IV. I principi dottrinali

1. La struttura del conoscere

Sia un puro platonismo come un puro aristotelismo sono incompatibili con la fede cristiana secondo la quale il mondo è creato da Dio e ha quindi una propria consistenza di realtà e verità e non è mero regno di ombra e parvenze, ma è anche creato da Dio secondo le «Idee» divine e fatto per la sua gloria: si può affermare che tutta l’opera tomista gira attorno a questo tema centrale. È in questo mondo quindi che l’uomo deve anzitutto conoscere la verità e vedere il riflesso stesso di Dio. Però l’anima dell’uomo, dotata del principio del conoscere ch’è l’intelletto, è secondo il cristianesimo di natura sopramondana e di origine divina così che l’uomo per via dell’intelligenza è detto «a immagine di Dio»; è con questo principio biblico che la patristica greca e s. Agostino hanno distinto nell’uomo una conoscenza empirica e contingente mediante l’esperienza del mondo sensibile (ratio inferior) ed una conoscenza assoluta delle prime verità incommutabili attinte per divina illuminazione (ratio superior). Così lo spirito umano nella sua parte superiore, quando si purifica e si accosta a Dio, partecipa alla sua assoluta verità1 e si sottrae alla contingenza delle cose corruttibili.

Tuttavia stava a vantaggio di Aristotele (come di Eraclito, degli stoici… che hanno avuto risonanze dirette nella letteratura patristica) il considerare questo mondo sensibile impregnato del lo,goj divino: la «forma sostanziale», ch’è l’atto delle sostanze| materiali, è detta essere «qualcosa di divino» (cf. Physic. I, 9, 192 a 16), d’accordo con la dottrina cristiana secondo la quale nelle creature si trova una «similitudine» della divinità e che l’uomo può e deve dalle cose sensibili assurgere alla conoscenza di Dio (Sap. 13, 1; Rom. 1, 19). La stessa dottrina aristotelica dell’intelletto agente (nou/j poihtiko,j: De An. III, 3, 430 a 10), che fu lo scandalo principale dell’agostinismo medievale, conferiva di fatto all’uomo una consistenza e dignità ontologica, che è richiesta dalla stessa nozione cristiana di persona come agente consapevole e responsabile. Ancora, il mondo aristotelico disposto secondo una mirabile gerarchia di perfezione, a partire dagli esseri inorganici fino all’uomo intelligente, alle intelligenze pure e a Dio, pensiero che a sè tutto attira – il cielo e la terra – come «oggetto di amore» (w`j evrw,menon: Metaph., XII, 7, 1072 b 3), insinuava una «presenza di Dio» al mondo e del mondo a Dio che giustifica appieno questo fenomeno (forse il più complesso per la storia della cultura cattolica): che il Dottore ufficiale della Chiesa abbia cambiato radicalmente rotta rispetto alla tradizione patristica. Così, nell’aristotelismo, il «concetto di verità» come «conformità» dell’intelletto con il reale (cf. Metaph., II, 1, 993 b 31) è calato in terra e nella stessa mente umana e non rimandato all’indefinito, ma impegna direttamente ciascuno di fronte all’essere e può fondare nell’ordine morale la responsabilità del merito e del demerito che sta a fondamento dell’etica e dell’escatologia cristiana. Infine, e approfondendo questa metafisica dell’atto aristotelico, la nozione aristotelica di sostanza con i suoi due elementi di sussistenza (ouvsi,a) e di inerenza (u`pokei,menon) si mostrava particolarmente adatta a spiegare come il singolo reale potesse a un tempo rimanere continuo e consistente nel suo essere e insieme seguire un ciclo di sviluppo mediante gli accidenti materiali e spirituali. E ciò è quanto mai necessario nella concezione cristiana dello sviluppo umano e corrisponde anche al concetto cristiano di «storia» come sviluppo effettivo su questo mondo temporale del piano divino di salvezza dell’umanità2. La situazione è quindi come se un aristotelismo di struttura si trovasse di per sè in consonanza fondamentale con i presupposti del cristianesimo sulla struttura dell’essere finito: in questo senso non meraviglia che il predominio platonico nella patristica abbia provocato quasi tutte le eresie trinitarie e cristologiche.|

Il realismo aristotelico di s. T. corrisponde a questa maturità raggiunta dalla coscienza cristiana che considera un maggior titolo di onore per la divina Onnipotenza che anche la creatura sia dotata di vera realtà e di propria attività (cf. C. Gent., III, 21 e 69; Sum. Theol., 1a, 105, 5, ecc.): così l’uomo ha nella sua intelligenza il principio immediato del suo intendere e non nella divina illuminazione ch’è evidentemente presupposta. Nei primi scritti di s. T. si rileva qualche traccia dell’estrinsecismo agostiniano nell’affermazione che i «primi principi» sia del conoscere come dell’agire morale «preesistono» in noi naturaliter, come semina delle scienze e delle virtù e sono perciò quodammodo innata (cf. De Ver., q. 14, a. 2; In II Sent., dist. 24, q. 2, a. 3 e passim). Ma al contatto più diretto del testo aristotelico s. T. afferra presto l’importanza della dottrina della evpagwgh,3 intesa come la progressiva conquista che l’intelletto umano fa della verità nel fermentare dell’esperienza. Questo processo che Aristotele descrive per rapidi cenni, s. T. l’ha approfondito, con l’aiuto della tradizione greca e araba4. Il principio fondamentale della gnoseologia aristotelica è che l’unica forma di conoscenza intuitiva e diretta che attinge l’esistenza è data dal senso: colori, suoni, sapori… sono per l’uomo la prima attestazione della presenza dell’essere alla coscienza ed è sintomatico che Aristotele si riferisca a questa presenza per la fondazione indiretta del «principio di contraddizione» (cf. Metaph., IV, 3, 1010 b sgg.). Questo processo dell’induzione sperimentale dell’intelligibile presenta tre tappe principali che corrispondono ai tre «piani oggettuali» della coscienza umana.

1) C’è la prima sintesi formale mediante i cosiddetti «sensibili comuni» (cf. De Anima, II, 6, 418 a 17 sgg.; III, 1, 425 b 2 sgg.) che organizzano i contenuti immediati di esperienza in unità percettive immediate, sia statiche come di movimento (percezione delle figure, dei numeri, dello stato di quiete e di moto…). S. T. ha insistito con energia, contro l’interpretazione della corrente averroista, a rivendicare queste prime sintesi alla percezione dei sensi esterni e così restava assicurata la continuità fra le sintesi conoscitive e l’attestazione immediata del reale nella sensazione.

2) Segue la sintesi reale dei valori concreti della vita| vissuta che s. T. chiama intentiones, a differenza dei contenuti neutri delle sfere precedenti che sono detti formae. È in questa zona che si dispiega propriamente la evpagwgh,, perchè nell’ambito della sensazione diretta (sensibili propri e comuni) non si può parlare di sviluppo che in modo secondario e in dipendenza delle sfere superiori.

Questo sviluppo delle sintesi reali viene a constituire l’oggetto nella concretezza dell’accumulo dell’esperienza ed è perciò demandato all’opera dei «sensi interni» che s. T. divide in due gruppi: i sensi formali (senso comune e immaginazione) e i sensi intenzionali (cogitativa e memoria con la reminiscenza; Sum. Theol., 1a, q. 78, a. 4). La facoltà chiave della gnoseologia tomista è la cogitativa, appena accennata da Aristotele ma sviluppata dalla tradizione greco-araba e specialmente da Averroè. Alla cogitativa, detta anche ratio particularis, competono infatti le seguenti funzioni: a) apprendere i contenuti di valore o intentiones insensatae (Sum. Theol., loc. cit.); b) giudicare dei sensibili comuni e dei sensibili propri (De Ver., q. I, a. 11); c) preparare il phantasma da cui l’intelletto possa astrarre la conoscenza dell’essenza (C. Gent., II, 60; cf. ibid., cc. 73, 80, 81); d) percepire in concreto quelle nozioni ontologiche fondamentali (realtà, sostanza, causa, relazione… e gli altri predicamenti) che l’intelletto afferra poi nell’universalità dell’astrazione (Comm. in II De An., lect. 13, n. 396). Su questa base s. T. pone che l’oggetto proprio della mente umana sono le essenze delle cose materiali.

3) La conoscenza reale delle essenze corporee mediante la «conversione ad phantasmata» che costituisce il momento costitutivo del processo di astrazione proprio dell’intelletto umano: «Unde natura lapidis vel cuiuscumque materialis rei, cognosci non potest complete et vere nisi secundum quod cognoscitur ut in particulari existens. Particulare autem cognoscimus per sensum et imaginationem: et ideo necesse est ad hoc quod intellectus actu intelligat suum objectum proprium quod convertat se ad phantasmata ut speculetur naturam universalem in particulari existentem» (Sum. Theol., 1a, q. 84, a. 7). In realtà per s. T.: a) è mediante lo experimentum (evmpeiri,a aristotelica), in cui si esercita la cogitativa, che l’intelletto umano dai fatti e dalle esperienze singole ascende alla conoscenza dell’universale e alla stessa formulazione dei primi principi (cf. In II Post. Anal., lect. 20; ed. Parm., t. XVIII, p. 224 b. E prima, l. I, lect. 42: «Universale non cognoscitur sensu, sed ex pluribus singularibus visis in quibus multoties consideratis [= experimentum] invenitur idem accidere, accipimus universalem cognitionem». Ibid., p. 171 a);|   b) è mediante la cogitativa che l’intelletto umano percepisce indirettamente le sostanze singolari… il mio amico Pietro (Sum. Theol., 1a, q. 86, a. 1; Q. De An., a. 20 ad 1 sec. ser.) e si compie quella reflexio che assicura e mantiene il contatto indiretto, ma tuttavia immediato, dell’intelletto e della coscienza umana come tale con la realtà del mondo esterno; c) È ancora mediante questa cogitativa, e ormai lo si comprende, che l’intelletto umano s’inserisce nella realtà concreta, dispone delle cose particolari e può esercitare il giudizio morale, perchè è la cogitativa che fornisce la «minore» del sillogismo prudenziale (De Ver., q. 10, a. 5 e ad 2). La cogitativa tomista opera quindi il raccordo fra l’intelletto e il senso sia nella funzione ascendente come in quella discendente, e parimenti fra la volontà deliberante e l’appetito concupiscibile e irascibile: in essa quindi si viene raccogliendo quella che forma la materia delle attuazioni superiori dello spirito, la scienza e la virtù. Così s. Tommaso non ha scelto fra i due membri dell’alternativa platonismo-aristotelismo (come vuole E. Hoffmann, art. cit., p. 67), ma ne ha accolto le opposte istanze di trascendenza e d’immanenza in un piano superiore mediante la nozione di partecipazione. Infatti la cogitativa è in grado di compiere le funzioni mirabili ora indicate in quanto «partecipa» dell’intelligenza per una certa qual forma di continuità funzionale: «Cogitativa est quod est altissimum in parte sensitiva, ubi attingit quodammodo ad partem intellectivam ut aliquid participet eius quod est in intellectiva parte, infimum scilicet rationis discursum secundum regulam Dionysii» (De Ver., q. 14, a. 1, ad 9).

A questo punto, alla prima fase di prevalenza dell’immanenza aristotelica, succede la fase di prevalenza platonica nel senso del trascendentalismo ontologico sopra indicato. L’intelletto umano e i primi principi, sia dell’ordine speculativo (intellectus propriamente detto) come della sfera pratica (synderesis), attingono il valore assoluto in quanto sono «partecipazione del lume divino in noi e della legge eterna» (cf. Sum. Theol., 1a-2ae, q. 91, aa. 2-3). S. T., per indicare questo che potrebbe dirsi il «momento trascendentale» del conoscere umano, ricorre anche al termine che avrà fortuna nella letteratura mistica di scintilla animae (cf. In II Sent., dist. 39, q. 3, a. 1)5. L’originalità della dottrina tomista della conoscenza (e| di quella corrispondente dell’atto umano in quanto ambedue si muovono sulla piattaforma della «cogitativa») è di aver anzitutto tenuto saldo e sviluppato il principio aristotelico dell’immanenza dell’atto in tutta la linea: l’umanità, e così anche l’anima e l’intendere e il volere e il sentire…, costituiscono la realtà e l’atto sostanziale o operativo della sostanza singola. Insieme però ogni atto, forma e attività inferiore, si trovano ancorati a quella superiore come sua partecipazione così l’avere ciascuno in questo rapporto il suo assunto metafisico, e in generale ogni realtà e perfezione è qualcosa di partecipato che va fondato nella perfezione assoluta per essenza ch’è Dio. Ambedue i momenti, si noti bene, sono egualmente costitutivi dalla sintesi tomista: il momento aristotelico, in quanto le cose anzitutto sono e operano, non per partecipazione ovvero secondo mera derivazione, ma perchè sono dotate di principi propri nell’ordine ontologico… Sono questi principi che Dio ha dati alle cose quelli che le costituiscono e le fanno agire. Tuttavia c’è anche il secondo momento: oltre questa prima, che si può dire participatio causalis, comune a tutta la filosofia cristiana, c’è in s. T. anche il momento più intimo di una participatio formalis di derivazione neoplatonica che tenterà d’imporsi in forma esclusiva con Eckhart. Anzitutto, l’espressione che l’intelletto agente con i primi principi è «una partecipazione del lume divino in noi» (cf. De Ver., q. 10, a. 6; De spir. creat., a. 10) non ha significato puramente causale perchè è mediante l’intelletto, come apice supremo della mente, che l’uomo «attinge» Dio e resta in una certa qual continuità con Lui. Poi, e questo secondo momento segue e compie il primo, l’intelletto in ogni giudizio di verità non ottiene la sua definitiva certezza se non per virtù divina. Si è quindi al di là sia del platonismo come dell’aristotelismo e l’ultimo s. T. ha raggiunto una formola pregna di significato: Dio aiuta l’uomo all’intendere non soltanto 1) in quanto gli propone gli oggetti o 2) gli aumenta il lume dell’intelligenza, ma anche 3) perchè il lume naturale che lo fa intelligente viene da Dio «et 4) per hoc etiam quod cum Ipse sit veritas prima, a quo omnis alia veritas certitudinem habet, sicut secundae propositiones a primis principiis in scientiis demostrativis, nihil intellectus certum fieri potest, nisi virtute divina, sicut nec conclusiones fiunt certae in scientiis nisi secundum virtutem primorum principiorum»6. Quando si ha cura che la dottrina tomista del|l’astrazione, in cui si esprime il nucleo del realismo tomista, sia collocata fra questi due poli della cogitativa che raccoglie l’esperienza della vita vissuta perchè partecipa dell’intelligenza, e della stessa intelligenza che attinge la verità assoluta dei principi perchè è garantita nelle sue certezze dalla «presenza» ovvero dall’assistenza della verità divina, la dottrina tomista sfugge all’accusa di «naturalismo» fatta dai seguaci dell’augustinismo medievale e dall’idealismo moderno.

2. La struttura dell’essere. L’emergenza dell’atto (polemica contro l’agostinismo e l’averroismo)

L’agostinismo medievale aveva costituito, sotto l’autorità del grande Dottore africano, una sintesi di elementi di origine assai eterogenea, ma tenacemente connessi in virtù di una gelosa tradizione che aveva sviluppato le conseguenze della sua preferenza per Platone contro Aristotele. In metafisica esso ammetteva una certa attualità della materia prima; poi, identificava la potenza o recettività con la materia così che nell’essenza di ogni creatura entra a far parte la materia: nelle creature corporali la materia corporale, nelle spirituali la materia spirituale (ilemorfismo universale). Inoltre, e di conseguenza, poichè il genere come elemento logico indeterminato corrisponde alla materia ch’è l’elemento ontologico indeterminato, ammetteva in ogni sostanza tante materie e tante forme quanti sono i generi logici e le corrispondenti differenze presenti nella sua nozione: p. es., nell’uomo, quelle di sostanza, corpo, vivente, animale, razionale e, nell’individuo, Pietro…, in tutto quindi almeno sei materie e altrettante forme (molteplicità delle forme sostanziali).

Il principio metodologico di questo realismo esagerato è la corrispondenza diretta fra l’ordine logico e l’ordine ontologico; il genere è la materia e la differenza è la forma, le parti della definizione sono anche le parti delle cose. Qualcuno7 ha osato rivolgere allo stesso s. T. la medesima accusa di «parallelismo» fra l’ordine logico e quello ontologico8. Del resto basta leggere l’esposizione critica e la confutazione di Avicebron di una precisione assoluta che s. Tom|maso ne dà nel De Subst. sep., (cc. 5-8). Il «primo momento» della metafisica tomista è il concetto aristotelico di atto nel senso di «perfezione» in sè e per sè, quindi come affermazione e positività ontologica: l’atto è allora per natura sua «prima» della potenza (Metaph., IX, 8, 1049 b 4 sgg.) sia che l’atto sia inteso come l’attività operante (evne,rgeia, e;rgon: loc. cit., 1050 a 21-23) sia che indichi la forma ch’è l’atto primo quiescente (evntele,ceia) da cui si origina ed a cui ritorna l’operazione. A questo modo, benchè si debba dire che le essenze corporali sono composte di due principi, la materia e la forma che sono le «parti dell’essenza » (Metaph., VII, 10, 1034 b 2 sgg.), tuttavia l’essenza nel suo aspetto metafisico gravita sulla forma ch’è l’atto (ibid., VII, 11, 1036 b 12). S. Tommaso accolse senza riserve questo «primato dell’atto» e individuò il vero responsabile diretto della posizione avversaria nel filosofo arabo-giudeo Ibn-Gìbhîrôl (Avicebron) che ha spiegato la realtà degli esseri «risolvendo» nella potenza invece che nell’atto come invece fecero Platone e Aristotele. Col concetto di atto, emergente sulla potenza, s. Tommaso può demolire il principio fondamentale del realismo esagerato: genere e differenza sono «concetti» che si unificano nella definizione della specie e non possono perciò indicare realtà distinte: come concetti espressivi, l’uno e l’altro indicano delle formalità. Nella definizione che dev’essere in sè unita di genere e differenza, essi indicano la stessa unica natura specifica ma in modo diverso: il genere nell’elemento indeterminato e la differenza nell’elemento determinante, la specie nel tutto della sintesi (cf. In VII Metaph., lect. 9, n. 1463). Perciò la composizione logica di genere e differenza non è per sè e da sola argomento di materialità, ma questa deve risultare per altra via cioè dai dati dell’esperienza. Ma anche nelle sostanze materiali, genere e differenza come elementi della definizione si può dire che corrispondono alla materia e forma della sostanza concreta soltanto indirettamente ovvero «proporzionalmente»9: cioè il genere, ch’è l’elemento indeterminato della definizione, corrisponde alla materia ch’è il principio puramente potenziale, e la differenza ch’è elemento specificante corrisponde alla forma ch’è il principio attuale. Perchè, quando d’altronde consta ch’esistono sostanze assolutamente spirituali, il genere e la differenza della loro definizione non indicano più due principi ontologici opposti ma esprimono la stessa realtà formale| considerata prima nella sua indeterminatezza e poi nel carattere distintivo dei singoli spiriti. Così gli Angeli o intelligenze pure possono essere detti composti di genere e differenza senza che ciò comporti materia alcuna: perchè le forme spirituali sussistenti sono dotate della «potenza dell’intendere», la quale può ricevere le forme intelligibili universali e senz’alcun limite e quindi ricevono l’atto in un modo diametralmente opposto (per oppositam quamdam rationem) alla materia che riceve soltanto le forme individuali (De Spir. creat., a. 1, ad 2 e ad 24). Gli Angeli (e l’anima umana) allora sono semplici nell’ordine essenziale sono cioè forme per sè sussistenti: cioè di sostanza e accidenti, di essenza e di atto di essere.

A questo modo s. Tommaso ha dato, un nuovo concetto di atto e di potenza perchè l’atto è posto nella sua purezza metafisica come «perfezione» = affermazione dell’essere, e la potenza come «capacità di ricevere» (la perfezione) = negazione come privazione. Di qui due conseguenze capitali per s. Tommaso: a) la potenza non si dice soltanto in un sol modo, cioè come materia prima soltanto, ma in tanti modi quante sono le forme di essere «soggetto» dell’atto, e tutto ciò che prende e condiziona l’atto è potenza. Potenza non è solo la materia prima, ma anche, ad es., il corpo umano pur così complesso: «Esse subjectum non consequitur solam materiam quae est pars substantiae, sed universaliter consequitur omnem potentiam» (De subst. sep., cap. 7; ed. De Maria, p. 231); b) la materia prima, ch’è potenza pura, è soltanto soggetto e non ha perciò alcun atto, e tutta la sua attualità viene dalla forma così che neppur Dio può far esistere la materia senza la forma (Quodl. III, q. I, a. 1).

Dal nuovo concetto di atto (e potenza) deriva il «secondo» momento della metafisica tomista, cioè la tesi più avversata durante la vita di s. Tommaso, quella dell’unità della forma sostanziale in tutti i corpi anche nei viventi e nello stesso uomo dotato di anima spirituale, e quindi l’ammissione che l’anima spirituale è per sè e immediatamente la forma sostanziale del composto umano. Una pluralità di «forme», sia pur ordinate e subordinate all’anima spirituale, od anche l’ammissione soltanto di una forma intermediaria (forma corporeitatis), distruggerebbe l’unità essenziale dell’uomo perchè l’anima spirituale come ultima forma sarebbe semplice forma perfettiva e quindi accidentale. Alla difficoltà teologica, causa principale della controversia, che il corpo di Cristo «in triduo mortis» separato dall’anima, non poteva nella posizione aristotelica dirsi| più corpo di Cristo se non «aequivoce» (cf. De An., II, 412 b 21), s. Tommaso accetta espressamente la conseguenza ma non ne vede alcun danno in sede dogmatica perchè il corpo morto di Gesù, benchè separato dall’anima restava sempre unito ipostaticamente alla divinità del Verbo (cf. Quodl. III, q. II, a. 5 e ad 1). L’identica anima razionale, unica forma sostanziale, conferisce all’uomo non solo la spiritualità ma anche i gradi ontologici inferiori: «Sic ergo dicimus quod in hoc homine non est alia forma substantialis quam anima rationalis, et quod per eam homo non solum est homo, sed animal et vivum et corpus et substantia et ens» (De spir. cr., a. 3; ed. Keeler, p. 44, 1 sgg.). Quindi l’anima intellettiva è virtualmente le forme inferiori, cioè contiene le potenze anche sensitive e vegetative che operano mediante il corpo (cf. Sum. Theol., 1a, q. 76, aa. 3-5): così Aristotele afferma delle figure geometriche che la figura superiore, ad es., il quadrato, contiene l’inferiore, il triangolo, e che le essenze sono «come i numeri» i quali differiscono secondo addizione o sottrazione di unità (cf. De An., II, 3, 414 b 28; Metaph., VII, 6, 1043 b 34).

In questo «terzo» momento della metafisica tomista dell’atto si pone la difesa, contro la tesi capitale dell’averroismo, dell’individualità personale del principio spirituale. La confutazione si svolge in due momenti: 1) momento fenomenologico, ch’è l’autocoscienza intesa come consapevolezza individuale che ognuno ha di essere lui, il singolo N. N., colui che intende, vuole, ama, ecc…; hic homo intelligit. L’intelletto (e il volere) è atto, perfezione individuale dalla quale dipendono tutti gli altri valori del singolo come uomo ch’è persona: questa autocoscienza sta a fondamento di tutta la vita umana, dei doveri e dei diritti di ciascuno come uomo singolo. Perciò si tratta di «fondare» questo fatto in sede metafisica; 2) momento metafisico, in quanto la coscienza dell’intendere (atto secondo) – ch’è un «prius» assoluto nella vita spirituale – si può spiegare soltanto ammettendo che ogni singolo uomo è dotato di una propria anima spirituale individuale (atto primo) che è a un tempo la forma sostanziale del corpo ed emerge sul corpo con le funzioni spirituali: in tanto si può attribuire al singolo l’atto secondo (l’intendere), in quanto al medesimo appartiene anche l’atto primo (il principio sostanziale intellettivo; De Unit. intell. c. Averroistas, c. 3 § 80; ed. L. W. Keeler, p. 50 sgg.). Evidentemente l’anima spirituale è forma sostanziale del corpo in quanto è principio delle funzioni vegetative| e sensitive e non in quanto è principio delle funzioni intellettive con le quali emerge sul corpo ed è forma per sè sussistente (cf. op. cit., § 60; ed. cit., p. 38). L’immaterialità positiva dell’intendere dà la prova della spiritualità assoluta dell’anima umana: poichè è dotata di un’operazione per sè, che trascende il corpo, essa è una forma per sè sussistente alla quale perciò compete lo esse direttamente (e non in comune nel composto, come le forme materiali) e quest’essere essa lo comunica al corpo. Con ciò è provata con rigore metafisico l’immortalità dell’anima: se l’anima umana, perchè forma spirituale, è il soggetto immediato e per sè dell’atto di essere, questo esse le conviene in modo definito e inseparabile: «Esse autem per se convenit formae quae est actus… Impossibile est autem quod forma separetur a seipsa; unde impossibile est quod forma subsistens desinat esse» (Sum. Theol., 1a, q. 75, a. 6; cf. ibid., q. 50, a. 5).

Il «quarto» momento della metafisica tomista è l’affermazione della distinzione reale di essenza e di atto di essere (esse) in tutte le creature ch’è la conclusione del nuovo concetto di atto: questa è oggi considerata la chiave di volta di tutto il pensiero tomista. Presentata nelle prime opere in dipendenza diretta della metafisica estrinsecista di Avicenna, nelle opere mature essa s’impone con la formola più perfetta del «primato dell’atto» mediante la nozione di partecipazione in due tappe: a) La perfezione pura (perfectio separata) non può essere che una soltanto, e l’essere è la prima perfezione e l’atto di tutti gli atti (Quodl. II, a. 3; Sum. Theol., 1a, q. IV, a. 1 ad 3 e a. 2); l’essere sussistente quindi è uno soltanto e questo è Dio ch’è l’essere per essenza. b) Le creature tutte sono allora esseri per partecipazione in quanto l’essenza partecipa l’esse e l’essenza è quindi potenza rispetto all’esse ch’è l’atto ultimo di ogni realtà (cf. In VIII Physic., lect. 21, ed. Parm. t. XVIII, p. 532: un testo molto noto nella scuola averroista). A questo modo s. Tommaso può con la nozione di partecipazione superare l’agostinismo, perchè dimostra che l’anima e le intelligenze create (Angeli), pur essendo semplici nell’essenza, sono composte come creature nell’ordine dell’essere. Ancora con la stessa nozione di partecipazione può rivendicare, contro l’averroismo grazie alla composizione ontologica, l’assoluta dipendenza delle intelligenze da Dio mediante la creazione e conservazione (Sum. Theol., 1a, q. 44, a. 1 e ad 1; ibid., qq. 104 e 105). La formola della partecipazione fornisce infine la formola per esprimere l’analogia fra le creature e il Creatore:| «Non dicitur esse similitudo inter Deum et creaturas propter convenientiam in forma secundum eamdem rationem generis aut speciei, sed secundum analogiam tantum, prout scilicet Deus est ens per essentiam, et alia per participationem» (Sum., Theol. 1a, q. 4, a. 3, ad 3). In questa ultima concezione di s. Tommaso l’esse non è più lo accidens di Avicenna, ma è l’atto immanente della sostanza, esse substantiale, ch’è l’effetto proprio della divina causalità (Quodl. XII, q. V, a. 5).

Un doppio corollario della metafisica tomista dell’atto è la spiegazione della moltiplicazione degli individui nella stessa specie (partecipazione predicamentale) mediante il principio d’individuazione ch’è indicato nella parte potenziale dell’essenza considerata nella determinazione della «corporeità» (materia signata quantitate) e la dottrina del principio di sussistenza degli enti per partecipazione ch’è riferita allo esse come «actus substantiae»: «Proprie esse… attribuitur soli substantiae per se subsistenti» (Quodl. IX, q. II, a. 3, e ad 2: «Esse est id in quo fundatur unitas suppostiti»). Le sostanze spirituali pure (Intelligenze secondo i filosofi, Angeli secondo la teologia), mancando del principio di moltiplicazione individuale ch’è la materia, sono ognuna l’intera specie. Nelle ultime opere s. Tommaso ha dato piena soddisfazione alla tesi di Simplicio dell’accordo fondamentale fra Platone ed Aristotele (cf. De Subst. sep., c. 3): grazie alla nozione di partecipazione che a un tempo dà l’ultimo fondamento della dottrina dell’atto e della potenza e superando lo scoglio del dualismo greco. La sintesi tomista è assolutamente originale: essa infatti accoglie il nucleo metafisico della trascendenza platonica (nozione di creazione, composizione di esse e di essenza, teoria dell’analogia), che viene saldato con l’atto dell’immanenza aristotelica (l’unità della forma sostanziale, l’anima intellettiva come forma sostanziale del corpo, dottrina dell’astrazione).

Nel campo della morale l’aspetto polemico che chiarisce il progresso tomista è più in ombra, ma non è meno reale come hanno dimostrato specialmente le fondamentali ricerche di D. O. Lottin. La «legge naturale», non è concepita più, come nella scolastica precedente, sotto la forma di una disposizione innata della volontà o di una facoltà speciale dell’anima, ma essa consiste nello «habitus primorum principiorum» della ragion pratica: sono questi principi che costituiscono la «legge naturale» ch’è definita una «participatio| legis aeternae in rationali creatura» (Sum. Theol., 1a-2ae, q. 91, a. 2); essa ha nella sfera pratica una funzione di fondamento analoga a quella dei primi principi della ragion teoretica nel campo speculativo (cf. ibid., 1a-2ae, q. 91, a. 3 ad 1). La legge naturale costituisce quindi il fondamento della «sinderesi» che è lo habitus dei primi principi morali e perciò li suppone (ibid., 1a-2ae, q. 94, a. 1 e ad 2). Nell’elaborazione della struttura dell’atto umano s. Tommaso, pur non abbandonando la dottrina agostiniana della intentio e del frui, approfondisce e svolge gli elementi della dottrina aristotelica per l’usus e il consensus. Pertanto nella formazione del giudizio morale la sinderesi offre la premessa universale («non est furandum») e la ratio particularis, o cogitativa presenta la situazione concreta su cui tocca decidere («hoc est furtum»): la conclusione è affare della «coscienza» che deve applicare il precetto universale al caso particolare. In ogni modo nell’etica di s. Tommaso l’ordine naturale ha il suo pieno riconoscimento e in armonia con l’aristotelismo la regola prossima della «moralità», secondo la quale un atto va detto buono o cattivo, è la «ragion retta» applicata all’oggetto secondo la formola perfetta: «Actus moralis recipit speciem ab obiecto secundum quod comparatur ad rationem. Ed ideo dicitur communiter quod actus quidam sunt boni vel mali ex genere, et quod actus bonus est actus cadens supra debitam materiam, sicut pascere esurientem; actus autem malus ex genere est qui cadit supra indebitam materiam, sicut substrahere aliena: materia enim actus dicitur objectum» (De Malo, q. 2, a. 4, ad 5). E poichè tocca alla ragione pratica ordinare gli atti al fine ultimo, non possono darsi atti concreti (in individuo) di per se stessi indifferenti: perchè o l’atto è dalla ragione deliberante ordinato all’ultimo fine o non lo è, nel primo caso l’atto è buono e nel secondo cattivo (Sum. Theol., 1a-2ae, q. 18, a. 9 corpus e ad 3). Questo principato che la ragione ha per natura sugli atti umani risalta anche nella tesi caratteristica della morale tomista circa la peccaminosità dei cosiddetti moti primo-primi dell’appetito inferiore: «Ratio praeveniens ipsum (appetitum) potest eum imperare vel etiam impedire; in potestate hominis fuit ipsum cohibere» (Quodl. IV, a. 21; cf. ad 2). A questo punto entra pertanto in scena la volontà, come principio motore della vita morale e quindi come soggetto proprio delle virtù morali: in tutta questa materia s. Tommaso utilizza con sicuro criterio i progressi dei suoi predecessori ed arriva sempre a qualche spunto originale, ispirandosi oltre che| ad Aristotele, anche a Cicerone e a Macrobio, sia nella teoria generale come nella trattazione delle singole virtù che hanno il loro centro naturale nella «prudenza». Entrando più particolarmente nel campo dei problemi dottrinali del diritto naturale, la trattazione tomista non soltanto emerge su quelle dei suoi predecessori e dei contemporanei ma rappresenta la sintesi più compiuta del diritto romano con la concezione cristiana. Per questo non sorprende che i principi tomisti dei trattati de justitia et de legibus siano elogiati dal Grozio e che uno dei più apprezzati cultori moderni della filosofia del diritto, lo Ihering, abbia confessato che non avrebbe scritto il suo Saggio Der Zweck im Recht (2a ed., Berlino 1884), se avesse conosciuto la trattazione di s. Tommaso presso il quale «i principi di questa materia si trovano esposti con perfetta chiarezza e nella forma più pregnante» soprattutto per la questione fondamentale della subordinazione del diritto alla morale10.

Anche nella sociologia, nell’economia e soprattutto nella politica i principi di s. Tommaso hanno guidato la ripresa del pensiero cattolico contro gli attacchi del laicismo liberale e del socialismo marxista per una difesa dei valori superiori della persona umana (è stato tentato perfino un accostamento fra s. Tommaso e Marx da G. Hohof, circa la teoria del «valore»11).

3. Il metodo teologico: ragione e fede

 Ormai è riconosciuto a s. Tommaso il merito di essere stato il primo a concepire la teologia come «scienza» in senso rigoroso. Infatti egli, secondo il P. Chenu12, ha saputo e osato porre nettamente il principio di una integrale applicazione dei procedimenti della scienza ai dati della Rivelazione costituendo a questo modo una disciplina organica nella quale la Scrittura, l’articolo di fede, non è più la materia stessa, il soggetto dell’esposizione e della ricerca teologica, come nella sacra dottrina del sec. XII, ma costituisce il principio conosciuto in precedenza, a partire dal quale in teologia si lavora e si procede secondo tutte le leggi e le esigenze della demonstratio aristotelica:| «Ut sic ipsa quae fide tenemus, sint nobis quasi prima principia in hac scientia, et alia sint quasi conclusiones» (In Boeth. de Trin., q. II, a. 2; ed. B. Decker, p. 87, 19; cf. ad 4 e ad 5). Nella teologia pertanto noi credenti, nella condizione di viatori (in statu viae), cerchiamo una qualche intelligenza dei misteri soprannaturali in quanto, sul fondamento incrollabile della fede, ch’è una «partecipazione» della scienza di Dio e dei beati comprensori, procediamo ad ulteriori conoscenze: … «Venimus in cognitionem aliorum secundum modum nostrum, scilicet discurrendo de principiis ad conclusiones» (ibid.). Il problema se la teologia possa essere «scienza» appare fin dall’inizio del sec. XIII in Guglielmo di Auxerre, Prepositino, Alessandro di Ales: anche il domenicano Rolando di Cremona lo pone in termini espliciti, ma lo risolve negativamente13. La teologia quindi ottiene il carattere di scienza in quanto s. Tommaso applica la teoria aristotelica della «subordinazione» delle scienze (cf. Post. Anal. I, 2, 72 a 14-20 e 13, 78 b 35-39): mentre alcune scienze hanno principi immediatamente evidenti, altre invece partono da principi che sono provati da un’altra scienza superiore «sicut perspectiva procedit ex principiis notificatis per geometriam, et musica ex principiis per aritmeticam notis» (Sum. Theol., 1a, q. 1, a. 2). La teologia perciò ha la sua certezza da questa sua dipendenza, mediante la fede, dalla «scientia Dei et beatorum». Ciò costituisce il consolidamento del carattere distintivo della Scolastica secondo il «Credo ut intelligam» di s. Anselmo: «Finis fidei est nobis, ut perveniamus ad intelligendum quae credimus» (In Boeth. de Trin., q. 2, a. 2 ad 7; ed B. Decker, p. 90, 1). Il metodo quindi della teologia è principalmente il ricorso alla fede, cioè l’argomento di «autorità» della divina Rivelazione che per il credente costituisce il criterio più efficace della verità (Sum. Theol., 1a, q. 1, a. 8, ad 2): la funzione della ragione, quando la teologia ricorre alla filosofia e alle altre scienze umane, è di natura strumentale: «… utitur eis tamquam inferioribus et ancillis» e più per condiscendenza che per necessità (ibid., a. 5, ad 2) e ciò torna a vantaggio della stessa ragione in quanto «… illi qui utuntur philosophicis documentis in sacra doctrina redigendo in obsequium fidei, non miscent aquam vino sed convertunt aquam in vinum»| (In Boeth. de Trin., q. 2, a. 3 ad 5; ed. B. Decker, p. 96, 18). A questo modo i concetti filosofici che vengono assunti dalla teologia trascendono il significato dei sistemi storici (platonico, aristotelico…) ai quali appartengono e ottengono una superiore evidenza e certezza in quanto sono stati elevati ad un ordine superiore: ad es., i concetti di «natura, persona, relazione, causa». In questa estensione teologica di un preciso termine filosofico al dogma, si può arrivare alla cosiddetta «conclusio theologica».

L’oggetto principale quindi (subiectum nella terminologia di s. Tommaso) della teologia è Dio, perchè in essa di tutto si tratta ma unicamente in rapporto a Dio… «vel quia sunt ipse Deus vel quia habent ordinem ad Deum ut ad principium et ad finem» (ibid., a. 7). Nella dottrina tomista dei rapporti fra fede e ragione si mostra l’influsso positivo della concezione aristotelica del reale nella rigorosa distinzione fra i due ordini di Grazia e natura, ciascuno dei quali è dotato di propri principi nel suo àmbito; a differenza della tradizione della scuola agostiniana. Prendendo lo spunto da s. Agostino, già P. Lombardo (III Sent., d. 24) aveva posto il problema «se era possibile intorno ad uno stesso oggetto e sotto il medesimo aspetto avere e scienza e fede» (Utrum aliquid possit esse simul creditum et scitum) e la scuola francescana (A. di Ales, Odo Rigaldus, s. Bonaventura, Matteo di Aquasparta) e la prima scuola domenicana (Rolando di Cremona, R. Fishacre, Ugo di S. Caro, Bombologno di Bologna) e lo stesso s. Alberto Magno14 diedero sempre risposta affermativa. Invece s. Tommaso, fin dai primi scritti prende atteggiamento negativo, secondo il principio aristotelico che ogni scienza ha i propri principi che dànno l’evidenza del proprio oggetto (cf. In III Sent., dist. 24, q. unica, a. 2, ql. 1, 2 e 3; De Ver., q. 14, a. 9). Nella forma più matura (Sum. Theol., 2a-2ae, q. 1, aa. 4-5) s. Tommaso precisa l’opposizione fra le due forme di assenso: 1) l’assenso della scienza che procede dall’evidenza intrinseca dell’oggetto, l’assenso della fede che procede dalla volontà che muove l’intelletto all’assenso ai misteri proposti a credere che trascendono ogni intelletto creato. 2) Benchè nell’atto di fede manchi l’evidenza dell’oggetto, c’è tuttavia l’evidenza estrinseca della Rivelazione: «Non enim crederet, nisi videret ea esse| credenda vel propter evidentiam signorum, vel propter aliquid huiusmodi» (ibid., a. 4, ad 3). Quanto ai cosiddetti praeambula fidei cioè a quelle verità che in sè sono di ordine naturale ma si trovano anche rivelate (ad es., esistenza di Dio e della legge morale, Provvidenza, spiritualità e immortalità dell’anima… Cf. Sum. c. Gent., I, 3-5) e che la maggior parte dei fedeli tengono per fede, esse cessano di essere oggetto di fede quando qualcuno ne comprende gli argomenti filosofici. «Idem non potest simul et secundum idem esse scitum et creditum, quia scitum est visum, et creditum est non visum» (ibid., a. 5, ad 4). La netta distinzione tomista fra fede e ragione, nei confronti della scuola agostiniana, risulta anche dalla polemica suscitata dal testo aristotelico sulla eternità del mondo. Per i teologi agostiniani il problema dell’inizio del mondo coincideva con quello della sua dipendenza da Dio così che un mondo che fosse stato «ab aeterno» sarebbe per ciò stesso incausato. S. Tommaso, agli averroisti contesta la pretesa di una dimostrabilità razionale della «creatio ab aeterno» e confuta l’errore di un mondo eterno incausato (Sum. Theol., 1a, q. 46, a. 2 ad 1). Agli agostinisti invece, richiamandosi a un testo di s. Agostino (De civ. Dei, X, cap. 31), mostra con ampiezza nel De aetern. mundi la possibilità razionale di una «creatio ab aeterno» e dichiara nel modo più categorico che l’inizio temporale del mondo è un articolo di fede: «Mundum non semper fuisse, sola fide tenetur et demostrative probari non potest, sicut et supra de mysterio Trinitatis dictum est» (Sum. Theol., 1a, q. 46, a. 2; Quodl. III, a. 31).

Con la netta distinzione dei due campi, della ragione e della fede, s. Tommaso apriva la possibilità dello sviluppo della teologia come scienza in senso stretto e di quella che poi fu chiamata l’«evoluzione dei dogmi», in quanto cioè la riflessione teologica può, con l’ausilio ad es. di concetti razionali appropriati, rendere esplicito ciò che prima era soltanto implicito (cf. Sum. Theol., 2a-2ae, q. 1, a. 7: Utrum articuli fidei secundum successionem temporum creverint). Ma l’opera della ragione del teologo che riflette sui principi della fede è vigilata e guidata dal supremo magistero della Chiesa, ch’è il vincolo visibile dell’unità del Corpo Mistico: «Non enim potest esse unum corpus, si non fuerit unum caput; neque una congregatio si non fuerit unus rector» (C. error. Graec., cap. 31; ed. De Maria, III, p. 435; spec. pp. 453-58 la rigorosa dimostrazione del Primato del Romano Pontefice). L’originalità dell’opera di s. Tommaso è quindi nel progetto, audacemente com|piuto, di muovere i principi dell’aristotelismo nel clima della Rivelazione cristiana (… «secundum quod est consequens ad positiones Aristotelis»: De subst. sep., c. 15; ed. De Maria, III, p. 255), di aver riflettuto sul dogma secondo il sano naturalismo di Aristotele («… secundum vera philosophiae principia quae consideravit Aristoteles». De spir. cr., a. 3; ed. L. W. Keeler, p. 42, 14). Di qui la qualifica d’intellettualismo ch’è fatta di frequente al tomismo, a differenza della scuola agostiniana la cui tendenza volontarista afferma il primato della volontà sull’intelligenza, il carattere affettivo-pratico della teologia e pone l’essenza della beatitudine finale nel gaudio, più che nella contemplazione.

Ma l’accusa è inconsistente: in realtà se nel tomismo il primo momento è affidato all’oggetto e quindi all’intelligenza (specificazione delle potenze e delle scienze dal rispettivo oggetto), il secondo momento è attribuito al soggetto che si perfeziona, con i suoi atti, nella possessione dell’oggetto. Perciò la teologia è certamente scienza speculativa, ma virtualmente è anche pratica; tratta perciò anche degli atti umani, ma solo in quanto «per eos ordinatur homo ad perfectam Dei cognitionem» (Sum. Theol., 1a, q. 1, a. 4). Inoltre se la fede è l’inizio della salute, il vero principio di tutto l’organismo soprannaturale è per s. T. la Grazia santificante mediante la carità (Sum. Theol., 2a-2ae, q. 23, a. 8: Utrum charitas sit forma virtutum). Si può, al riguardo, osservare che invece proprio s. Bonaventura – se badiamo ai principi – è in questo punto assai vago e meno disposto ad affermare la preminenza della carità, in quanto afferma categoricamente (ispirandosi a Guglielmo di Auxerre) che gli atti di fede, speranza e carità «sunt aequalia in ratione merendi quando sunt informata gratia. Tantum enim ipsa charitas est meritoria in suo actu, quantum et fides in uno et eodem homine» (In III Sent, dist. 25, dub. 4, ed. Quaracchi, p. 553; ed. minor 1941, p. 546 b)15. Infine s. T. pur affermando la superiorità dell’intelletto sulla volontà (Sum. Theol., 1a, q. 82, a. 3) e affermando che la beatitudine consiste essenzialmente nella contemplazione dell’essenza divina (Sum. Theol., 1a-2ae, q. 3, a. 4), tuttavia egli riserva alla volontà la delectatio, la fruitio, il gaudium della felicità; e nella Lectura in Matthaeum il Santo ci ha dato la formula che può eliminare ogni inutile litigio, e proprio col richiamo ad Aristotele:| «Notandum quod secundum Philosophum, ad hoc quod actus contemplativi faciant beatum duo requiruntur: unum substantialiter, scilicet quod sit actus altissimi intelligibilis; alius formaliter, scilicet amor et delectatio» (Exp. super ev. Matth., c. V, lect. 1; ed. Parm. t. X, p. 49 B. – V. anche: Quodl. VIII, q. IX, a. 19).

Il senso della concretezza aristotelica porta sempre più la teologia tomista a valorizzare la realtà finita anche nell’economia della vita soprannaturale. Mentre la teologia tradizionale concepiva la Grazia santificante abituale identica alla carità e la considerava un dono estrinseco della divina liberalità ricevuto nell’anima, s. T. definisce nella Sum. Theol. (1a-2ae, q. 110, a. 1) la Grazia una «partecipazione» della divina natura (II Pt. 1, 4) e quindi la concepisce come causa formale della giustificazione inerente nell’essenza dell’anima come sua qualità intrinseca cioè un «habitus» entitativo (ibid., a. 2); per il primo egli usa il termine di «gratia actualis»16. Così lo statuto ontologico dell’ordine soprannaturale è in conformità di quello della natura in modo che la Grazia non deriva più per mera accessione estrinseca ma – in armonia alla dottrina aristotelica della sostanza – per una forma di derivazione intrinseca «ex potentia oboedientiali» in cui l’anima sotto l’azione di Dio si sviluppa alla vita soprannaturale: «Et secundum hoc etiam gratia creari dicitur ex eo quod homines secundum ipsam creantur, id est novo esse constituuntur ex nihilo, id est non ex meritis, secundum illud Philip., 2, 10» (Sum. Theol., 1a-2ae, q. 110, a. 2, ad 3). Di conseguenza anche il carattere sacramentale è definito come una qualità inerente all’anima (Sum. Theol., 3a, q. 63, spec. aa. 1 e 4).

In s. Tommaso quindi coesistono, nel giusto equilibrio, l’immanenza aristotelica e la trascendenza platonica, mentre la scuola agostiniana era chiusa in un timoroso estrinsecismo che, iniziato da P. Lombardo, fu esasperato nella teologia nominalista e arrivò alla catastrofe nella teoria luterana della giustificazione estrinseca. Come la Grazia che ne è la radice, anche la carità e tutte le virtù infuse teologali e morali sono delle qualità operative («habitus») inerenti nel soggetto. L’ordine soprannaturale nella sua struttura non può essere da meno di quello naturale e se le attività naturali procedono dalle potenze immanenti nel soggetto, altrettanto si deve| ammettere per gli atti soprannaturali; tanto più che «nulla virtus habet delectationem ad actum suum sicut caritas nec aliqua ita delectabiliter». La carità e tutte le virtù infuse non si riducono quindi a mozioni transeunti dello Spirito Santo, ma sono realtà presenti nell’anima elevata all’ordine soprannaturale: come le potenze attuano l’anima nell’ordine naturale, così anche le virtù infuse, sul fondamento della Grazia santificante per l’ordine soprannaturale (Sum. Theol., 2a-2ae, q. 23, a. 2: Utrum caritas sit aliquod creatum in anima). L’aspetto trascendentale deve integrare non sopprimere l’immanenza dei principi operativi, perchè ogni perfezione finita (vita, sapienza…) è una partecipazione della perfezione divina ch’è tale per essenza… «et sic etiam caritas qua formaliter diligimus proximum est quaedam participatio divinae caritatis». La realtà è che la scuola agostiniana ha interpretato la causalità formale in funzione della causa efficiente, mentre il problema va posto in senso inverso: «Hic modus loquendi consuetus est apud Platonicos, quorum doctrinis imbutus fuit Augustinus: quod quidam non advertentes ex verbis eius sumpserunt occasionem errandi» (ibid., ad 1). E come per l’essenza della Grazia santificante s. Tommaso ha dilatato la metafisica aristotelica della sostanza, così per l’efficacia dei Sacramenti supera le incertezze delle sue prime opere dove aveva difeso la dottrina tradizionale della causalità dispositiva e applica la metafisica delle subordinazioni delle cause: Iddio è la causa perfettiva principale e il Sacramento è la causa perfettiva strumentale, cioè lo «strumento separato» che trae la sua efficacia dallo «strumento congiunto» ch’è l’Umanità di Cristo (cf. Sum. Theol., 3a, q. 62, aa. 1-5). La nuova dottrina è scaturita dalla sintesi della distinzione aristotelica fra strumento animato e inanimato cioè fra lo schiavo e qualsiasi arnese «separato» (Polit., I, 4, 1254 a 15-17) e la dottrina di s. Giovanni Damasceno sull’Umanità di Cristo considerata come «strumento della divinità» (o;rganon th/j qeio,thtoj)17.

Pertanto, pur riconoscendo a s. Agostino il costante prestigio che specialmente nel campo teologico esercita su s. T., tuttavia gli sviluppi più originali della teologia tomista ed in particolare della cristologia e di tutta l’economia della salvezza dipendono da una conoscenza più diretta e approfondita dei Padri Greci. Così la citata dottrina del Damasceno sulla causalità dell’Umanità di| Cristo, s. Tommaso la riscontra già esplicitamente formulata in s. Cirillo di Alessandria e nello stesso s. Atanasio e per primo ne riconosce la formola passata negli Atti del III Concilio Ecumenico di Costantinopoli (680-81; Denz-U, 291-92) con l’autorità dei suddetti due Padri: anche la citazione che questi Atti fanno di s. Leone M. ricorre due volte nella III Pars (q. 19, a. 1 e q. 43, a. 2). Ora bisogna ancora rilevare che s. T. è il primo in Occidente a servirsi di tali Atti per la riflessione teologica18.

È con questa rigorosa distinzione dei due ordini che s. T. può affermare la trascendenza assoluta dei misteri della fede per i quali la ragione è assolutamente impotente e non può esercitare che una funzione estrinseca propedeutica e apologetica sotto la guida della Rivelazione (cf. Sum. Theol., 1a, q. 32, a. 1). Redarguisce perciò il Santo la presunzione di coloro che, seguendo la vecchia scuola, volevano dare argomenti per provare i misteri e quindi mostrarne l’intrinseca razionalità, perchè ciò sarebbe causa di grave confusione e provocherebbe lo scherno degli infedeli (Sum. Theol., 1a, q. 46, a. 1). Secondo questo criterio di sobrietà teologica tanto per l’esistenza dei misteri di fede, come per l’esposizione del loro contenuto, per la scelta dei termini appropriati e per le corrispondenze che possono intervenire fra i misteri principali (Trinità, Incarnazione, Eucaristia), la fonte prima e principale è la divina Rivelazione. Ciò è stato rigorosamente applicato da s. T. nei riguardi dell’esistenza di tutto l’ordine soprannaturale creato ovvero di quel che è stato detto il «motivo» dell’Incarnazione. All’indirizzo più diffuso della tradizione agostiniana (cf. Alex. Al., Sum. Theol., 3a, q. 2, membr. 13 e lo stesso Alberto M.: In III Sent., dist. 20, a. 4) che ebbe la formola storica con Duns Scoto, s. T. oppose il solido criterio metodologico: «Ea quae ex sola Dei voluntate proveniunt, supra omne debitum creaturae, nobis innotescere non possunt nisi quatenus in Sacra Scriptura traduntur per quam divina voluntas nobis innotescit». Ora nella Scrittura e nella tradizione patristica l’Incarnazione del Verbo è presentata sempre come l’opera misericordiosa di Dio per sollevare l’uomo dal peccato… «ita quod peccato non existente, incarnatio non fuisset», anche se la divina onnipotenza, assolutamente parlando,| poteva disporre l’Incarnazione prescindendo dal peccato (Sum. Theol., 3a, q. 1, a. 3)19. Sul progresso che la Somma Teologica rappresenta su questo, e ancora su altri punti di materia teologica, rispetto al giovanile Commento delle Sentenze, ha avuto un influsso diretto anche il Commento alle Sentenze, di Pietro di Tarantasia20. La distinzione dei due ordini della natura e della Grazia ispira l’intima articolazione della cristologia tomista: ad es., la necessità che anche l’anima di Cristo sia elevata con la Grazia abituale e sia dotata delle virtù nelle rispettive potenze (Sum. Theol., 3a, q. 7, aa. 1-2), l’ammissione in Cristo di una «scienza sperimentale» acquisita, oltre la scienza beata e quella infusa (ibid., q. 12, a. 1-2).

Note

1 Cf. S. Agostino, 83 Quaestiones, Q. 46: De ideis: PL 40, 29.

2 Cf. E. Hoffmann, Platonismus u. Mittelalter, ed. cit., p. 82 sgg.

3 Cf. Arist., Post. Anal., II, 19, 99 b-100 b; Metaph., I, 1, 980 b 25-981 a 30.

4 V.: H. A. Wolfson, The internal senses in lat., arab. and hebr. philosophical texts, in The Harvard theol. rev., 28 (1935), p. 69 sgg.

5 Cf. al riguardo: H. Willms, De scintilla animae, in Angelicum, 14 (1937), p. 194 sgg.

6 Comp. Theol., c. 129; ed. De Maria, III, p. 185. Cf. Sum. Theol., 1a, 105,| 3. Ancora: Expos. in Joan., c. 1, lect. 1, n. 33, ed. R. Cai, Torino 1952: testo che vale un trattato!

7 H. Meyer, Thomas von Aquin, Bonn 1938, p. 79.

8 C. Fabro, Logica e Metafisica. A proposito di alcune critiche recenti al rea­lismo tomista, in Acta Pont. Acad. S. Th. Aq., 12 (l946), p. 128 sgg.

9 De ente et essentia, cap. 3, ed. Baur, Münster in W. 1926, p. 24, 6.

10 Cf. B. C. Kuhlmann, Der Gesetzesbegriff beim hl. Th. v. A., Bonn 1912, p. VI sgg.

11 G. W. Plechanov, La quest. fondam. del marxismo, tr. it. Milano 1947, p. 145 sgg.

12 La Théol. comme science au XIIIe siècle, 2a ed., Parigi 1943, p. 9 sgg.

13 E. Filthaut, Roland v. Cremona und die Anfänge der Scholastik im Predi­gerorden, Vechta i. O. 1936, p. 52 sgg.

14 M. Grabmann, De quaest. «Utrum aliquid possit simul esse creditum et scitum» inter scholas Augustin. et Aristotelico-Thom. med. aevi agitata, in Acta Hebd. Augustin. Thom., Torino 1931, p. 110 sgg.

15 Cf. a questo proposito: H.-D. Simonin, La primanté de l’Amour dans la doctrine de S. Thomas d’Aquin, La Vie Spirituelle, t. 53 (1937), p. (129 ss.).

16 Cf. Lectura in Ioan., c. IX, lect. 1, n. 5; ed R. Cai, Torino 1952, p. 243 b; cf. E. Filthaut, op. cit., p. 136.

17 De Fide Orth., III, 19: PG 94, 1080 b; cf. c. 15, 1060 a.

18 Th. Tschipke, Die Menschheit Christi als Heilsorgan der Gottheit, unter bes. Berücksichtigung der Lehre des hl. Thomas v. A., in Freib. Theol. Stud., Heft 55, Fri­burgo in Br. 1940, p. 188 sgg.

19 Circa l’orientamento della teologia patristica su questo punto e i suoi rap­porti con la posizione tomista, v. A. Spindeler, Cur Verbum caro factum? Das Motiv der Menschwerd. u. das Verhältnis der Erlösung zur Menschw. Gottes in den chri­stolog. Glaubenskämpfen des viert. u. fünft. Jahrh., in Forsch. z. christl. Dogmen­gesch.; Bd. XVIII, 2, Paderborn 1938, p. 28 sgg.

20 Cf. H.-D. Simonin, Les écrits de Pierre de T., in Innocent V. P. de T., Roma 1943, p. 145 sgg.

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