IV. Dialettica della libertà e autonomia della ragione in Fichte

Forse nessun filosofo moderno, e forse nell’arco del pensiero di tutti i tempi, è stato così avvinto dal problema della libertà come Fichte: la tensione eccezionale della sua riflessione e delle sue polemiche hanno qui il centro, l’oggetto e lo scopo. Egli vedeva in questo, e già in Cartesio, l’originalità del pensiero moderno: «Il punto principale della differenza fra la nuova concezione e l’antica riposa su questa questione: cosa importa la libertà? Dove noi ed essi mostrano a questa il suo impiego?» Quelli cioè i fautori del pensiero precedente, osserva Fichte, hanno subito risolto il problema e considerano le cose in sé fatte e concluse, la verità non è che l’accordo con la loro realtà: «Il regno delle cose create è pronto e concluso, ora il sapere si accorda con esse, l’intuizione della libertà è d’ac­cordo: come e secondo quali leggi di questa, mai una parola comprensibile. In questo essere pertanto è soltanto mediante l’attività pratica che cambia l’essere stesso che è dato, questo è per essi la libertà»250. Il testo fa com­prendere quella che si può dire subito l’essenza del pensiero moderno che si può esprimere con la formula – una formula che va ovviamente sfu­mata, ma che tuttavia ne accoglie l’istanza continua – che verità e liber­tà coincidono così che il cammino dell’una attua la realtà dell’altra.

Ciò non era possibile nella concezione classica che distingue il momen­to teoretico dell’afferramento dell’essenza dal momento pratico del conse­guimento dell’esistenza, ossia attribuisce al possibile una mediazione di prospettiva tra il nulla del non (essere) ancora (noch nicht) e l’essere del reale (Sein des Seienden).

La differenza tra le due concezioni è radicale, insiste Fichte: «Coloro che così argomentano (i realisti) hanno in parte visto che l’agire è condizionato dal sapere, che nessuno può operare portandosi al di là del suo sapere e della sua convinzione». Ed ora la conclusione di valore capitale: «Se ora inoltre il sapere dipendesse dall’influsso delle cose, non avremmo assolutamente nessuna vera libertà, ma questa sarebbe soltanto parvenza (Schein) che forse si potrebbe anche spiegare e che alcuni di essi hanno anche spiegato molto bene: il sistema del determinismo; Leibniz coerente; WOLFIANESIMO – è un circolo tangibile, di accettare una verità reale che determina assolutamente le cose e però un sapere ch’è anche determinato dalle cose e così a sua volta è determinante la libertà»251. Eccoci quindi al nocciolo.

 

Lidentità di essere e pensiero nellIo come libertà

Ed il nocciolo è che qui si tratta di una rivoluzione nel campo dei rapporti fra verità e libertà e quindi la connessione risulterà presto chiara nel senso di un’inversione fra i rapporti di verità e realtà. Tale rivoluzione o inversione – Fichte lo riconosce espressamente ed anzi si presenta come il suo vero realizzatore – è stata operata da Kant con le tre Critiche e con la teoria dei giudizi sintetici a priori che le pervadono. È Kant che ha scoperto la creatività della coscienza, ch’è la libertà, come fondamento ed essenza della vita dello spirito, superamento del sostanzialismo statico di Spinoza. Così la Wissenschaftslehre è la sintesi unificata in atto, portata avanti da Fichte per tutta la sua vita, dell’istanza realizzata separatamente da Kant nelle tre Critiche: una sintesi intrinseca di approfondimento. Il passaggio è spiegato con adesione diretta alla terminologia kantiana attor­no al nocciolo della «appercezione» (trascendentale) cioè, spiega Fichte, della coscienza dell’autocoscienza (Bewusstsein des Selbstbewusstseins) in ogni sapere. Kant, spiega Fichte, conosce questa appercezione come unità ossia fondamento di deduzione di tutte le leggi del pensiero o categorie. Vale a dire in sostanza: tutte le leggi del pensiero e tutto ciò che secondo esse si riesce a pensare sono quell’appercezione stessa, soltanto determina­ta ulteriormente con particolari casi di applicazione252.Vediamo ora con la concezione-integrazione, ossia il progresso a cui arriva l’Io di Kant con Fichte.

Kant dice: l’unità sintetica dell’appercezione, lo «Io penso [in gene­rale] deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni»253.Fichte osserva: anche la W.-L. indica l’Io come il fondamento di tutte le rappresentazioni. Ma Kant chiama questa unità sintetica, cioè «l’unità si realizza mediante la connessione di un che di molteplice». Si tratta quindi di un processo genetico, perché l’unità è sintetica. Invece, incalza Fichte che inizia così l’idealismo assoluto, si tratta di un’unità analitica, cioè: «a) essa è, è qualcosa che diventa. b) essa non viene vista tramite (dur­ch… hindurch) il molteplice, ma è il molteplice ch’è visto tramite l’unità. Essa non comincia mediante la connessione del molteplice, ma è questo che comincia mediante la distruzione e divisione dell’Uno sopra un mol­teplice mediante la forma di un divenire» (p. 178) ch’è la «Vita», come diremo. La polemica di Fichte con Kant, spunta dovunque nell’intensa e tormentata sua ricerca. La questione o divergenza di fondo viene toccata nella Wissenschaftslehre «nova methodo» del 1798254,contemporanea della Atheismusstreit.

Il cambio di metodo, la nova methodus appunto, doveva avere per Fichte e specialmente in quell’anno, colmo per lui di contrasti e di amarezze, un particolare significato: quello certamente di raggiungere l’unità dell’atto spirituale, cioè la realizzazione della libertà riportandola al suo fondamento, il quale consiste – mi si perdoni il bisticcio – nell’uni­tà (identità) fondamentale della teoria con la prassi ed insieme – per Fichte – della dominanza, e non una semplice priorità, di questa su quella. È così ch’egli è convinto di approfondire l’istanza kantiana spin­gendola al suo inevitabile traguardo ch’è l’autoporsi dell’Io: l’Io non è più solo l’accompagnatore delle rappresentazioni ma «un’attività che ritorna in se stessa» (eine in sich zurückgehende Tätigkeit), che Fichte pre­senta come «prima, incondizionata, assoluta» (p. 350).

Certamente la nozione fondamentale dell’etica kantiana, quella della libertà, è radicata nella sua filosofia teoretica. Questa nozione infatti non ha soltanto il suo posto nella Critica della Ragion pura (come Idea trascendentale), ma essa indica la leva di movimento dei passaggi più decisivi. La scoperta di Kant dei giudizi sintetici a priori è insieme il ri­conoscimento della libera attività dello spirito sulla materia sensibili: infatti quella sintesi non è fondata nella rigida struttura delle cose ma nelle leggi originarie dell’intelletto produttivo. Così la libertà trascendentale è il carattere della sintesi in generale la quale si manifesta, in corrispondenza della differenziazione della materia di esperienza, come sintesi della sensi­bilità (Sinnlichkeit), come sintesi dell’intelletto (Verstand) e come sintesi della ragione (Vernunft). Questa libertà viene chiamata trascendentale poiché essa è la sorgente dei giudizi sintetici a priori ed insieme – si badi bene! – la sorgente dell’esperienza unitaria e sistematicamente ordinata. In questa libertà trascendentale si opera l’unificazione di conoscere e volere nella quale anche il conoscere, che nelle sue più libere manifesta­zioni è legato alla materia del «fenomeno» (Erscheinung), necessariamente trascende se stesso per comprendersi dall’interno come l’attività creativa, nascosta nella guisa di un volere formativo. Allora è questo concetto di libertà come spontaneità produttiva il principio unificante di teoria e prassi: la medesima funzione creativa dei giudizi sintetici a priori si espande nella sfera pratica della volontà nella forma dell’attività dell’impe­rativo categorico («tu devi»). È di qui che Fichte inizia la sua riflessio­ne, dall’unificazione dinamica alla comune sorgente di pensare e volere alla quale soggiace l’identità ossia l’identificazione di essere e pensiero.

Quest’identità tuttavia in Kant è frenata, com’è noto, dalla posizione del noumeno: una difficoltà che Fichte ha cercato di superare mediante precisamente l’approfondimento della libertà originaria, ossia con l’iden­tificazione di attività spirituale e libertà, una forma di unificazione ch’egli vedeva indicata nella conclusiva Critica del Giudizio255. A questo modo il pensare, la speculazione, la riflessione e i sistemi filosofici sono esercizio di libertà e atti di libertà: così la «libertà di pensiero» si presenta come la libertà fondamentale da cui traggono senso e consistenza le libertà prati­che. Perciò Fichte aveva scritto nel 1793: «Pensare liberamente è la differenza caratteristica che distingue l’intelletto umano da quello degli animali…: darsi una propria determinata direzione alla propria serie d’idee secondo la propria forza e secondo la propria libera volontà (Will­kühr) è il vantaggio dell’uomo e più uno afferma questo vantaggio, più egli è uomo»256.È questo infatti il significato del principio kantiano dell’au­tonomia della ragione di fronte alla necessità degli istinti. Fichte ne dà una formula più esplicita: quella della ragione per la ragione cioè la ragione scopo della ragione, il pensiero per il pensiero, la speculazione per la speculazione. Mentre nella filosofia tradizionale (dualista) il pensiero era semplice presupposto dell’azione, ora nell’idealismo esso diventa oggetto di se stesso257 con l’identificazione, da cui Kant ha sempre aborrito, di essere (Sein) e dover essere (Sollen). Così Fichte inizia quella metafisica dello spirito che avrà il suo compimento nella speculazione hegeliana dello Spirito assoluto.

La Critica della ragion pura, osserva Fichte, comincia con le rappresen­tazioni e cerca di sviluppare le loro leggi nella logica secondo le originarie forme di pensare del nostro spirito (Gemüt). Ma lascia insoluta la questione: perché (Warum) io mi rappresento qualcosa? per mezzo di che cosa (Wodurch) io giungo alla mia rappresentazione? La W.-L. risponde: poiché come agente (als handelnd) io mi trovo assolutamente libero. Esso vede il mondo in sé. La sua attività ideale non è senza quella reale (p. 383). Possiamo quindi fare le equazioni risolventi: esse est cogitare, cogitare est agere e poi agere est se agere e questa è la formula propria ed ultima della libertà cioè della libertà assoluta che va perciò collocata sul vertice (an die Spitze) della filosofia teoretica (p. 379).

La prima conseguenza decisiva è il superamento dell’opposizione kan­tiana di fenomeno e noumeno. Si è visto che la volontà è qualcosa di assoluto (etwas absolutes), soggetto e oggetto ormai per Fichte sono la stessa e medesima cosa. Questo concetto del mio volere immediato è il fondamento dei noumeni (corsivo di Fichte) di Kant, ma Kant non li ha fondati con sufficiente profondità; in lui essi sono come qualitates occultae e costituiscono un mondo a parte, il mondo intellegibile. Non c’è in Kant nessun ponte (Brücke) fra il mondo intelligibile ed il mondo sensibile dei fenomeni: questo, perché l’Io è soltanto funzionale in quanto esso opera come semplice principio di unificazione del molteplice, non ancora come produttivo dell’atto e dell’oggetto della conoscenza. La W.-L. getta ora questo ponte con lieve fatica. Essa considera il mondo intelligibile come condizione (Bedingung) del mondo dei fenomeni. Questo viene costruito su quello e il mondo intelligibile riposa sull’Io – e questo in se stesso. Soltanto, nel volere dell’Io il soggetto e l’oggetto sono ad un tempo la stessa e medesima cosa. Mediante il volere e il pensare del volere l’Io produce qualcosa di nuovo. Quindi per la W.-L. fenomeno e noumeno si appartengono nella comune radice dell’Io volente (p. 448ss.)258.Quindi tutto in Fichte rimanda alla nuova concezione dell’Io con la quale egli inten­de superare la frattura kantiana fra mondo intelligibile e mondo sensibile. Si può riconoscere pertanto che il concetto moderno di coscienza come attività originaria cioè fondante, ossia come «posizione di sé» nel portar­si all’altro, pertanto come identità di coscienza e autocoscienza e quindi di essere e pensare come di pensare e volere ed infine – come diremo – di progettare e volere… è stato portato al suo termine senza remore. La dinamica integrale, ossia l’assunzione del dinamismo unitario della coscien­za, è l’essenza del ribaltamento operato da Fichte: le distinzioni hanno significato solo formale, la realtà procede in modo unitario come attività totale: «L’idealista integrale abbraccia insieme l’attività pratica e teoreti­ca, come attività in generale, e con ciò viene necessariamente, poiché nell’Io non c’è nessuna passività, come infatti non può essere che l’intero sistema degli oggetti dev’essere prodotto per l’Io mediante l’Io»259.Ciò, vale a dire il primato ontico-ontologico dell’Io, era stato già il filo conduttore della prima Wissenschaftslehre (1794) il cui procedimento era espresso nella formula sintetica: «L’Io pone all’origine semplicemente il suo proprio essere»260 e, con la formula analitica, quest’atto fondante (la Thathandlung): «Io sono semplicemente cioè io sono semplicemente, poiché sono; e sono semplicemente ciò che sono; ambedue le cose per l’Io» (ibid). Il tutto è espresso nella formula nota di A = A, ch’è sempre da intendere in senso di identità dinamica ossia che l’Io opera all’interno di sé, da sé e per sé, la sintesi del reale come posizione ch’è autoposizione di rim­balzo dall’altro (Non-io).

È questo il passaggio ch’è implicito, come osserva Fichte stesso, nel cogito ergo sum, quello dalla speculazione alla prassi ed è per questo ch’egli fa seguire alla W.-L. la trattazione del «Fondamento del diritto naturale secondo la W.-L.» (1796) la quale è la continuazione diretta di quel discorso. L’introduzione infatti si apre con la dichiarazione: «Il carattere della razionalità consiste in questo che il principio operante e la cosa operata sono identici, e proprio la medesima cosa e mediante questa deci­sione l’ambito della ragione è, come tale, esaurito». Si tratta, continua Fichte, di fare astrazione dal vostro proprio «Io» quando si dice «Io» e pertanto la ragione è caratterizzata dalla «egoità» (Ichheit). E spiega: «Ciò che esiste per un essere razionale, esiste in esso; ma niente è in esso se non ciò che segue da un’azione su se stesso: ciò che esso intuisce, intuisce in se stesso; ma non c’è nulla da vedere in esso se non il suo agire; e l’Io stesso non è altro che un agire su se stesso»261.Si tratta di un agire puro come pura presenza alla coscienza ch’è l’Io come agente, non come sostrato o cosa in sé o sostanza. Il punto è capitale e tutti i filosofi veri, assicura Fichte, hanno sempre filosofato da questo punto di vista cioé da quello del pensiero come identità reale di atto e forma, di sog­getto e oggetto…

Di lì a poco nel «Sistema di morale» del 1798 Fichte precisa ancora questo carattere della sua filosofia ch’egli chiama «real-idealismo» ossia la sintesi di realismo (dell’esperienza) e idealismo (della ragione), come già Kant ma non al modo di Kant: la realtà della «separazione» (Trennung) del soggettivo e dell’oggettivo è evidente.

Limmanenza di necessità e libertà nellIo

Il secondo passo è la disgiunzione dell’azione necessaria e libera: «Ogni agire interiore dell’essere razionale avviene o necessariamente o con libertà». Invece di spiegare come dalla precedente semplicità di presen­za dell’Io a se stesso l’agire dirime la qualità del suo agire necessario e libero, Fichte ritorna nel concetto iniziale dell’Io come immanenza asso­luta, senza residuo, alla quale Kant – che pur aveva fatto la scoperta di tale immanenza – non aveva avuto il coraggio di passare. Ora si affaccia la spiegazione di quella Diremtion di necessità e libertà. L’oggettivo deve sussistere senza l’aggiunta (ohne Zuthun) del soggettivo, e indipendente­mente da esso, mediante se stesso» – questa è la sfera dell’essere (Sein). Invece il soggettivo deve dipendere dall’oggettivo e ottenere soltanto da esso la sua determinazione: «L’essere è mediante sé stesso, ma il sapere dipende dall’essere». A questa dichiarazione di realismo, fa seguito la dichiarazione di idealismo: «Sapere ed essere non sono qualcosa fuori della coscienza e indipendentemente separati da essa, ma essi sono separati soltanto nella coscienza, poiché questa separazione è la condizione della possibilità di ogni coscienza; e solo mediante questa separazione sorgono anzitutto ambedue». E spiega ampliando la dichiarazione della precedente Grundlage…: «Non c’è nessun essere, se non mediante la coscienza, in quanto fuori della medesima non si dà anche nessun sapere come pura­mente soggettivo e portantesi al suo essere. Se mi è lecito dire questo: Io sono sì costretto a separare; ma anche unicamente per il fatto che io dico questo e poiché lo dico, accade la separazione». La conclusione ricorre al noumeno, ma non al modo di Kant: «L’uno che viene separato, e in seguito al quale il soggettivo e l’oggettivo sono immediatamente posti nella coscienza come un’unica cosa, è assolutamente uguale perché non può, come semplice, venire in nessun modo alla coscienza»262.Questo richiamo di fondamento ad un fondo (Grund), che non può salire alla coscienza, attraversa lo sviluppo di tutta la filosofia di Fichte ed in certo modo sostanzia la sua posizione di Dio: un’affermazione, su cui torneremo più avanti, di particolare importanza perché fatta mentre infuriava la Atheismusstreit.

I passaggi procedono per implicazione d’identità come in matemati­ca263:«L’essere razionale è, unicamente in quanto esso si pone come essente, cioè in quanto esso è cosciente di se stesso. Ogni essere, sia dell’Io come del Non-Io, è una determinata modificazione della coscienza; e senza una coscienza non si dà nessun essere. Chi afferma il contrario, ammette un sostrato dell’Io che dev’essere un Io senza esserlo, e contrad­dice se stesso»264. Ora Fichte si diffonde nello spiegare che le azioni necessarie sono quelle che risultano dal concetto di essere razionale e sono – si badi bene – quelle dalle quali è condizionata la possibilità dell’autocoscienza. Questo significa che l’essere razionale pone necessaria­mente se stesso; esso quindi «compie» (thut) necessariamente tutto ciò che appartiene al suo porre mediante se stesso. In altre parole, il costituir­si dell’Io è un passaggio interno all’Io stesso dalla coscienza all’auto­coscienza e perciò necessario, che potrebbe essere indicato (con un termine heideggeriano) come un autodisvelarsi, se Fichte non aggiungesse subito – e l’affermazione è davvero sorprendente dopo aver detto che l’«Io intuisce se stesso cioè il suo agire su se stesso» – che «l’essere razionale non è cosciente del suo agire» per la ragione che «esso stesso è già il suo agire». Aggiunge che l’oggetto della coscienza sta fuori dell’atto e del soggetto di coscienza, deve cioè essere l’oggetto l’opposto dell’agire265.

Dunque – ed è, se riesco a capire, questa la dialettica del baco da seta che si chiude nel suo bozzolo266 – «… non si può percepire (wahrnehmen), prima di ciò che comincia dell’agire, l’agire stesso». La gente comune non bada a questo, si accontenta degli oggetti e non passa al concetto (Begriff) identificando l’oggetto col concetto. Invece il genio filosofico cioè il talento scopre nell’oggetto il concetto cioè, apprendendo l’oggetto, apprende anche l’agire stesso nelle sue opposte direzioni per unificarle in una concezione unica e così forma il concetto267.Il concetto quindi – come poi in Hegel – ha carattere di richiesta e di totalità di oggetto e atto. Ora i filosofi – così Fichte spiega il sorgere della libertà accanto alla necessità, di cui si è detto – hanno reso nota la loro scoperta. Secondo Fichte la libertà, ossia la coscienza della libertà, è in sostanza l’autocoscienza della propria razionalità ossia la «capacità di progettare concetti della nostra attività possibile con assoluta spontaneità». Assieme però, perché un individuo razionale ovvero una persona trovi se stesso libero, si esige che al concetto di attività corrisponda nell’esperienza l’oggetto che con essa è stato pensato ossia che dal pensiero della propria attività risulti realizzato qualcosa nel mondo dell’esperienza. E qui sembra che Fichte proceda troppo alle spicce: egli fa presente il fatto ovvio che, vivendo in società, le persone influiscono l’una su l’altra limitandosi nell’esercizio della libertà l’una con l’altra e che, per poter rimanere libere, esse devono liberamente assumere tali limiti e farsi (darsi) la legge di non impedire la libertà di coloro con i quali stanno in rapporto di attività scambievole. Ossia la «libertà esteriore» (äussere Freiheit) della persona, come membro della società, dev’essere garantita dalla «li­bertà interiore» (innere Freiheit) ch’è la razionalità stessa nella spontanei­tà come Sollen del suo attuarsi appunto nell’esteriore ch’è anche per Fichte, come per Hegel ma non allo stesso modo, che non è possibile ora esporre, la sfera del Seyn. La differenza fondamentale fra i due mi sembra sia nel concetto di «autocoscienza» che per Hegel appartiene (col «con­cetto») alla sfera speculativa mentre per Fichte, come si è visto, il movimento della ragione costituisce la sfera dell’attività pratica e pertanto della libertà. Capitale in questo contesto è il primo corollario al primo assioma (Lehrsatz) della deduzione del concetto di diritto ove si afferma che lo «Io pratico è l’Io dell’autocoscienza originaria, che l’essere razio­nale si apprende immediatamente soltanto nel volere. (…) [Che] il volere è il proprio carattere essenziale della ragione. (…) [Che] la facoltà pratica è la radice più intima dell’Io, a questa è affidato e attaccato anzitutto tutto il resto»268.

Ora Fichte mediante il metodo trascendentale, ovvero della deduzione delle condizioni a priori per l’attività dell’autocoscienza, passa a dimostra­re «sistematicamente» l’esistenza dell’attività dell’Io, di un mondo sensi­bile (Sinnenwelt) fuori dell’Io limitante tale sua attività. Poiché a noi interessa il suo concetto di libertà, e non il sistema, riteniamo il nocciolo delle precedenti riflessioni ch’egli esprime con arida ma ostinata precisio­ne: «Il concetto dell’attività dell’essere razionale è progettante mediante libertà assoluta; l’oggetto nel mondo sensibile, come l’opposto della mede­sima, è quindi stabilito, fissato, determinato in modo immutabile». Ed ora il principio della Diremtion ontologica afferma che tutto, ogni essere, è una modificazione della co­scienza: «L’Io è determinabi­le all’infinito; l’oggetto, poiché è così e così (weil es ein solches ist), è de­terminato una volta per sempre. L’Io è ciò che è nell’agire, l’oggetto nell’es­sere». Ed ora la spiegazione, ch’è propria della concezione fichtiana del­l’Io: «l’Io è incessantemente in divenire, non c’è nulla infatti in esso che duri: l’oggetto è, così com’esso è, per sempre, è com’esso era e come sa­rà» poiché – ci sembra di poter aggiungere – tale essere si riferisce all’Io nel suo rapporto al mondo della natura che non dipende dall’uomo. Perciò «nell’Io si trova (liegt) l’ultima ragione del suo agire; nell’ogget­to, del suo essere: infatti esso non ha nient’altro che essere»269. Non è compito del presente studio di entrare nello sviluppo, puntiglioso e compli­cato, del sistema e della terminologia originale di Fichte (p. es. la teoria del Sehen = vedere, corrispondente all’atto del Sein-Wissen, la teoria del Bild = immagine, corrispondente all’oggetto270).

Lunità di realismo e idealismoIdeal-Realimus»)

Possiamo intanto, per il nostro assunto, precisare il nuovo punto di vista di Fichte, nel suo progetto di unificare realismo e idealismo nei termini seguenti. Il principio fondamentale dell’idealismo trascendentale afferma che tutto, ogni essere, è una modificazione della coscienza: è da questo principio che parte la W.-L. per attingere il puro Io, altrimenti si dovrebbe assumere un «sostrato» per l’Io ch’è Io ed insieme non-Io e quindi si contraddice poiché l’Io è attività, agire. L’Io finito, pertanto, l’Io che sta a fondamento della coscienza umana, è – come si comprende da sé – essenzialmente uguale all’Io puro, quindi necessariamente anche attività, agire. Ma qui interviene il momento della limitazione, sia formale come reale, cioè come determinabilità e determinezza (Bestimmbarkeit-Bestimmtheit), che in Fichte ha un movimento opposto a quello di Hegel, poiché, mentre Hegel parte dall’indeterminato e passa alla determi­nazione, Fichte dal determinato dell’esperienza procede a quel ch’egli chiama il «mondo sovrasensibile» (übersinnliche Welt). In questo pro­cesso l’Io fa il primo passo verso la natura e dimentica se stesso; mentre la ragione diventa consapevole, nell’urto (Anstoss) con la natura, del proprio limite ed avverte da una parte l’esistere rigido e chiuso della natura e insieme la libertà aperta dell’Io al Tu il quale, però, se si sente limitato di volta in volta nel suo agire271, avverte anche l’unità e pertanto l’esigenza metafisica, l’infinità del termine dell’esperienza e della perfettibi­lità del proprio essere. Ed allora, nell’attivismo trascendentale di Fichte secondo il quale l’essere si chiarifica nel «divenire» (Werden) della libertà, dove è il confine tra l’essere e il divenire, fra la realtà e il sogno? Con un’osservazione di fondo possiamo dire che questo circolo è all’origi­ne di ogni filosofia che si presenta come sistema ossia che pretende di fare l’unità dei diversi cioè di togliere la separazione e di dedurre (fondare) il concreto dall’astratto, il reale dal formale (pensiero), i molti dall’uno, l’esistenza dall’essenza ed in Fichte, (come già nello Ich denke überhaupt di Kant) e nell’idealismo critico, il conscio dall’inconscio. L’Io empirico (conscio) e l’Io trascendentale (inconscio) così come la libertà empirica (della scelta) e quella trascendentale della spontaneità (dell’agire) non cessano di attirarsi, secondo il sistema, e di contrapporsi secondo la realtà: la libertà, in questa tensione, si presenta come la spontaneità in sé infinita e perciò indipendente ma insieme pensata e finita perché condizionata di volta in volta dal limite concreto del finito di esperienza. E questo attesta che l’Assoluto (Dio), al quale espressamente si riferisce anche Fichte dopo l’Atheismusstreit, non è e non può essere Persona, né quindi il primo Principio e l’ultimo fine di quanto è in cielo e in terra272. La libertà resta sempre l’indipendenza come necessità di agire nel «regno degli spiriti» (Reich der Geister) della Ragione universale.

Concludiamo questo sguardo nell’interno dell’essenza della libertà di Fichte osservando che essa è il primo e forse il più compiuto modello di quella «antropologia radicale» che dilaga ai nostri giorni sotto l’impulso combinato del positivismo sociologico e dell’analisi ontologica di Heideg­ger. Tutto fa capo all’Io come «spirito» (Geist): l’Io è principio del sapere e come tale è l’autocoscienza che determina la realtà di ogni cosa, ma insieme è determinato cioè limitato dall’Altro ch’è il tu (Du) in cui esso riconosce la stessa sua essenza e rispetto al quale avverte la propria consistenza e può passare ad affermare il «noi» (wir). A differenza delle recenti forme della relazione di io-tu, le quali si fermano alla sfera privata e alla comunicazione esistenziale, Fichte riflette sul rapporto Io-Tu (Ich-Du) in tutta la sua problematica dell’unità fino alla costituzione (dia­lettica) del «noi»: ma questo «noi» non è puramente psicologico o socio-psicologico, bensì costituisce al vertice l’ordine morale della divinità che «unisce l’io e il tu»273. Ma parlare di «divinità» e del divino (das Göttliche) è sempre un riferirsi ancora ad un qualcosa di formale e indeterminato. Tanto più che una siffatta realtà del divino, ch’è affermata immanente alla realtà perfettibile all’infinito dell’uomo, è intesa come «un mondo altro e migliore di quel ch’è presente ai miei sensi».

Questo passaggio, per il Fichte maturo, è operato, oltre il dubbio ed il sapere stesso, dalla «fede» (Glaube) ch’è – come già in Kant – l’attivi­tà propria e più alta della ragione. Essa appunto apre l’occhio del mio spirito facendomi aspirare a quel mondo sovra-sensibile cioè morale in cui soltanto io posso vivere e soltanto in esso trovare la soddisfazione dei miei impulsi (Triebe) e delle aspirazioni profonde della ragione274.

Si potrà ancora discutere se una filosofia intesa come «sistema» possa risolvere il problema della fondazione della verità dell’essere ossia del reale nella sua costituzione ultima, sia come complesso di sviluppo ciclico della natura sia se come ormai, a partire da Galilei, il problema della natura venga lasciato in retaggio esclusivo alle scienze naturali ed il problema della storia – a partire specialmente da Kant, Fichte, Hegel, Dilthey… – in funzione dei conflitti per l’appropriazione dei diritti umani in questo mondo. Nessuna meraviglia che il problema della libertà, come si è visto in Fichte, finisca in un impasse. Non a torto il giovane Kierkegaard osservava: «Che Iddio possa creare delle nature libere al suo cospetto, è la croce che la filosofia è impotente a portare, ma a cui è rimasta conficcata»275. Ed essa stessa la filosofia, non riuscendo a rivendicare la «qualità» della libertà come radice della responsabilità del singolo, finisce nel dilemma o di abbandonare la decisione al caso della contingenza delle situazioni, o di soccombere alla necessità delle leggi della ragione assoluta universale (cioè del Tutto) che opera – come si è visto in Fichte e questo vale per tutto l’idealismo moderno – al di qua della coscienza. In ambedue i casi si dilegua per l’io ogni fondamento e senso di responsa­bilità.

La dissoluzione del peccato come responsabilità individuale

Il primo nel pensiero moderno che faccia esplicito riferimento al Cristianesimo per la fondazione della libertà è stato Hegel276,ma anche in lui è la ragione, è più propriamente la «Ragion di Stato», che finisce per avere il sopravvento. Dal punto di vista teologico e morale questo supera­mento del plesso ragione-libertà-responsabilità a favore del primo termine, si rivela nella eliminazione del peccato come «colpa» personale del Singolo ch’è risolto nella semplice contingenza della finitezza (Kant): Fichte conclude perciò del peccato: «Non ci sono peccatori»277. È la nuova versione del «Cristianesimo della ragione» di Lessing nel suo Die Erziehung des Menschengeschlechts che vede nel succedersi delle fasi della civiltà un nastro continuo di nuove acquisizioni per il perfezionamen­to del genere umano278.Secondo Fichte i concetti di peccato e di peccato­re, come quelli di caduta e di redenzione dell’uomo, sono di origine ebraica e così i concetti di eletti e di reprobi. Per Fichte infatti il Cristianesimo è completamente comprensibile mediante la W.-L.; il cielo significa la sfera del sovrasensibile (la vita morale), che non appare quindi completamente, puro intelligibile… – La libertà, in conformità del con­cetto che sopra è stato esposto, si rapporta ad una parte di ciò che appare come il principio al principiato. In questo senso Fichte accetta ed afferma che «il Cristianesimo è il Vangelo della libertà e dell’uguaglianza» e della libertà, egli precisa, non soltanto in senso metafisico ma anche civile: eliminazione (Aufhebung) di ogni dominanza e disuguaglianza fra cittadi­ni279.

Allora, spiega Fichte, poiché tutti gli uomini sono chiamati egualmente a mostrare la volontà di Dio, egualmente senza eccezione tutti sono congiunti con la divinità: niente di ciò che appartiene all’uomo è escluso da questa eguale grazia, niente è peccaminoso o respinto. In questo senso il Cristianesimo è un Vangelo della redenzione (Versöhnung) e della remissione dei peccati (Entsündigung). Perciò Fichte può affermare che il Cristianesimo è completamente (durchaus) affare di ragione e di visione ossia di comprensione chiara, e precisamente da parte dell’intelletto indivi­duale di ogni cristiano e di un rappresentante (allusione-negazione del dogma di Cristo Redentore universale). Infatti si tratta che ognuno deve obbedire alla volontà di Dio ch’egli ha compreso da se stesso, poiché solo a questo modo egli può compiere la Volontà di Dio con la libertà: per conoscere la volontà di Dio basta che l’uomo interroghi la sua ragione. Non stupisce perciò che Fichte dichiari che il Cristianesimo è anzitutto e soprattutto (zuforderst) dottrina (Lehre) e che il suo primo compito sia quello di formare l’intelletto dell’uomo: si meraviglia perciò che questo non sia ancora stato fatto. Ma poiché l’uomo muove dalla ragione per attuare la propria libertà, il Cristianesimo non è soltanto dottrina, è anche costitu­zione – formazione (Verfassung) ossia determinazione dell’essere reale del genere umano. È sempre il Cristianesimo nella linea della «educazione del genere umano» di Lessing, il quale comporta due cose: anzitutto che l’uomo non ha nessun Signore all’infuori di Dio e non riconosce nessuna legge se non quella divina che allora indirizza soltanto alla sua libertà, poi – ed è il fondamento cruciale per la nostra ricerca – il Cristianesimo è realizzato interiormente nella volontà dell’uomo.

Si deve allora concludere che la volontà di Dio coincide con la volontà dell’uomo nella sua universalità ossia con lo svolgersi della storia: non più fiat voluntas tua (di Dio), ma fiat voluntas mea (dell’uomo). La situazione del rapporto di Dio all’uomo rispetto a quello del mondo antico280 – nella quale Fichte accomuna col paganesimo anche il giudaismo281 ed il Cristianesimo – è pertanto capovolta: non soltanto, ma il Cristianesimo è sussunto a servizio della politica e la fede a servizio della ragione. Il Regno di Dio è su questa terra. Esso è comprensibile, come si è già detto, soltanto mediante la W.-L. ed anche se la W.-L. fosse possibile soltanto mediante il Cristianesimo, potrebbe essere soltanto come concetto scien­tifico. La priorità è sempre alla conoscenza e la libertà è l’attuarsi del conoscere nella sua spontaneità. Tale l’autentico «Regno di Dio» (Him­melreich) nel quale non c’è più posto per il peccato personale almeno non nel senso del Cristianesimo biblico. Allora tutto diventa semplice e c’è pieno accordo fra filosofia e Cristianesimo, il peccato non e più una realtà (storica) poiché… «la vita vive di Dio, quindi è fenomeno di Dio e chi è nato da Dio, non pecca»282.La conclusione: «dal peccato…, dalla nientità della carne noi siamo salvati benissimo soltanto mediante la nostra santificazione» (Heiligung). Il vero peccato, secondo quest’ultima inter­pretazione di Fichte – ch’egli giudica del tutto in armonia con la dottrina luterana qualora sia bene intesa (e non al modo della scuola teologica di Halle e delle sette pietistiche) – non è dato dalle piccole o grandi infrazioni della Legge, ma si può conoscere solo dal principio a priori del Cristianesimo cioè che tutto ciò che procede dalla propria volontà (partico­lare) e non da Dio è il peccato: ma ciò che non procede da Dio è nulla e questo nulla – con termine teologico – è il peccato. Per il filosofo pertanto il peccato è nulla. Ancora la conclusione: che Cristo con la sua santità e grazia ci abbia santificati dal peccato ed abbia preso il nostro posto (dando soddisfazione al Padre per i nostri peccati), ma «… la sua propria santità consiste appunto in questo soltanto che mediante lui (Cristo) noi tutti siamo santificati» (p. 595). È questo anche il significato della dottrina luterana della giustificazione dal peccato per la sola fede, qual è stata difesa da Paolo contro i giudei e da Lutero contro i papisti (p. 596). Così inteso, il peccato non provoca certamente più angoscia e terrore (Angst und Schrecken) appunto perché interpretato come «nien­tità»: ma perché allora gli scritti ed i biografi del Riformatore ci presen­tano Lutero spesso assalito ed oppresso da angoscie e terrori?

Così – è il nostro bilancio – il problema della libertà è certamente «risolto», ma solo perché è soltanto «dissolto» in quanto: a) al livello intellettuale la libertà dei singoli si dissolve nella razionalità (libertà) universale che è intesa come l’attuarsi di Dio stesso mediante la storia umana, e in quanto b) al livello della rivelazione cristiana la liberazione dal peccato dei singoli è nella forza di credere che il peccato non esiste, che non è nulla e che la vita stessa della ragione è il Regno di Dio sulla terra. Certo, così tutto diventa chiaro. Ma si può e si deve chiedere: ch’è avvenuto, per fermarci a Lutero, della sua Theologia crucis?283 Tale è sta­ta, e non poteva essere diversa, la conclusione del cogito-volo ossia le elimi­nazione-superamento dell’Assolutezza della trascendenza metafisica e della fede storica a favore della libertà assoluta e della fede razionale.

È l’immanentismo radicale col superamento dell’ombra ultima del Das Ding an sich nella chiarezza della Ragione dell’Io assoluto e della dissolu­zione dei misteri del Cristianesimo (Trinità, creazione, peccato, redenzione, morte, risurrezione, vita futura…) nella compiutezza della vita della ragio­ne, nella perfettibilità dell’uomo mediante lo sviluppo storico della sua li­bertà. Questa, conclude Fichte, è la «prova giusta» (rechter Beweis) del Cristianesimo ossia – e qui, Fichte riprende espressamente l’espressione di Lessing – «la prova dello spirito e della forza»284, il testimonium Spiritus Sancti! Di qui la conclusione che mette il sigillo a questa risolu­zione trascendentale della Rivelazione nella ragione: «Il regno del diritto ch’è richiesto dalla ragione ed il Regno dei cieli sulla terra ch’è promesso dal Cristianesimo sono la stessa e medesima cosa»285.

 

La costruzione immanente del reale

Il bilancio e criterio di quest’ardita e radicale rottura con ogni com­promesso di qualsiasi dualismo teoretico, etico, politico, religioso… è ancora l’affermazione dell’unità dell’atto spirituale cioè dell’identità reale di coscienza e autocoscienza come dell’intelletto e volontà e l’identità dialettica di finito e infinito, di fenomeno e realtà, di esperienza e sapere. Il pensiero moderno ha identificato, come ha notato Heidegger, verità e certezza a tutti i livelli (si badi bene!) della vita dello spirito e questa certezza della verità l’ha fondata unicamente sulla «non contraddittorie­tà» dei termini e concetti presenti alla ragione. Così per necessità logica la vita dello spirito si esaurisce nella «scienza della logica» (Hegel), nella «teoria dello spirito come atto puro» (Gentile), nell’analisi logica del linguaggio delle filosofie contemporanee – nel superamento di ogni anti­tesi sul piano reale. Certamente Fichte ha trasformato il cogito ergo sum, in operor (volo) ergo sum, ma è un operor della ragione ch’è identica alla volontà come – e più ancora che – in Cartesio, con maggiore coerenza. Si comprende come Kierkegaard a queste mistificazioni del messaggio cristiano della salvezza del peccato preferisca l’ateismo esplicito dei liberi pensatori come Feuerbach286 che ha dissolto la teologia nell’antropologia, perché è un atteggiamento più logico e perciò più onesto. È altresì più corretto negare Dio che non identificarlo all’umanità ed alla ragione universale, è meglio cioè più corretto negare la fede nell’Uomo-Dio, che è il Cristo storico, che non identificare la missione e la liberazione di Cristo con la liberazione delle oppressioni dell’uomo da parte dell’uomo nei conflitti dei diritti sociali e politici. In questo senso, Fichte figura antesigna­no dei vari e rumorosi indirizzi moderni della «teologia della liberazione» in senso politico-sociale-economico: «Parvus error in principio magnus est in fine»287.Ma l’identità metodica di coscienza (pensare) e realtà (essere) non è affatto un errore piccolo: non può essere detto «un» errore fra i tanti errori, che la mente umana può commettere, ma esso è l’errore della ragione kat’evxoch,n, paragonabile soltanto nella sfera teologica al peccato contro lo Spirito Santo. Questo risulta dal modo come Fichte prospetta l’atto di scelta ossia la «libertà di scelta» (Wahlfreiheit)288 ch’egli identifica con quella che ha chiamato la «volontà esteriore». Fichte lo prova con due tesi o «dimostrazioni» (Beweise) come egli le chiama:

 

1) «L’essere razionale non può attribuirsi nessuna capacità di libertà senza pensare più azioni reali e determinate come possibili median­te la sua libertà»289. Le due proposizioni, osserva Fichte, sono identiche e lo dimostra la semplice analisi del concetto di libertà. L’io infatti non si presenta che in concomitanza con l’oggetto (evn pare,rgw| – Aristotele) ossia in quanto pensa e si rappresenta la realtà grazie all’immaginazione (Einbildungskraft). L’Io allora pone se stesso in quanto sceglie con libertà fra le opposte determinazioni della realtà. E conclude: «Soltanto in quanto io così pongo me stesso, cioè penso la realtà come dipendente dalla forma reale che sta sotto il potere del puro concetto» (p. 475). Il lettore medio ma attento, come ognuno deve poter essere, qui osserva subito che da due proposizioni identiche non si può cavare un ragno dal buco: è vero che per poter scegliere, bisogna prima disporre di varie «possibilità» (di scelta) e quindi di una realtà distinta dall’Io nella quale si trovino tali oggetti: ma se questa realtà è posta con e dall’Io che pone (pensa) se stesso e se la libertà non è che la forza che sta sotto il potere del puro con­cetto, non si vede come l’Io ponente e producente il mondo (mediante la trascendentale Einbildungskraft) si distingua dal mondo posto se non in sogno, come gia si è detto. Né si vede cosa possa seguire secondo libertà quando la libertà, la decisione libera, è fatta dipendere dalla forza del puro concetto. Fin quando il pensare è la realtà del volere e l’assorbe in sé, sen­za residui, non c’è più ragione di porre un volere e tanto meno il problema della «scelta libera» che suppone un’alternativa aperta che tocca al sogget­to chiudere o aprire mediante appunto l’atto personale della scelta il quale con questo qualifica le modalità della persona. Né maggior luce viene dalla seconda tappa della dimostrazione.

2) «L’essere razionale non può pensare nessuna azione come reale senz’ammettere qualcosa fuori di sé su cui si porta quest’azione»290. L’azione pensata è un’azione solo nel pensiero cioè di un mondo pensato come pura rappresentazione del soggetto e si potrebbe anche chiedere come sia possibile rappresentarsi una realtà che sia oggetto di libertà e di scelta, quando la realtà – «secondo la sua forma», dice Fichte: ma perché non anche «secondo il suo contenuto», come esige il principio del trascendentale assoluto? – è percettività e sensibilità (Wahrnehmbarkeit, Empfindbarkeit) immanenti all’Io?

Fichte ammette che a questo modo all’Io pensante (volente) non si può attribuire che un’attività ideale. Ma, aggiunge, è con il «salto mortale» (che può essere chiamato lo «argomento ontologico» del metodo trascendentale), che siffatto movimento soggettivo implica la realtà soggettiva: «Ma esso pensa senza dubbio qualcosa (etwas), si tiene sospeso sopra qualcosa mediante il quale esso è legato, come noi di solito esprimiamo questo rapporto; c’è allora qualcosa di oggettivo, infatti sol­tanto mediante una simile relazione l’Io è soggettivo e ideale. Nient’affat­to! Se è l’Io a porlo e se lo pone mediante il pensiero, non si deve dire che tutto resta fermo all’Io e all’interno dell’Io? anzi l’Io non può dirsi Io, non può neppure sorgere e in nessun modo porre se stesso (e questo l’ammette anche Fichte) cioè che l’Io dovrebbe star fermo e così restare chiuso in se stesso (solipsismo) – anche questo è chiaro – ed è il destino dell’idealismo trascendentale e di tutto l’immanentismo moderno.

Fichte invece procede fermo e convinto: «Questa realtà oggettiva non è l’Io stesso e non può essere pertanto nulla, ma qualcosa (oggetto della rappresentazione in generale)». E conclude cioè torna ad affermare: «Ciò è Non-Io, è qualcosa di dato come presente (etwas-Vorhandenes) senza la mia cooperazione». Perciò: «Cè un oggetto reale della nostra attività fuori di noi»291.E così l’inizio coincide con la fine: la posizione del Non-Io da parte dell’Io è insieme la mediazione, l’atto proprio della «libertà di scelta» che non è in realtà alcuna libertà e meno ancora una libertà di scelta. Al momento «materiale» della libertà, ch’è la posizione del Non-Io da parte dell’Io, segue e corrisponde il momento «formale» ch’è il «concetto del dovere assoluto» (Begriff des absoluten Sollens) ossia l’imperativo categorico il quale è però un presupposto e per di più esclude la possibilità della «scelta» sbagliata cioè del male, dell’errore ecc. In sostanza quindi l’atto del volere non arriva mai a concretarsi in un atto di «scelta» quale si esige per la «appropriazione concreta del proprio fine», che ciascuno si prefigge (momento esistenziale della moralità)292.

Il «passaggio» dellessere al dover-essere

Fichte riprende il problema della scelta alla fine della sua carriera, nella seconda Sittenlehre del 1812293: anch’essa segue il metodo deduttivo trascendentale a partire dal concetto leibniziano di fondamento (Grund). L’analisi è ampliata con l’accostamento (e l’interpretazione) del concetto inteso come «vedere» (Sehen), che costituisce il momento ideale (idea­liter) della coscienza e con la «forza produttiva» (hervorbringende Kraft): dai due momenti sorge l’Io come «assoluta identità di vedere e vita». Di qui il nuovo discorso fichtiano può procedere a ruota libera. Forse la novità, rispetto alla teorizzazione del 1794 e 1798, consiste in un maggiore impegno per salvare, all’interno della Diremtion dei due momen­ti (statico = Sein; dinamico = Handeln), l’unità dell’atto spirituale. Infatti ora:

1) Il concetto viene presentato come la forza assolutamente libera reale.

2) Quindi ora il concetto non è fondamento in generale, ma una volta per sempre (allemal) un concetto determinato quantitativamente: la forma si è divisa necessariamente in una dualità, in una capacità (potenza) ideale e reale insieme, in un identità d’intuire (vedere) e agire, quindi co­me Io. E qui Fichte riprende e ripete quanto già sappiamo sull’origine del Non-Io dall’Io in due proposizioni:

a) «L’Io con la sua vita ideale e la sua forza oggettiva reale non è altro che la vita del concetto che fonda la vita». Il nervus probandi (l’espressione è di Fichte) è che mediante l’essere fondamentale del concet­to è posto un Io libero e sussistente. Ma dalla spiegazione risulta che l’Io è reale e il concetto è ideale: questa separazione deve restare anche fra la vita reale dell’Io.

b) L’Io – e qui Fichte descrive il passaggio, desiderato ma mai fondato, dall’essere al dover essere: «L’Io deve volere secondo il concet­to presupposto. Questo “deve” (Soll) è l’essenza intima e l’essenza della sua esistenza» (p. 22ss.) cioè la sua vita, come aveva detto.

Ma allora essere e dover essere non coincidono? Quindi ci troviamo sempre allo stesso punto294. Potremo continuare a seguire ed esporre Fichte nei suoi funambolismi dialettici: la sua arte è di saper riprendere sempre gli stessi concetti e problemi con nuove sfumature e combinazioni semantiche, che meritano di essere studiate e portate a fondo per un giudizio finale se si tratti di virtuosismo romantico o di autentica esigenza speculativa. Una ricerca ardua non solo per lo stile di Fichte, ch’è il più intricato fra i filosofi moderni, ma anche per l’irrequieto e continuo zampillare di un pensiero ch’è tutto teso nella fatica di Sisifo di superare se stesso per planare sulla spiaggia sicura della realtà e conciliare infine la duplice tensione di verità e libertà, di fenomeno e noumeno. Un esempio di questa difficoltà si trova anche in questa Sittenlehre del 1812, quando Fichte distingue le due sfere della verità e dell’apparenza. La prima, spiega Fichte, è quella del Concetto assoluto il quale ha vita, forza, causalità ed è da sé (durch sie) il creatore dell’apparenza: anzitutto dell’Io e poi del fenomeno del volere. La seconda, dal punto di vista dell’apparenza (Er­scheinung), è suddivisa in due sotto-sfere: a) la «dottrina del fenomeno» (Erscheinungslehre), b) la «dottrina della parvenza» (Scheinlehre). La prima riguarda l’Io ch’è detto (nientemeno) «l’assoluta fedele e vera immagine (Bild) del concetto ed il concetto è visibile soltanto in esso». La seconda «crede ad una forza effettiva cioè reale (wirkliche) dell’Io». Il principio allora della Scheinlehre può essere enunciato come segue: «L’Io deve mostrarsi soltanto come fenomeno e non come essere sussi­stente»295. E qui facciamo punto.

Quanto è stato raccolto dai testi più impegnativi di Fichte può bastare per orientare il lettore sul gramo destino ossia circa la morte a cui va incontro ogni «sistema» ed in particolare ogni filosofia trascendentale nella fonda­zione della libertà. Ma è possibile trovarne allora un’altra? Tentiamo, almeno per brevi cenni, altrimenti incapperemo ancora in un «sistema» e saremo daccapo. Procederemo per brevi punti essenziali avendo ancora per riferimento – anche se in qualche punto più profondo ci lascia perplessi come diremo – Tommaso d’Aquino il quale, per la sua radicalità specula­tiva, resta ancora l’unico pensatore cristiano che possa confrontarsi con Kant e gli idealisti trascendentali. Osserviamo subito che il procedere tomistico si può dire dualistico, insieme metafisico e antropologico, essenziale ed esi­stenziale secondo (si badi bene!) una tensione di complementarietà ovvero, con termine più proprio, di «sinergia» teoretica.

Dialettica fichtiana e dialettica tomistica della libertà

A) Il fatto dellesistenza, lesigenza della libertà

Checché sia del «metodo» di verifica introspettiva che ogni uomo può fare in se stesso della possibilità e capacità di scelta, nelle condizioni sia di vita normale come nelle crisi e prove «eroiche», l’esistenza della libertà ha una sua autentica prova trascendentale in quanto essa è presupposta come la condizione di ogni vivere sociale e comunitario, senza la quale la coscienza dell’uomo si disintegra e si sprofonda nel buio dell’irrazionalità. Alla questione: «Utrum homo sit liberi arbitrii»296, l’Angelico riferisce la convinzione di tutti gli uomini in tutti i tempi: «Dicendum quod homo est liberi arbitrii; alioquin frustra essent consilia, exhortationes, praecepta, prohibitiones, praemia et poenae». Questo di­mostra che l’uomo messo di fronte al bene e al male, può fare e può non fare l’uno o l’altro: ne è convinto sia il legislatore che fa le leggi perché siano osservate sia il suddito che le deve osservare. La conferma, ch’è una prova diretta e propria della libertà nella sfera esistenziale, è l’istituzione della causa penale, nell’eventualità dell’infrazione della legge, ch’è un’inchiesta (istruttoria) ed un giudizio di responsabilità e perciò di libertà al quale mirano per diverse strade i protagonisti del corpo giudi­cante: il giudice, con i giurati componenti il collegio giudicante, gli avvocati difensori, gli avvocati dell’eventuale parte lesa, il pubblico mini­stero… E nell’eventualità che la condanna o l’assoluzione si rivelino, dopo nuove indagini, fondate su motivi insussistenti e viziati, la legge consente la revisione del processo o il ricorso in appello ossia la rivendicazione e la riformazione del giudizio di colpevolezza e imputabilità ossia della qualità reale della libertà nel caso. Questa situazione non è semplicemente un fatto qualsiasi (come la sconfitta di Napoleone a Waterloo…), un puro dato giuridico, essa è una situazione trascendentale rivelativa della priorità della libertà nella vita umana e privata e pubblica. Quindi, osserva Tommaso, mentre l’animale realizza lo scopo della propria vita sotto l’impulso dell’istinto che è uguale per tutta la specie, l’uomo deve «sce­gliere» per proprio conto il proprio ultimo fine.

Possiamo allora chiamarlo, l’atto nella scelta del fine esistenziale e la consapevolezza della decisione nel senso indicativo, un «fatto trascenden­tale» ossia rivelatore a posteriori di una struttura a priori ch’è l’energia po­nente dell’Io spirituale cioè della coscienza ed, in ultima radice, dell’anima umana: così dell’Io, come portatore (Träger) della coscienza. La riflessione esistenziale – già nell’antichità con Epicuro e gli Stoici (nel mondo latino soprattutto con Cicerone – al quale attinge spesso in questo campo anche S. Tommaso) poi nella patristica e scolastica con Gregorio di Nissa e il Damasceno per i Greci e S. Agostino e S. Tommaso, ma anche con gli umanisti (specialmente l’agostiniano Petrarca) – con Kierkegaard me­diante la fondazione della trascendenza e con gli esistenzialisti negativi in dipendenza della trascendentalità (Jaspers, Heidegger, Sartre… e prima Max Scheler specialmente nel periodo cattolico di Vom Ewigen im Men­schen) potrebbe offrire delle importanti trame di «situazioni» caratteriz­zanti diversamente (a secondo degli indirizzi speculativi)297 la realtà in atto della libertà di «ciascuno», poiché è di questo infatti che si tratta.

B) La qualità della scelta dellatto della libertà

Premetto, ed è necessario ripeterlo, che anche l’analisi dell’atto deve prescindere da ogni sistema e stare perciò sul piano di una riflessione razionale che fa unicamente appello al dato o meglio ancora alle «connes­sioni di osservazione» nell’ambito reale ora indicato dell’atto della li­bertà come centro della vita spirituale. La prima connessione, ch’è l’attività libera, è caratterizzante la «qualità morale» – cioè quella che possiamo anche chiamare la dignità spirituale dell’uomo, poiché con la scelta egli fa la Diremtion del suo essere spirituale a seconda che opta per il bene o per il male. Non è la perfezione della sensibilità o della intelligenza o della tecnica o dell’arte in nessum ordine (fosse anche la teologia), che qualifica moralmente una persona, ma solo la sua volontà del bene. Qui possiamo, per non divagare, ancora sentire l’Angelico ch’è esplicito: «Quilibet habens voluntatem, dicitur bonus, inquantum habet bonam voluntatem; quia per voluntatem utimur omnibus quae in nobis sunt. Unde non dicitur bonus homo, quia habet bonum intellectum, sed quia habet bonam voluntatem. Voluntas autem respicit finem, ut obiectum proprium»298.

Più completo e articolato, per le connessioni che intendiamo far emer­gere, è un testo posteriore: «Dicendum quod homo non dicitur bonus simpliciter ex eo quod est in parte bonus, sed ex eo quod secundum totum est bonus: quod quidem contingit per bonitatem voluntatis. Nam voluntas imperat actibus omnium potentiarum humanarum quod provenit ex hoc quod quilibet actus est bonum suae potentiae; unde solus ille dicitur esse bonus homo simpliciter qui habet bonam voluntatem»299. La volontà pertanto è facultas princeps; altrove l’Angelico la chiama «motor om­nium», e questo perché è libera ed è libera perché dispone di se stessa e disponendo di se stessa dispone dell’uomo intero e di tutte le sue facoltà l’esercizio delle quali, in quanto cade sotto la coscienza, cade sotto la libertà.

C) La struttura dialettica dellatto della libertà

Nessuno forse ha indagato con maggiore ostinazione di Fichte il circolo operativo della libertà: egli infatti, come i grandi modelli del pensiero occidentale (Fichte si è mostrato sensibile all’accostamento col Platonismo)300,non è mai passato all’identità reale dei diversi ma ha conservato – come si è visto – la tensione dei contrari. Non ha affermato che l’essere s’identifica coll’agire, né il pensare con l’agire ma che essi stanno in una «situazione di rimbalzo» ossia, come Fichte, l’ha chiamata di «azione reciproca» (Wechselwirkung). È ciò che rende importanti, alle volte profonde e spesso tormentate, le analisi specialmente delle opere teoriche come le varie W.-L. e le due Sittenlehre. Ma anche la posizione tomistica ha i suoi inciampi che sorgono anche qui dal modo di intendere la Wechselwirkung d’intelletto e volontà. In Fichte la libertà interiore della determinabilità dell’Io passa all’attuazione (libertà esteriore) mediante la determinazione dell’Io rispetto al Non-Io. Per Fichte la libertà è il prius assoluto della coscienza ch’è prima di ogni intuizione e la condizione di ogni coscienza e perciò la libertà conserva la sua assolutezza: con questo noi abbiamo qualcosa di originario e la libertà si presenta allora come «la capacità di cominciare assolutamente una serie»301.Ma come cominciare? Come passare dalla facoltà in sé indeterminata all’azione concreta? Fichte ha già risposto: «Io agisco liberamente significa io mi progetto in modo autonomo un concetto del mio agire… il concetto di un fine». Fichte chiude perciò in senso quasi tomistico il circolo: «senza intelligenza cioè senza qualcosa, senza un concetto, senza una coscienza della propria attività, non c’è quindi nessuna libertà. Dire coscienza e dire libertà è la stessa e medesima cosa»302.Quindi si può concludere con Fichte, come Aristotele e S. Tommaso, la coscienza della libertà si fonda anzitutto sulla coscienza che l’Io ha del «concetto del fine» (Zweckbegriff) del mio agire. E questo avviene nel passaggio dall’at­tività ideale con la quale l’Io progetta il fine all’attività reale che la realizza fuori di sé.

Qui però c’è un hyatus: lo Zweckbegriff può riguardare sia il fine e il bene (la felicità) universale formale, sia (e soprattutto) il bene universale concreto cioè la felicità esistenziale ossia quella che ciascuno sceglie in concreto (i piaceri, la gloria, il potere… la scienza, l’arte, la filantropia, la salvezza eterna). Qui Fichte introduce un fattore nuovo ossia il sentimento (Gefühl), grazie al quale l’Io può formare il concetto del fine. Il sentimento è il «termine medio» (Mittelglied)… ed ogni sentimento è la limitatezza dell’aspirazione. Qui Fichte sembra voler scavalcare la priorità del conoscere sul volere e attribuire al volere stesso puro l’apertura all’oggetto: «Pertanto viene postulato un volere puro, che non presup­pone innanzitutto la conoscenza del suo oggetto, ma parimenti (lo) porta con sé, a ciò a cui non è dato nessun oggetto, ma parimenti dà a se stesso ciò che non si fonda su nessuna consultazione, ma è il volere originario e puro: è un esigere (fordern)» (§ 12; ed. Jakob, p. 469). E spiega: «Col sentimento è connessa una rappresentazione oggettiva che contiene il fondamento di questo sentimento e questo fondamento è nella nostra ragione come una connessione necessaria fra il sentimento e la rappresen­tazione» (p. 401). Ed ora si spiega con il passaggio (dalla determinabilità alla determinazione e determinatezza): «L’oggetto dell’intuizione è il sen­timento, ma come un che di intuito – non come qualcosa di riferito all’Io. L’intuizione è soltanto qualcosa che sta innanzi immediatamente all’Io; esiste semplicemente per lui». Allora, grazie all’intuizione del senti­mento «io mi sento limitato nella mia aspirazione» e così l’oggetto è limitante e l’Io limitato benché il sentimento sia «limitabile all’infinito». E siamo quindi alla formula di struttura dell’atto in funzione dell’Io: «L’Io è originariamente incluso in certi limiti; da questa limitatezza procede per l’Io l’intero mondo per una determinazione eterna in quanto con assoluta libertà mediante la sua autodeterminazione può mutare la sua condizione e quindi può mutare la visione del mondo»303. La conclusione è in confor­mità della Wechselwirkung. Vale a dire: la libertà formale ideale originaria è illimitata e perciò determinabile (cf. il bonum in communi, finis ultimus di S. Tommaso): la libertà materiale determinata, ch’è la libertà di scelta, essa è libera soltanto nella scelta (Wahl), ma nello scegliere è insieme legata… al progetto presente nel concetto (§ 5, p. 387) come si è detto.

Più complicata la dinamica dell’atto libero in S. Tommaso perché è di natura metafisica ed ha per fondamento la causalità; essa certamente sfugge al «circolo» di ogni fondazione della libertà a partire dal princi­pio d’immanenza ch’è il circolo dell’Io, sia esso empirico o trascendentale. In Dio, come prima causa, è la prima origine e l’ultimo fine di tutta la creazione e specialmente degli esseri spirituali e perciò Dio muove ogni cosa alle proprie operazioni, sia per le azioni naturali come per le volonta­rie. È a questo punto che il nostro discursus brevis de libertate pone il problema più concreto e sempre attuale. Il momento decisivo per la libertà e caratteristico per la personalità (responsabilità, dignità…) è quello della scelta del fine esistenziale secondo il quale ognuno s’impeg­na a strutturare la propria vita nella società familiare, politica, civile, religiosa… Qui il punctum dirimens è sempre – non solo per gli idealisti, ma anche per i realisti metafisici – il passaggio dal formale al reale, dal bonum ultimum in communi cioè indeterminato al bonum ultimum determinato, ossia dall’aspirazione naturale alla felicità in genera­le alla decisione personale impegnativa di un bene (concreto) reale in una struttura di scelta e progetto vita responsabile.

La tradizione scolastica, ancorata alla concezione classica della dipen­denza causale, è accusata di applicarla direttamente anche alla libertà senza eccezione. Quindi tutto ciò che accade in cielo e in terra, negli abissi della natura o nel segreto delle coscienze (ed anche il male, non in quanto semplice privazione o deformazione del bene, ma in quanto è azione libera), suppone la causalità divina secondo un rapporto di indigenza radicale della creatura che è (ex nihilo) e quindi anche di dipendenza totale. Ma se questa dipendenza è intesa in recto, Dio solo allora fa tutto in tutti ed è tutto in tutti: tale è stata la posizione dell’occasionalismo islamico. Non è però quella della teologia cristiana che insegna – come ha riconosciuto anche Hegel – la libertà nativa di ogni uomo e la responsa­bilità effettiva della sua libertà.

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250 J. G. Fichte, Einleitungsvorlesungen in die Wissenschaftslehre (1813), in J. G. Fichteschen Nachgelassene Werke; ed. cit., Bonn 1834, Bd. I, p. 37.

251 J. G. Fichte, Einleitungsvorlesungen…; ed. cit., Bd. I, p. 37s. Secondo H. Nohl il testo c’introduce nel nocciolo della teoria fichtiana della libertà secondo la quale «… la coscienza della libertà riposa sulla non conoscenza (Unbekanntschaft) della forza impellente» (H. Nohl, «Miscellen zu Fichtes Entwicklungsgeschichte und Biographie», Kant-Studien 16 [1911], p. 377).

252 «Così, continua Fichte, egli [Kant] parla nella Kritik der reinen Vernunft; non presenta però la deduzione stessa, benché il capitolo abbia per titolo: “Deduzione delle categorie”. Questa è ora la grande affermazione di Kant il quale, in fondo crea di nuovo il sapere che in lui però è rimasto soltanto uno sguardo geniale senz’essere esposto e verificato chiaramente» (Einleitungsvorlesungen…, Vortrag VIII, p. 177s.).

253 «Das: Ich denke, muss alle meine Vorstellungen begleiten können» (I. Kant, Kritik der reinen Vernunft. Transz., Deduktion…, § 16, B 132; ed. Reclam, p. 173).

254 J. G. Fichte, Nachgelassene Schriften, 1790-1800, Bd. II; ed. H. Jakob, Berlin 1937, p. 341ss. (C’è una buona traduzione italiana a cura di A. Cantoni, Milano 1959, che teniamo presente).

255 «Aus dem innersten Erlebnis der durchgreifenden Macht seines Denkens heraus, findet Fichte Freiheit im Erkenntnis- und Denkvorgang, der sich in Kants Kritik der reinen Vernunft doch mehr als mechanischer Prozess darstellt, wo ein Glied gesetzmässig in das andere eingreift». E quindi per Fichte: «Frei denken heisst vernünftig denken» (W. Kabitz, «Studien zur Entwicklungsgeschichte der Fichteschen Wissenschaftslehre aus der Kantischen Philosophie», Kant-Studien 6 [1901] p. 163). E Fichte supera appunto Kant con Kant, il Kant teoretico col Kant pratico e soprat­tutto col Kant della Critica del Giudizio: «Fichte beschreitet in der Lösung des Problems einen Weg, den die Kritik der Urteilskraft ihm gewiesen hat. Diese wollte neben der Erklärung der Natur aus mechanischen Prinzipien auch die Möglichkeit einer solchen aus dem Prinzip der Zweckmässigkeit einer Kausalität durch Begriffe oder Vernunft, darthun» (p.168ss.).

256 J. G. Fichte, Zurückforderung der Denkfreiheit; ed. R. Strecker, Leipzig 1919, p. 13.

257 Anche in un testo inedito che sembra contemporaneo della W.-L. nova methodo: «Dort geht das Denken auf die Dinge, hier auf das Denken selbst» («Eine bisher unveröffentliche Abhandlung Fichtes gegen das Unwesen der Kritik»; ed. Fr. Dannenberg, in Kant-Studien 16 [1911] p. 364).

258 Perciò osserva Fichte che, mentre per Kant l’io è uno specchio (Spiegel), per la sua W.-L. l’Io è… un «occhio (Auge), cioè uno specchio che si specchia in se stesso, l’immagine (Bild) di sé; mediante il suo proprio vedere locchio (l’intelligenza) diventa limmagine (Bild) di se stessa» (p. 377). La centralità che ha l’immagine nello svilup­po del pensiero di Fichte è stata studiata da J. Drechsler, Fichtes Lehre vom Bild (Stuttgart 1955): secondo l’A. è soprattutto nell’ultima fase degli anni 1810-1813 cioè della fase metafisica e teologizzante (cf. p. 403, dove si legge la citazione di W.-L. 1812) che la W.-L. esprime «das ganze Wissen ohne Ausnahme in Bild».

259 «Der transzendentale Idealist umfasst die praktische und theoretische Thä­tigkeit zugleich, als Thätigkeit überhaupt, und kommt dadurch nothwendig, weil nun kein Leiden im Ich ist, wie es denn nicht seyn kann, zu dem Resultate, dass das ganze System der Objekte für das Ich durch das Ich selbst hervorgebracht seyn müsse» (J. G. Fichte, Grundlage des Naturrechts nach Principien der Wissenschaftslehre, § 2, Corollaria, in Gesamtausgabe Bd. I, 3, p. 337; ed. Medicus, Bd. II, p. 31. – Diamo la grafia e la punteggiatu­ra originale della Gesamtausgabe (= GA).

260 «Das Ich setz ursprünglich sein eignes Seyn» (J. G. Fichte, Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre, § 1; in GA, Bd. I, 2, p. 261; ed. Medicus, Bd. I, p. 292).

                È in questo che consiste l’essenza del Trascendentale moderno già intravisto da Iacobi: «Das Grundaxiom des transzendentalen Idealismus ist der Satz: Alles Sein ist eine bestimmte Modifikation des Bewusstseins. Nur mit der Aufnahme dieses Axioms gelangt man zum wahren Prinzip der Wissenschaftslehre, zum reinen Ich… Das Ich fühlt sich in gewissen Handlungen gezwungen» (Fr. Dannenberg, Der Begriff und die Bedeutung der Erfahrung in der fichteschen Philosophie, Weida i. Th. 1910, p. 19).

261 J. G. Fichte, Grundlage des Naturrechts…, Einleitung, I. Wie eine reelle philosophische Wissenschaft sie von blosser Formular-Philosophie unterschiede; in GA, Bd. I, 3, p. 313; ed. Medicus, Bd. II, p. 5.

262 J. G. Fichte, Das System der Sittenlehre nach den Prinzipien der Wissenschaftslehre, Einleitung; ed. Medicus, Bd. II, p. 399. Ritorna perciò, ma in un contesto speculativo più maturo, la dualità di materia-forma e di essere-libertà che Fichte vuole combinare nel rapporto costitutivo di «azione-reciproca» (Wechselwirkung).

263 Un accenno polemico sui rapporti della W.-L. con la matematica si legge nella conclusione del § 2 (Grundlage des Naturrechts…, in GA, Bd. I, 3, p. 317s.; ed. Medicus, Bd. II, p. 9s.).

264 Data l’importanza capitale del testo, lo riportiamo nell’originale «Das ver­nünftige Wesen ist, lediglich inwiefern es sich, als seyend setzt, d.h. inwiefern es seiner selbst sich bewusst ist. Alles Seyn, des Ich sowohl als des Nicht Ich, ist eine bestimmte Modifikation des Bewusstseyns und ohne ein Bewusstseyn giebt es kein Seyn. Wer das Gegenteil behauptet, nimmt ein Substrat des Ich an, dass ein Ich seyn soll ohne es zu seyn und widerspricht sich selbst» (J. G. Fichte, Grundlage des Naturrechts…; in GA, Bd. I, 3, p. 314; ed. Medicus, Bd. II, p. 6).

265 L’originale ha: «Das aber, dessen es sich bewusst wird, soll ausserhalb dessen liegen, das sich bewusst wird, also ausserhalb des Handelns; es soll Objekt, d. i. das Gegentheil des Handelns seyn» (J. G. Fichte, Grundlage des Naturrechts…, in GA, Bd. I, 3, p. 314; ed. Medicus, Bd. II, p. 7). E questo è l’oggetto della coscienza cioè la «cosa» (Ding).

266 Acuta l’osservazione di Kierkegaard: «Come Simeone Stilita, Fichte fa i movimenti dialettici più abili su di un’immensa colonna» (Papirer, 1 ottobre 1836, I A 252; tr. it.di C. Fabro, Diario, Brescia 19803, nr. 149, t. II, p. 73).

267 Il concetto è pertanto il risultato della riflessione sull’oggetto, però «senza nessuna aggiunta dell’Io libero» (J. G. Fichte, Grundlage des Naturrechts…, in GA, Bd. I, 3, p. 315; ed. Medicus, Bd. II, p. 8).

268 J. G. Fichte, Grundlage des Naturrechts…, in GA, Bd. I, 3, p. 332; ed. Medicus, Bd. II, p. 25.

269 J. G. Fichte, ibid., § 2, Folgensatz; in GA, Bd. I, 3, p. 338; ed. Medicus, Bd. II, p. 32.

270 Per questo rimandiamo allo studio di J. Drechsler, già citato.

271 «Diese Spaltung ist eine schlechthin ursprüngliche und im wirklichen Bewusstsein niemals aufzuhebende oder durch etwas anderes zu ersetzende: die wirklichen Gestalten somit, welche durch diese Zerspaltung das an sich Reale erhalten hat, lassen sich nur im wirklichen Bewusstsein, und so, dass man sich demselben beobachtend hingebe, – leben und erleben; keineswegs aber erdenken und a priori ableiten» (Fr. Dannenberg, Der Begriff und die Bedeutung…, p. 28).

272 Per l’ultimo Fichte, il quale nella Anweisung des seligen Lebens ha tentato la sintesi gnostica di Cristianesimo e filosofia, l’Assoluto è la Luce presente in tutti gli uomini (cf. J. Von Hope, Umriss eines Systems der späteren Fichtes Philosophie, Degeberg 1904, p. 19).

273 W. Schulz, J. G. Fichte Vernunft und Existenz, Pfullingen 1962, p. 21.

274 J. G. Fichte, Die Bestimmung des Menschen, III: Glaube; ed. Medicus, Bd. III, p. 361.

275 S. Kierkegaard, Diario 1837-39, II A 752; tr. it.cit., nr. 622, t. II, p. 204.

276 Cf. il testo cit. di Enzyklopädie…, § 482.

277 «Es gibt keine Sünder» (J. G. Fichte, Angewendete Philosophie, Neue Welt; ed. Medicus, Bd. VI, p. 591).

278 Cf. C. Fabro, «Lessing e il Cristianesimo…», p. 221-235.

279 Seguo l’esposizione della Angewendete Philosophie del 1813, Neue Welt; ed. Medicus, Bd. VI, p. 566ss.

280 Ad essi è dedicata la prima parte della Angewendete Philosophie (ibid., p. 542ss.).

281 Fichte chiama «pagano» il principio giudaico della soggezione dell’uomo a Dio: «Das heidische Prinzip des Judentums» (Angewendete Philosophie; ed. Medicus, Bd. VI, p. 593).

282 «Das Leben lebet aus Gott, so ist es Gottes Erscheinung, und wer aus Gott geboren ist, sündiget nicht» – segue in nota il richiamo al Cristianesimo giovanneo: 1Gv 5,18 (ibid., p. 594).

283 Per quanto mi consta, ogni richiamo alla Croce di Cristo è completamente assente nell’opera di Fichte nella sua interpretazione del Cristianesimo sia nella Anweisung des seligen Lebens come nella Angewendete Philosophie.

284 Cf. G. Lessing, Über den Beweis des Geistes und der Kraft; ed. Rilla, Bd. VIII, p. 12.

285 «Das von der Vernunft geforderte Reich des Rechtes, und das vom Christentum verheissene Reich des Himmels auf der Erde, ist eins und dasselbe» (J. G. Fichte, Angewendete Philosophie; ed. Medicus, Bd. VI, p. 609).

286 Cf. S. Kierkegaard, Diario, 1849-1850, X2 A 163; tr. it. cit., nr. 2636, t. VI, p. 210ss. Cf. a questo proposito il nostro Feuerbach: Lessenza del Cristianesimo, L’Aquila 1977, spec. 167ss.

287 Aristotele, De coelo, lib. I, c. 5, 271 b 4 – è il testo col quale S. Tommaso inizia il De Ente et essentia.

288 Essa è trattata una volta sola: in Das System der Sittenlehre… di 1798; ed. Medicus, Bd. II, p. 473ss., 553ss.

289 «Das Vernunftwesen kann sich kein Vermögen der Freiheit zuschreiben, ohne mehrere wirkliche und bestimmte Handlungen, als durch seine Freiheit möglich, zu denken» (ibid., p. 473).

290 «Das Vernunftwesen kann keine Handlung als wirklich denken, ohne etwas ausser sich anzunehmen, worauf diese Handlung gehe» (ibid., p. 475).

291 «Es ist ein reelles Objekt unserer Tätigkeit ausser uns» (ibid., p. 477 – corsivo di Fichte).

292 Sembra riconoscerlo del resto lo stesso Fichte quando parlando della «pro­gettazione del concetto di fine» scrive: «Diese Entwerfung des Begriffs geht nicht der Zeit nach vorher, sondern sie und das Wollen fällt schlechthin in denselben Moment; die Bestimmtheit des Wollens wird vom Begriffe abhängig nur gedacht, und es ist hier keine Zeitfolge, sondern nur eine Folge des Denkens» (ibid., ed. Medicus, Bd. II, p. 482).

293 All’inizio è Fichte stesso che in nota rimanda alla Sittenlehre del 1798 (ed. Medicus, Bd. VI, p. 18).

294 Fichte sembra introdurre ora un motivo metafisico parlando di «una più alta teologia (Gotteslehre) qui soggiacente» grazie alla quale il contenuto della coscienza è «immagine di Dio» (Bild Gottes, ibid., p. 25). Ma questo Dio non è una specie di deus ex machina ed un corpo estraneo a tutto il contesto del trascendentale come fondamento della libertà-autonomia?

295 «Das Ich muss sich erscheinen als nur Erscheinung, und nicht selbständiges Sein» (J. G. Fichte, Sittenlehre 1812; ed. Medicus, Bd. VI, p. 45).Sarebbe utile un confronto con le riflessioni contemporanee di Hegel sul rapporto di essenza-parvenza (Wesen-Schein) in senso della dialettica negativa cioè di superamento e non d’inclusione cioè positiva di Fichte (cf. G. Hegel, Wissenschaft der Logik, 1812; ed. Lasson, Bd. II, p. 7ss. [Der Schein]).

296 S. Th., Ia, q. 83, a. 1. Identico contesto in Fichte: «Warum aber nicht, und was soll bei solcher Bewandtnis alles unser Lehren, Ermahnen, Zureden, als ob die Menschen könnten, da sie doch nicht können?» (ibid., ed. Medicus, Bd. VI, p. 46).

297 E non sarebbero da trascurare, come finora si è fatto, le analisi esistenziali dei poeti romanzieri, pedagogisti, mistici… e di quanti cercano di attingere all’analisi del profondo. Cf. C. Fabro, «L’angoscia esistenziale come tensione di essere-nulla, uomo-mondo nella prospettiva di Heidegger e Kierkegaard», La Panarie 55 (1982) p. 79ss.

298 S. Th., Ia, q. 5, a. 4 ad 3um.

299 De Virt. in comm., a. 7 ad 2um; ed. Taur. 725 a.

300 Cf. la Sittenlehre 1812: Historische Anmerkung, che finisce con la domanda: «Bin ich darum Platoniker?». E risponde: «Ich glaube wohl mehr zu sein» (ed. Medicus, Bd. VI, p. 42s.).

301 «So verwandelt sich die Freiheit in das Vermögen, absolut anzufangen eine Reihe» (W.-L. nova methodo, § 12; ed. Jakob, p. 466).

302 «Ohne Intelligenz – d. h. etwas, das einen Begriff, ein Bewusstsein seiner Tätigkeit hat, ist also keine Freiheit. Zuschreiben des Bewusstseins und zuschreiben der Freiheit ist eins und ebendasselbe» (W.-L. nova methodo, § 4; ed. Jakob, p. 376).

303 J. G. Fichte, W.-L. nova methodo, § 7; ed. Jakob, p. 411.

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