedicationen «hiin Enkelte», e spec. n. 2: Et Ord om min Forfatter-Virksomheds Forhold til «den Enkelte» – S.V. XIII p. 642ss.; tr. it., Scritti sulla comunicazione, Roma 1979, t. I, p. 197ss.). Il «prossi­mo», spiega profondamente Kierkegaard, «è l’espressione assolutamente vera per l’egua­glianza degli uomini così che, se ognuno amasse veramente il prossimo come se stesso, allora sarebbe assolutamente raggiunta la perfetta uguaglianza fra gli uomini» (S.V. XIII, p. 629s.).

392 Del resto questo argomento è accennato ripetutamente anche nella Postilla ove si legge espressamente che Dio «… creando comunica in modo da dare creando l’indipendenza rispetto a sé» (cf. Postilla…, P. II, Sez. II, c. 2; S.V. VII, p. 246; tr. it., t. II, p. 69).

393 Il testo ispiratore di quest’introduzione al testo potrebbero essere le Philoso­phische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit (1807) di Schelling, le quali si occupano in particolare sulla possibilità (Möglichkeit) e sul cominciamento (Anfang) del male, dove Schelling distingue un fondamento (Grund) in Dio e uno fuori di Dio (S.W., Abt. I, Bd. VII, spec. p. 364ss.). Può darsi, ma non ho indicazioni precise, che siano state probabilmente queste astruserie dello spinoziano Schelling a provocare il testo mirabile kierkegaardiano. Più evidente però sembra l’influsso di Fichte e di Hegel.

394 Aristotele e tutto il pensiero greco ha ignorato la creazione e quindi ogni effettiva causalità totale di Dio sul mondo e sull’uomo.

395 «Cum igitur Deus sit extra totum ordinem creaturae, et omnes creaturae ordinentur ad ipsum, et non e converso, manifestum est quod creaturae realiter referuntur ad ipsum Deum; sed in Deo non est aliqua relatio eius ad creaturas, sed secundum rationem tantum, in quantum creaturae referuntur ad ipsum» (S. Tomma­so, S. Th., Ia, q. 13, a. 7 conclusio. Cf. ibid., q. 45, a. 3 ad 1um cum locis parallelis). L’affinità con la posizione tomistica era stata già avvertita da H. Roos, Søren Kierkegaard og Katolicismen (Copenaghen 1952, p. 29s.) ed è segnalata da G. Malantschuck, Frihedens Problem i Kierkegaards Begrebet Angest, Copenaghen 1971, p. 80, n. 89.

396 Cf. a questo proposito la dottrina tomistica della causalità totale di Dio sulla causa creata, libertà compresa, come causa principale seconda (S. Th. Ia, q. 105, aa. 4-5. – Cf. C. Fabro, Partecipazione e causalità, ed. cit., pp. 370ss., 394ss., 420ss.).

397 S. Kierkegaard, Diario 1847, VII1 A 181, pp. 116s.; tr. it., nr. 1266, t. III, p. 240s. – Una variazione poetico-religiosa pressoché contemporanea, introdotta in un Discorso edificante, riprende il medesimo concetto con maggiore concisione: «Molto spesso nel mondo gli uomini discutono scontenti sulla dipendenza e dell’indipendenza, sulla felicità di essere indipendenti e del peso di essere dipendenti. Eppure né il lin­guaggio né il pensiero umano hanno mai trovato un’immagine più bella dell’indipenden­za del… povero uccello del cielo; eppure non c’è discorso più strano di quello che l’uomo debba essere così pesante per essere… leggero come l’uccello! Essere dipen­dente dal proprio tesoro, questa sì ch’è dipendenza e una pesante schiavitù; essere dipendenti da Dio, completamente dipendenti da lui, questa è indipendenza. Il colombo preoccupato temeva stoltamente di diventare completamente dipendente da Dio, per questo cessò di essere il povero uccello del cielo ch’è completamente dipendente da Dio. La dipendenza da Dio è l’unica indipendenza, perché Dio non pesa come pesano le cose terrestri e specialmente i tesori della terra: colui invece che dipende completamente da Dio, egli è leggero. Così il povero quando, contento di essere uomo, contempla gli uccelli nel cielo, li contempla… nel cielo – a cui guarda sempre l’orante» (S. Kierkegaard, Hvad vi laere ol Lilierne paa Marken og al Himmelens Fugle, S.V. VIII, p. 315s.).

398 L’accusa di «disonestà» (Uredelighed) è il tema dell’Introduzione alla Dialet­tica della comunicazione etica ed etico-religiosa (Diario 1847, VIII2 B 81, 1, ma spec. 86, p. 168ss.; tr. it. di C. Fabro, nel volume Studi Kierkegaardiani [in collab.], Bre­scia 1957, pp. 365ss.).

399 S. Kierkegaard, Diario 1854, XI1 A 284, p. 227s.; tr. it., nr. 4026, t. X, p. 225.

400 S. Kierkegaard, ibid., XI1 A 590, p. 443s.; tr. it., nr. 4217, t. XI, p, 122.

401 Cf. spec. S. Kierkegaard, Diario 1854-55, XI2 A 205, p. 223; tr. it., nr. 4354, t. XI, p. 244.

402 Già Victor Eremita, indagando la dialettica misteriosa del primo amore, presenta la «essenza di ogni amore come una sintesi di libertà e necessità» («At Kjaerligheds Vaesen er Eenhed of Frihed og Nodvendighed», Enten-Eller, S.V. II, p. 48s.). Di lì a poco ritorna la stessa definizione: «L’individuo si sente attirato da una forza irresistibile all’altro individuo, ma proprio in questo egli sperimenta (föler) la sua libertà» (ibid., p. 51). Nella fase più matura del suo pensiero, specialmente a partire da Anti-Climacus, la libertà è ancorata tutta alla necessità ch’è riferita da una parte all’immutabilità dell’Assoluto, ch’è l’oggetto primo della scelta, e dall’altra alla fedeltà immutabile dell’amore da parte di chi deve scegliere, come ora si è visto.

403 S. Kierkegaard, Diario 1849-50, X2 A 396, p. 280s.; tr. it., nr. 2771, t. VII, p. 70.

404 Cf. lo sviluppo di questo punto capitale nel già citato «Discorso d’occasione» ove si mostra che la costrizione è liberante quand’è accettata con pazienza davanti a Dio: «La pazienza è il rimbalzo dell’elasticità col quale chi è costretto si rende libero nella  costrizione» in quanto la salvezza è fondata sulla «decisione dell’eterni­tà» (Ewiges Afgjörese). Così quando S. Paolo si proclamò: «Io sono un cittadino romano», il governatore non poté imprigionarlo ed egli rimase in «libera prigionia» (frit Fangeskab). Quando l’uomo può dire: io sono un libero cittadino dell’eternità, la necessità non può imprigionarlo se non in «libera prigionia» (S.V. VIII, p. 249s.).

405 Cf. S. Kierkegaard, La malattia…, S.V. XI, p. 167; tr. it., ed. cit., p. 243.

406 S. Kierkegaard, Lequilibrio fra lestetico e letico, S.V. II, p. 188. Il male non è perciò un costitutivo ontico aderente alla finitezza dell’essere e risolventesi in essa, come pretende la filosofia moderna dopo Spinoza e soprattutto dopo Kant. Kierkegaard conclude perciò con prontezza: «Mostrerò più in là che per questo io non arrivo ad ammettere il male radicale» (ibidem).

407 Il danese ha l’espressione intensiva «en Tanke-Uting» (S.V. IV, p. 354) = un’assurdità per il pensiero.

408 S. Kierkegaard, S.V. VIII, p. 366; tr. it., Fossano 1971, p. 97.

409 Kierkegaard qui rimanda a Leibniz. Gli Editori citano: Theodicée, § 319, ma forse era meglio rimandare ai §§ 46-49 dove Leibniz discute e critica «… cette fausse idée d’une indifférence d’équilibre» che Molina e i Molinisti opponevano ai Tomisti, una posizione assurda – come qui dice Kierkegaard – che ha avuto la sua caricatura nell’esempio dell’asino di Buridano («le cas de l’âne de Buridan entre deux prés» [ibid., ed. Gehrardt, t. VI, p. 129]) il quale appunto, posto fra due corbe di fieno perfettamente uguali, se ne morì di fame!

410 S. Kierkegaard, Il concetto…, c. IV, p. 420; tr. it., Firenze 1953, p. 140s. Sorprende perciò che in questa tesi, dedicata allo studio della soggettività in Kierkegaard, si parli della «soggettività esistenziale come finitezza della libertà» (cf. J. L. Blass, Die Krise der Freiheit im Denken Søren Kierkegaards, Ratingen bei Düsseldorf 1968, p. 55ss.). Questo scambio della posizione di Kierkegaard con quella di Heidegger ha inquinato l’origine spuria dell’esistenzialismo ed è duro a morire. Ma Heidegger ha espressamente distinto (e opposto) la sua posizione da quella di Kierkegaard.

411 Queste considerazioni del «momento» (Oejeblikket) platonico sono riprese più ampiamente in una nota del Concetto dellangoscia ove si mostra il capovolgimento che il cristianesimo ha operato con il «momento» in quanto esso viene riferito all’eternità e con esso l’eternità diventa esistenziale (cf. S.V. IV, p. 388ss.).

412 M. Heidegger, Sein und Zeit5, § 74, p. 385. Il circolo dell’immanenza, nel senso di lasciar essere dell’essente nella sua finitezza, è affermato alcune righe prima: «In der Mitteilung und im Kampf wird die Macht des Geschickes erst frei» (p. 384).

413 S. Kierkegaard, Enten-Eller, P. II; S.V. II, p. 232.

414 S. Kierkegaard, Enten-Eller, P. II; S.V. II, p. 292.

415 S. Kierkegaard, Il concetto…, c. IV; S.V. IV, p. 431s; tr. it., p. 154ss.

416 S. Kierkegaard, La malattia…, P. II, c. 3: «Che il peccato non è una negazione ma una posizione» (S.V. XI, p. 237; tr. it., p. 321).

417 S. Kierkegaard, La malattia…, p. 201s.; tr. it., p. 282.

418 C. Fabro, «Kierkegaard critico...», p. 529ss.

419 S. Kierkegaard, Diario 1849-50, X2 A 438, p. 310s.; tr. it., nr. 2801, t. VII , p. 89 (Kierke­gaard s’ispira all’importante opera di J. Müller, Die christliche Lehre von der Sün­de, Breslau 18493).

420 S. Kierkegaard, Diario 1849-50, X2 A 404, p. 287; tr. it., nr. 2777, t. VII, p. 75.

421 A questo riguardo i due modelli più insigni sono Abramo e Maria, accomuna­ti insieme in Frygt og Baeven (S.V. III, p. 128s.; tr. it., Timore e Tremore, in Opere, p. 70s.).

422 S. Kierkegaard, Diario 1849-50, X2 A 428, p. 304s.; tr. it., nr. 2793, t. VII, p. 84. Kierke­gaard vuol dire che l’uomo per quanto rifletta, finché non ha scelto Dio, non può mai agire in modo decisivo: la riflessione subentrerà subito come «l’equilibrio delle possibilità… la quale a cinque possibilità può contrapporre altre cinque contropossibi­lità» (Diario 1849, X1 A 66, p. 52; tr. it., nr. 2098, t. V, p. 144). L’effetto della riflessione è l’indifferenza e non a caso il razionalismo si è arenato alla libertas indifferentiae.

423 S. Kierkegaard, Diario 1852, X4 A 581, pp. 397ss.; tr. it., nr. 3653, t. IX, p. 140. Altri testi non meno vigorosi in questo senso: X4 A 613:«Solo l’Assoluto può portare un uomo» (tr. it., nr. 3669, t. IX, p. 150); XI1 A 95: «La “notte dell’Assoluto”» (tr. it., nr. 3878, t. X, p. 122).

424 S. Kierkegaard, Kjerlighedens Gjerninger, 1847 (S.V. IX, per intero). L’ope­ra, ch’è il capolavoro dell’etica teologica di Kierkegaard, è divisa in due parti: la prima tratta del «dovere» di amare, mentre la seconda è un commento alla «dottrina paolina dell’amore» (1Co 8,2 e 13,7.5.13). Ora pubblicato presso l’editore Ru­sconi (Milano 1983) in una nostra traduzione integrale.

425 A questo rapporto dell’Assoluto, che fonda positivamente l’infinità della libertà, corrispondono per tappe i momenti (negativi) di liberazione dal finito: anzitutto l’ironia nel passaggio dallo stadio estetico allo stadio etico, l’humor e la rassegnazione nel passaggio dallo stadio etico a quello religioso ed il pentimento ch’è l’antitesi della disperazione in cui si consuma la vita estetica (cf. le annotazioni di G. Malantschuck, «La dialectique de la liberté selon Søren Kierkegaard», RSPT [1958] p. 720ss.).

426 S. Kierkegaard, Gli atti dellamore, S.V. IX, p. 50ss. Nell’ultima elevazio­ne (IX), dedicata all’«atto di amore di ricordare un defunto», Kierkegaard svolge il pensiero che questo è «l’atto di amore il più libero» per la ragione che qui manca ogni causa di costrizione e perciò si afferma che «più forte è ciò che obbliga e meno libero è l’amore» (Jo staerkere det Nödende er, jo mindre fri er Kjaerligheden). Un principio ch’è solo in apparenza in contrasto con quello fondamentale fin qui, e ovunque, esposto da Kierkegaard poiché qui si tratta di costrizione e obbligazione che viene dall’esterno e dalle cose finite (p. 396s.).

427 «Hiertets Reenhed er at ville Eet». È il tema del «Discorso d’occasione» del 1847 (S.V. VIII, p. 153ss.).

428 La nostra ricerca voleva chiarire la rigorosità che ha la fondazione speculativa della libertà in Kierkegaard (contestata com’è noto, da Heidegger) e che essa segue un indirizzo (d’accordo in questo con Heidegger) [ma] diametralmente opposto a quello di Heidegger. [Nota del curatore: Il «ma» avversativo manca nella prima pubblicazione dell’articolo, in Studi di Filosofia in onore di Gustavo Bontadini, Milano 1975, p. 116].

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