6. Coerenza dell’antropologia Feuerbachiana e incoerenza dell’antropologia teologica

6. Coerenza dell’antropologia Feuerbachiana e incoerenza dell’antropologia teologica (replica alla controreplica)

Gianni Baget-Bozzo ha risposto alla mia replica nella sua rivista «Renovatio» (Teologia e ateismo: risposta al padre Cornelio Fabro) di aprile-giugno 1973. Per quanto posso capire, mi sembra che la sua posizione in sostanza non sia cambiata e lasci intatte le mie riserve di fondo.

Passo sopra ai rinnovati lamenti di Baget-Bozzo per la mia doppia critica, fondata sul fatto che egli aveva sostenuto l’uso di Feuerbach «per l’allestimento di un’antropologia teologica che deve spazzare via la teologia tomista fondata sulla trascendenza metafisica» e che aveva presentato Feuerbach come il «nuovo “Giovanni Battista” di questa teologia del tradimento». Osservo solo che per la seconda affermazione – il Giovanni Battista –, le virgolette possono essere mie ma la rilevanza teologica data a Feuerbach è di Baget-Bozzo ed è ripetuta con energia ancor maggiore in questa replica – come ora vedremo –, la quale conferma in pieno quelle virgolette e il Giovanni Battista. La nuova replica presenta un Baget-Bozzo nuovo, impegnato nel ricupero positivo, diretto, costruttivo… non solo del principio del pensiero moderno in generale ma in una delle sue forme più anticristiane e atee quale è il materialismo antropologico di Feuerbach. Baget-Bozzo, che finora si era mostrato conservatore a oltranza, si è allineato improvvisamente con il progressismo della teologia antropologica? Baget-Bozzo risponde negando e consentendo a un tempo, e lo sforzo della sua risposta è certamente sincero, anche se si presenta tutt’altro che convincente.

A. Anzitutto prendo atto volentieri della dichiarazione che anche Baget-Bozzo considera «…inaccettabile l’antropologia filosofica di Rahner che ha condizionato tutta la sua [di Rahner, ovviamente] trattazione teologica», così che «uno dei problemi maggiori per lo sviluppo della teologia è quello di liberarsi dall’influsso di Rahner, senza però cadere in quello di von Balthasar». Accettabile mi sembra anche l’osservazione metodologica – e Baget-Bozzo sa bene che essa informa tutto il mio primo articolo di «Studi Cattolici» – quando continua: «La via d’uscita sta certo in una adesione più profonda al dato della tradizione, alla ricerca di tutto ciò che la Rivelazione dice sull’uomo. Dubitiamo però che la crisi della teologia possa essere superata senza un profondo rinnovamento spirituale, senza una più ricca e diffusa esperienza del mistero di Dio. I pozzi del sapere umano, anche del sapere teologico, sono cisterne che non servono a dare acqua. Oggi attorno a noi la secolarizzazione pratica sostiene quella intellettuale e quella spirituale, né, umanamente, vediamo una via di soluzione. Il rinnovamento dell’esperienza di Dio è una condizione del pensare su Dio. Altrimenti la politica, di destra, di centro o di sinistra che sia, diverrà sempre più la dimensione prevalente della Chiesa, e una dimensione sempre più incapace di salvarla dall’irrilevanza storica».1

Rilevo: 1) Per la metodologia teologica di essermi rifatto ai princìpi classici di san Tommaso e di non avere mai citato Urs von Balthasar: è un autore che mi sembra di tutto rispetto ma al quale non avrei potuto riferirmi senza un inquadramento preciso del suo pensiero nelle sue varie tappe, un compito che esulava ed esula dall’intento preciso della mia messa a punto. 2) Parimenti mi trovo del tutto d’accordo con il riconoscimento della necessità – anzi urgenza – di un «profondo rinnovamento spirituale» per superare la crisi attuale della teologia. Per mio conto, io parlerei più radicalmente di un ritorno alla pratica del Vangelo, al timore di Dio e alla meditazione delle verità eterne (morte, giudizio, inferno, paradiso), che sembrano quasi radiate nell’infuriare della sociologia pastorale di massa a cui si vuol ridurre oggi la teologia, per dare un’efficace testimonianza al mondo di oggi ingolfato negli eccessi opposti dell’ira e della lussuria. Baget-Bozzo conclude con una riserva sul pericolo della «politica» di destra, di centro, o di sinistra che altrimenti prevarrebbe nella Chiesa… Comunque, l’argomento – anche se esula dalla responsabilità di Baget-Bozzo e soprattutto mia – è ovviamente grave. L’accenno non è senza pertinenza, specialmente dopo il dilagare della teologia politica in quest’epoca di manovre per captare il messaggio del post-Vaticano II.

B. Quibus positis vel praesuppositis, devo dichiarare che non comprendo, non riesco a comprendere, la sua rinnovata professione di fedeltà e di amore feuerbachiani che egli ribadisce nella sua replica. Baget-Bozzo accenna a molte cose di diversa importanza e le presenta piuttosto in ordine sparso e, soprattutto, mescolando l’aspetto metodologico del problema con quello pratico-pastorale: però il suo pensiero centrale è ora più chiaro anche se è rimasto quello di prima, quale è stato da me criticato; una critica che ora – chiedo scusa al teologo Baget-Bozzo – mi sento ancora in dovere di rinnovare.

1. L’infezione antropologica. Baget-Bozzo si lamenta, ma a torto, che io vi insista. È vero che egli respinge l’antropologia rahneriana (e ciò mi fa sinceramente piacere), ma continua ad accettare – ne fa il tema dominante della sua «nuova replica» – l’antropologia feuerbachiana, che è certamente ancor più radicale, perché espressamente sensistica e materialistica: ciò che non oserei dire di Rahner, né l’ho detto nello studio in cui gli ho contestato la mistificazione tomistica.2 Il «neo umanesimo» di Feuerbach è ateo e materialistico – lo riconosce anche Baget-Bozzo – quindi doppiamente inconciliabile alla radice con la trascendenza del messaggio cristiano di salvezza: è la mia tesi, e non mia soltanto, come ho mostrato nella replica a Baget-Bozzo, una tesi chiara e inequivocabile. Sfido chiunque a dimostrare il contrario, con i princìpi e i testi di Feuerbach, ovviamente. Che cosa risponde Baget-Bozzo?

2. Baget-Bozzo e Feuerbach. La sua risposta mi sembra sibillina e «forse» anche contraddittoria. Egli prima dichiara: «Io ho affermato che dei teologi hanno citato Feuerbach riconoscendogli una funzione nello sviluppo della teologia. Su questo Fabro non contraddice. Egli si limita a supporre che io abbia voluto sostenere una sorta di inclusione delle tesi feuerbachiane in teologia». Alla mia dimostrazione – suffragata da testi ben precisi e appoggiata con l’autorità degli interpreti più accreditati e recenti, ciò che Baget-Bozzo non dice – che la posizione di Feuerbach è radicalmente sensista e atea, egli si limita a riportare il testo più indicativo della comunicazione da lui fatta ad Ariccia che qui riporto anch’io per i lettori, sia per fare contento Baget-Bozzo, sia perchè esso dà la prova palmare del suo equivoco fondamentale. Eccolo: «Feuerbach finisce con il definire l’umanità come una relazione. E giunge a ciò perché in lui è nuovo e originario l’interesse antropologico, la sua tensione a porre l’uomo come oggetto del pensiero. L’antropologia come problema filosofico primario è la dimensione comunitaria dell’umano (l’umanità come relazione, il senso degli individui solo come termini della relazione). È soprattutto questa immagine dell’umanità che potrebbe avviare e sostenere una nuova ricerca teologica sul senso trinitario dell’immagine dell’uomo, cercata non più nell’anima come tale, ma nella interezza della relazione comunitaria. È questo il “legato” di Feuerbach alla teologia».3 È vero: è questa posizione che io ho inteso soprattutto respingere e che continuerò a respingere, sia perché altro è includere l’antropologia – il punto di vista antropologico, come ha fatto lo stesso san Tommaso e, prima ancora i Padri, soprattutto sant’Agostino e i Cappadoci – nell’oggetto e nella metodologia teologica, e altro è rivolgersi per far questo all’antropologia di Feuerbach. Baget-Bozzo scrive: «Io ho affermato che dei teologi hanno citato Feuerbach riconoscendogli una funzione nello sviluppo della teologia. Su questo Fabro non contraddice».4 Che ci siano stati teologi specialmente protestanti,5 i quali abbiano riconosciuto a Feuerbach una «funzione» di stimolo nello sviluppo della teologia non ho nessuna difficoltà a riconoscerlo. Ma di quale funzione si tratta? Di uno stimolo negativo o positivo? È ciò che Baget-Bozzo omette di dire, e così tutto il resto è nell’equivoco. Se si tratta di uno stimolo negativo, nel senso della risoluzione atea e materialistica del principio di immanenza, siamo senz’altro d’accordo.6

3. Il Feuerbach teologicamente positivo di Baget-Bozzo. Nel testo, che sto commentando, Baget-Bozzo sembra escludere di aver patrocinato «una sorta di inclusione delle tesi feuerbachiane in teolologia». Però egli ha affermato e torna ad affermare, ad approvare e ad accogliere in Feuerbach:

a) «l’interesse antropologico come nuovo e originario», un’affermazione per lo meno ingenua, poiché l’originarietà dell’interesse (o del problema) antropologico c’è già tutta nel cogito ed è l’essenza del principio moderno di immanenza, solo che Feuerbach gli ha dato la piega più deteriore, cioè materialistica. Per il realismo teistico, cui Baget-Bozzo si protesta fedele, il primo oggetto dell’intelletto è la realtà del mondo in generale, cioè l’indeterminatezza dell’ens nella tensione di finito e infinito.7 Non è l’antropologia che fonda la metafisica o la teologia, ma viceversa: il problema antropologico diventa certamente centrale, ma resta fondato e condizionato al livello anzitutto sia speculativo sia teologico, dal primo atteggiamento della mente verso la realtà e verità in generale e poi dal rapporto a Dio con la scelta dell’ultimo fine.

b) «soprattutto questa immagine dell’umanità [feuerbachiana] potrebbe avviare e sostenere una nuova ricerca teologica sul senso trinitario dell’immagine dell’uomo cercata non più nell’anima come tale, ma nell’interezza della relazione comunitaria. È questo il “legato” [virgolette di Baget-Bozzo] di Feuerbach alla teologia». A rileggere quest’affermazione oggi, e a vederla ripetuta con tanta ingenua baldanza da Baget-Bozzo, mi vengono i capelli ritti. Non potevo nella prima critica scendere nei particolari, ma confesso, di aver peccato di omissione. L’affermazione mi sembrava tanto esplicita e categorica quanto grave e sorprendente: se Baget-Bozzo non riesce a rendersene conto, il nostro dialogo, o controversia che dir si voglia, non ha senso e non avrà un punto di incontro, perché le parole rischiano ormai di aver perso il loro senso abituale. Voglio procedere perciò nel modo più elementare per manifestare, chiaro e tondo, ciò che non riesco più a capire nel discorso di Baget-Bozzo.

– Non riesco a capire perché, dopo aver negato «l’inclusione delle tesi feuerbachiane [quali?] in teologia», poi si assuma l’antropologia feuerbachiana, che tutte le include, come problema filosofico primario, ossia che si accetti il tronco e la fonte senza i rami e i rivoli; in termini più tecnici, non capisco che si disgiungano le conseguenze dal principio o anche (in forma più tecnica) il metodo dall’oggetto.

– Non riesco a capire come la dimensione comunitaria dell’uomo propria di Feuerbach «potrebbe avviare e sostenere una nuova ricerca teologica nel senso trinitario dell’immagine dell’uomo». Per me, qui, tot verba, tot absurditates, e mi scusi tanto Baget-Bozzo. Mi spiego. La dimensione comunitaria del pensiero dell’uomo è antica quanto la vita, quanto la filosofia. Lo stesso Parmenide diede a Elea, che ho potuto finalmente visitare in questi giorni (agosto 1973), un esemplare corpo di leggi fondate sulla di,kh, che è il supremo rapporto umano comunitario secondo ragione: una legislazione che fu rispettata, come si rileva fra l’altro dalle iscrizioni e dalle monete bilingui, dagli stessi Romani quando tra il III e II secolo a. C. incorporarono Elea alla potenza di Roma, riconoscendole l’indipendenza giuridica. E c’è la notissima definizione aristotelica dell’uomo come zw|/on politiko,n, senza dire della concezione dell’uomo degli stoici e degli epicurei. Una concezione comunitaria, vicina alla concezione cristiana, nel pensiero moderno di ispirazione trascendente e ispirata al cristianesimo, era per esempio piuttosto quella della dialettica teistica di io-tu come rapporto spirituale elaborata da Jacobi, che Feuerbach conosce ma capovolge in rapporto sensibile, sostituendovi la «dialettica di io-tu coniugale», cioè chiusa nel mondo finito e materialistico dell’ambito psicologico.

– Non capisco perciò che senso possa avere l’immagine in senso trinitario, ispirata al comunitarismo materialistico di Feuerbach che ha scritto il Das Wesen des Christentums per criticare a fondo il dogma, soprattutto della Trinità e dell’Incarnazione cristiana.8

– Non capisco (ed è la prima volta che lo leggo in un teologo cristiano) come l’immagine di Dio nell’uomo non vada cercata anzitutto nell’«anima come tale, ma nella interezza della relazione comunitaria». Qui si fanno avanti due tremende perplessità: prima, il declassamento dell’anima come atto sostanziale che è certamente forma corporis sostanziale ma emerge come forma subsistens grazie alla sua spiritualità; e poi la riduzione radicale (hegeliana-feuerbachiana-marxistica) dell’uomo a principio comunitario cioè a genere (Gattung). La sussistenza dello spirito finito nella sua singolarità, che si rapporta direttamente a Dio, è uno dei punti culminanti del realismo cristiano definito da Clemente V nel Concilio di Vienna (1312);9 e da Leone X nel Concilio Lateranense contro i neo aristotelici.10 È ovvio che anche il corpo umano ha una sua propria dignità, superiore al corpo degli animali anche superiori, ma questo in virtù dell’anima spirituale che lo informa come principio di essere, di vita e di operazioni.

Il problema dell’immagine è il locus divergentiae dirimens tra teismo e ateismo: secondo il primo, infatti, Dio ha creato l’uomo a sua immagine; secondo l’altro (e Feuerbach), è l’uomo che si è figurato Dio a propria immagine: «La coscienza di Dio è l’autocoscienza dell’uomo, la conoscenza di Dio è l’autoco-noscenza dell’uomo».11 Di qui Feuerbach deduce il carattere fittizio e fantastico dell’idea di Dio, perciò la consistenza metafisica dell’ateismo e l’immoralità del teismo.12

– Non capisco quanto Baget-Bozzo, avviandosi alla conclusione, afferma dei suoi rapporti con Feuerbach dopo il ditirambo che gli ha dedicato: cioè che «qui non si tratta di accettare la filosofia di Feuerbach, ma il suo problema di una definizione ontologica dell’umanità, di una definizione che riconosca la relazione tra le persone non solo sul piano delle azioni, ma sul piano stesso dell’essere».13 Osservo che nella riduzione della filosofia ad antropologia Feuerbach intende superare ogni metafisica od ontologia che poggi su archetipi necessari e universali dell’umanità, e che il piano dell’essere si riduce in Feuerbach – e nella stessa concezione di Baget-Bozzo della «relazione comunitaria» affermata poc’anzi – al piano dell’agire (rapporto io-tu, eccetera…). È vero che il concilio Vaticano II – come già la teologia classica – ci ha posti sulla via del modello della teologia trinitaria per comprendere la relazione fondante che unisce gli uomini oltre il tempo e lo spazio, ma questo modello esige di considerare l’anima come spirito sussistente che riflette l’immagine delle divine Persone in quanto è principio spirituale e dotata di facoltà assolutamente trascendenti (memoria, intelletto e volontà), agli antipodi perciò del materialismo di Feuerbach.

L’uomo è immagine di Dio in se stesso, nella costituzione metafisica e dinamica del suo essere spirituale, nella sua libertà e nella possibilità della scelta assoluta dell’Assoluto, antecedentemente e anzi a fondamento dei suoi eventuali rapporti comunitari. Questo vale sia nell’ordine naturale sia, e soprattutto, dentro la Chiesa come corpo mistico di Cristo – ciò che Baget-Bozzo non distingue, secondo la nuova moda del neo pelagianesimo, perché gli resta assente (nella sua diatriba) il presupposto fondamentale del cristianesimo, cioè il circolo esistenziale del peccato e della grazia. Può Baget-Bozzo provare il contrario?14

C. La libertà del teologo secondo Baget-Bozzo.

Il nostro teologo feuerbachiano ammette che avrebbe potuto esporre questo problema – quale? quello, dell’immagine di Dio? del rapporto comunitario? – senza fare alcun riferimento a Feuerbach. Baget-Bozzo cita nel capoverso precedente uno splendido testo della Gaudium et spes: «Immo Dominus Jesus, quando Patrem orat ut “omnes unum sintsicut et nos unum sumus” (Jo. 17, 21-22), prospectus praebens humanae rationi impervios, aliquam innuit similitudinem inter unionem personarum divinarum et unionem filiorum Dei in veritate et caritate».15 L’unum di cui parla il testo giovanneo è certamente l’unità nella fede e soprattutto nella grazia come «partecipazione della natura divina» (2 Pt. 1, 4), non certamente quella della Gattung materialistica di quanti dopo Epicuro e con Feuerbach e consorti «l’anima col corpo morta fanno».16 Per Baget-Bozzo invece «questo problema» (domando ancora: quale?) esige il richiamo a Feuerbach: ignorare od omettere tale richiamo «…non sarebbe stato né giusto né teologale».17 Confesso ancora – e torno a chiedere scusa – di non capire: a meno che il richiamo a Feuerbach non significhi una «giusta e teologale» confutazione, come si deve, dei fondamenti e del contesto dell’antropologia materialistica feuerbachiana!

Ugualmente non comprendo la «finalissima» di Baget-Bozzo, che è tutto un peana di trionfalismo ideologico per la Chiesa, la quale è sempre più il fondamento della storia, la sua condizione di possibilità. «Tutto ciò che matura nel mondo nasce dalla Chiesa e fruttifica per la Chiesa». Riguardo alla prima affermazione, che è la protasi («Tutto ciò che matura nel mondo»), devo confessare che essa mi fa inorridire. Che cosa attualmente matura nel mondo? Non è soprattutto, l’homo homini lupus di Hobbes? Non sono le crudeltà efferate di continue guerre e guerriglie? Gli orrori dei sequestri di persona e dei dirottamenti aerei? La volgarità, il pansessualismo spinto ad abiezioni sconosciute allo stesso paganesimo, spinto fino alla dissacrazione, nella decima musa, della persona stessa di Cristo? Il distacco, che si fa sempre più amaro, delle nuove generazioni, vittime del benessere e della droga e degli altri orrori della società consumistica? I fenomenologi più attenti ed accorti parlano perciò espressamente di una «disumanizzazione» (Entmenschlichung) della vita: solo Baget-Bozzo non se ne accorge?

Per quanto riguarda la seconda affermazione, che è l’apodosi («fruttifica per la Chiesa»), lo spero ardentemente anch’io, ma i sintomi si fanno ancora troppo attendere, e la realtà fa piuttosto pensare al tremendo monito di Cristo, che attinge direttamente proprio anche questa teologia della «resa al mondo»: «Verumtamen Filius hominis veniens, putas, inveniet fidem in terra?» (Lc. 18, 8), che faceva tremare Kierkegaard e deve far tremare ogni cristiano che in timore e tremore aspira a Dio in un mondo perverso e dominato dal maligno (1 Gv. 5, 19). Non si tratta di compiacersi delle tinte fosche, ma di prendere atto della gravità delle conseguenze del peccato operanti nella storia con impeto crescente in proporzione dell’infedeltà dell’uomo. E oggi questo sprofondamento degli stessi valori umani è avallato perfino da una teologia ed ecelesiasticità permissiva (non oso parlare di una «Chiesa permissiva», perché il supremo magistero ha ripetutamente chiarito i punti fermi del dogma e della morale) le cui aperte concessioni farebbero arrossire gli epicurei e i libertini di tutti i tempi. Non siamo sotto molti aspetti già ai tempi dell’infedeltà generale e del dominio della Bestia descritti dall’Apocalisse?

Non comprendo perciò, e soprattutto, l’assunto fondamentale di Baget-Bozzo, svolto nella prima parte della replica e ripreso in questa «finalissima».

Eccolo: «Il filosofo può limitarsi a criticare gli errori di Hegel, Feuerbach, Marx, Freud, eccetera. Il teologo deve vedere qualcosa oltre gli errori, appunto perché egli contempla la storia alla luce del mistero di Dio. Egli deve scorgere anche l’invisibile punto di derivazione, di attrazione, di complicità, che lega tutto ciò che è nato dopo Cristo al regno di Cristo. Un teologo, naturalmente, diremo con padre Fabro, che abbia la luce della fede, una fede viva, ascendente, una fede che penetra nel mistero di Dio: e nella luce di Dio vede il regno di Cristo sulla storia, il Signore che regge il mondo e a cui tutti, secondo la loro miseria, servono».18 Qui occorre intendersi bene: è chiaro che la divina provvidenza può cavare anche dal male il bene, come ha fatto con il primo peccato (o felix culpa!): ma questo è opera di Dio e del suo amore per gli uomini, che non elimina, ma presuppone, la nostra malizia e colpa. È questo che ci insegna la fede, specialmente il mistero della Passione e morte di Cristo, anzitutto la sua vita, che, secondo l’Imitazione di Cristo, «tota crux fuit et martyrium».19 Ogni uomo, ma soprattutto il cristiano, deve impegnarsi nella scelta radicale della sua vita «davanti a Dio»: «nostra conversatio est in coelis» e non in questo mondo.

Nella prima parte della replica Baget-Bozzo enunzia piuttosto rapsodicamente il suo atteggiamento verso il pensiero moderno, che egli esprime distinguendo – come riafferma nella conclusione ora citata – l’atteggiamento del teologo da quello del filosofo. Anche qui le sue affermazioni mi sembrano azzardate e mi lasciano assai perplesso circa i rapporti tra pensiero moderno e fede cristiana. Procedo secondo osservazioni elementari di fondo.

1.Rapporti della teologia con il pensiero moderno. Il sottoscritto non solo non li nega, né li ha mai negati, ma vi ha impegnato gran parte del suo studio, con le ricerche nel campo metafisico,20 ma anche con le traduzioni e gli studi kierkegaardiani. Ma di quali rapporti si tratta? Baget-Bozzo parla di «semi di verità» (virgolette sue) che sono nelle «filosofie diverse e contrarie alla religione rivelata».21 Su questa espressione posso essere d’accordo, più (forse) che sull’altra nota formula di Olgiati che parlava dell’«anima di verita». Ogni uomo tende alla verità, e perciò anche e soprattutto in ogni filosofia si manifesta l’originarietà di tale tensione: questo è pacifico, ma si tratta di esaminare la sua attuazione nel dinamismo profondo. Baget-Bozzo scrive: «Il principio perciò di escludere a priori dal dialogo, non dirò il pensiero moderno, ma i problemi del pensiero moderno, non è conforme al metodo della teologia secondo il magistero».22 Il sottoscritto non ha escluso mai i «problemi», ma ha rilevato la novità (capovolgimento della verità) e ha criticato il principio moderno fondamentale del cogito e ha mostrato, come Baget-Bozzo stesso ricorda, la coerenza delle conclusioni di ateismo e immoralismo degli epigoni dell’immanentismo moderno. Feuerbach compreso. «Parvus error in principio [l’error poi del cogito è tutt’altro che parvus!] fit maximus in fine».23 E qui devo precisare anche altre affermazioni piuttosto veloci di Baget-Bozzo.

2. Il libro delle Sentenze di Pier Lombardo è una compilazione di dottrine e testi in prevalenza agostiniani e perciò costituisce un’affermazione che si inserisce nell’autentica tradizione agostiniana già valorizzata nei secoli precedenti specialmente con l’opera di sant’Anselmo. Le stravaganze della teologia della storia di Gioachino da Fiore furono un fenomeno isolato che sarà ripreso nella speculazione panteistica dell’idealismo tedesco. 24

3. Non ho mai affermato, né scritto – come Baget-Bozzo asserisce – che Vico e Rosmini «sono degli atei impliciti».25

4. Torno a insistere che altro è il rapporto verso il cristianesimo della filosofia antica, che ancora non poteva conoscere la divina Rivelazione di Cristo, e altro quello della filosofia moderna che l’aveva davanti a sé nella storia di un millennio e mezzo. Inoltre non si tratta di considerare la filosofia classica in blocco. Nella filosofia antica non vedo come possano conciliarsi con il cristianesimo le filosofie materialistiche di Democrito ed Epicuro,26 le filosofie scettiche e atee di Diagora, di Pirrone, di Enesidemo, né certe forme di materialismo stoico e di panteismo neo platonico… Per quanto riguarda il platonismo e l’aristotelismo la situazione è dialettica, ossia lo sviluppo della dottrina cattolica e della riflessione teologica hanno mostrato che di queste due altissime filosofie, le quali hanno purificato più delle altre la coscienza umana dall’insidia materialistica e panteistica, è stato fatto un uso sia negativo, che è sfociato nel pullulare delle eresie, sia ortodosso, che ha contribuito a respingere gli attacchi delle eresie e a consolidare e sviluppare il senso dei dogmi. Quanto Baget-Bozzo afferma nel primo capoverso di p. 321 della replica è confuso e generico. Con il richiamo, da lui riferito, a Gaudium et spes, 57 e 62 sono completamente d’accordo. E qui soprattutto mi permetto di segnalare al filofeuerbachiano Bager-Bozzo l’ultimo periodo da lui citato e che io sottolineo: «Praeterea teologi, servatis propriis scientiae theologicae methodis et exigentiis, invitantur ut aptiorem modum doctrinam cum hominibus sui temporis communicandi semper inquirant, quia aliud ipsum est depositum fidei, seu veritates, aliud modus secundum quem enuntiantur, eodem sensu, eadem tamen senientia». È sul fondamento di quest’aurea massima di Vincenzo di Lerines, citata anche dal Vaticano I,27 che dobbiamo – Baget-Bozzo mi trova completamente solidale – meditare e investigare.

Non comprendo infine, e soprattutto (e chiedo ancora scusa), lo strano criterio metodologico di fondo di Baget-Bozzo circa la diversità di comportamento verso l’ateismo e l’immanenza antropologica radicale del cogito da parte del filosofo e del teologo: il suo criterio si riduce a dire che il filosofo può (e deve) denunziare l’errore, mentre il teologo può e deve «valorizzare» tale errore! Baget-Bozzo giustamente si appella per questo al problema e al dovere del «dialogo» con il pensiero moderno. Io mi domando, a quasi dieci anni dalla chiusura del Vaticano II, se per questo programma del «dialogo» siano stati enunciati princìpi chiari e teologicamente validi o piuttosto non si stia ancora brancicando in esperimenti aleatori che hanno lasciato molto perplessi e disorientati (specialmente per quanto riguarda il Segretariato dei non credenti, alla cui sfera appartiene Feuerbach!). Baget-Bozzo sa che finora tale «dialogo» non ha trovato alcuna piattaforma soddisfacente di lavoro e che sono state commesse e si commettono ancora non poche leggerezze e imprudenze, poiché si è ignorata l’aurea regola ora riportata di Vincenzo di Lerines. Vediamo la posizione di Baget-Bozzo:

a) Differenza di metodo tra teologia e filosofia: «Il principio perciò di escludere a priori dal dialogo, non dirò il pensiero moderno, ma i problemi del pensiero moderno, non è conforme al metodo della teologia secondo il magistero. Va inoltre detto che teologia e filosofia hanno diversi oggetti e diversi metodi: la loro differenza, forse meno avvertita in tempi passati, tende ora ad accentuarsi».28 Rispondo: La differenza di metodo è anzitutto, nell’origine dei princìpi: la ragione naturale fornisce i suoi princìpi alla filosofia, la fede fornisce i princìpi rivelati alla teologia; le altre differenze, che non posso qui toccare ovviamente, come, per esempio, la dipendenza del teologo dal magistero, derivano da questa che è fondamentale per l’originalità della sacra doctrina.

b) Il teologo e il problema della storia «Il teologo ha, molto più del filosofo, il problema della storia. Fabro, come filosofo, può aver svolto il suo compito quando abbia rintracciato le radici filosofiche dell’ateismo e dimostrato la problematicità o la contraddittorietà dei loro fondamenti. Ma il teologo non ha a che fare in primo luogo con l’ateismo come teoria, ma con l’ateismo come fatto storico. Perché sia finita la cristianità e sorta la società secolarizzata, perché il mondo moderno venga dopo il mondo cristiano, è un grave problema per il cristiano e per il teologo».29 Rispondo: Il problema della storia non è affatto una prerogativa della teologia ma appartiene anche, e ancora prima, alla stessa filosofia (Vico, Herder, Voltaire, Montesquieu, Hegel, Comte…). Certamente esso non è il problema fondamentale della filosofia e neppure della teologia sotto l’aspetto formale costitutivo, ma sotto quello propriamente esistenziale. E la sua soluzione, fin quando si può prospettare una soluzione, dipende dai princìpi fondamentali a cui una sana filosofia e una sana teologia si ispirano. 30

c) La secolarizzazione e il «tesoro» del pensiero moderno. Baget-Bozzo pone due problemi assai diversi fra loro: 1) «Il cristiano che vive nel mondo secolarizzato non può non interrogarsi sulle cause della secolarizzazione della cristianità. Proprio perché egli crede nella signoria del Cristo sulla storia, crede nella redenzione avvenuta, nello Spirito Santo effuso, non può non domandarsi perché l’ateismo di massa sia emerso per la prima volta nei Paesi cristiani dopo i secoli cristiani: e, purtroppo, dobbiamo dire oggi, nelle stesse chiese cristiane».31 Rispondo: Il problema è gravissimo – sono d’accordo – e si deve studiarlo a fondo per potersi orientare su un fenomeno che oggi forse rivela una gravità di errori, nei princìpi e nelle conseguenze, quali mai finora si erano dati nella storia pur tanto travagliata della Chiesa. 2) «Il filosofo può considerare svolto il suo compito quando ci ha indicato i presupposti teorici dell’ateismo: il teologo ha il problema di chiedersi il perché spirituale e storico dell’ateismo, e questo implica per lui ricercare il bene nascosto in questo male, il dono nascosto in questa privazione, la grazia nascosta in questa prova. Il teologo, che deve rendere conto della verità della fede, deve ascoltare i testimoni della non fede e capire non solo che cosa gli portano via, ma anche cosa gli offrono. Ciò non lo conduce a patteggiare con l’errore ma a rispettare il pensiero avverso. E, in un certo modo, a farne tesoro, a usarlo per costruire una casa alla sapienza».32 Rispondo: Qui invece, come ho già detto, non posso essere d’accordo. Se la filosofia (non la «cultura» moderna) ha preso con il cogito un indirizzo fondamentalmente erroneo, le sue prospettive non possono essere che frutti di tosco: sono quelli precisamente che abbiamo davanti agli occhi, con i quali i teologi progressisti intendono e pretendono «reinterpretare», cioè distruggere, il cristianesimo come ha ammonito recentemente lo stesso Paolo VI.

D’accordo in tutto, o quasi, sul grande capoverso che segue («Ciò non significa…») a eccezione della frase che mi sembra estremamente ambigua: «…[quanto più il teologo] sa ricevere la oscurità degli uomini nel suo cuore, più riesce a esprimere la sapienza di Dio nella sua parola» (corsivo mio). Rispondo: se si tratta di «comprendere», «rendersi conto…» della oscurità, sì, sono d’accordo. Invece «ricevere» nel senso di «accogliere», «fare proprio», «approvare», «ammettere la validità…», no e poi no. Il medico non comincia a curare il malato col prenderne la malattia, ma tenendosi in salute e facendone la precisa diagnosi, e Cristo, nostro salvatore e Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, era e si proclamò senza peccato. Chi accetta i princìpi del cogito moderno, ripeto, non può esimersi dalle sue conseguenze negative e distruttive.

Altro è chiedersi il significato profondo della problematica del pensiero moderno, ossia il significato ultimo e il rilievo dominante della libertà quale costitutivo della soggettività umana nel senso della sua originalità radicale in sé consistente e quindi di scelta del proprio essere (ultimo fine), anche rispetto alla scelta di Dio stesso: di qui la possibilità radicali dell’ateismo positivo che è proprio del pensiero moderno. Di qui l’errore fondamentale del pensiero moderno, nell’identificazione dogmatica e naturalistica del cogito con il volo e della precedenza di questo su quello, parallela e conseguenza e causa a un tempo della precedenza del pensiero sull’essere. È questa la discussione di fondo che molti teologi conteniporanei hegelianizzanti e heideggerianizzanti – Rahner, Küng, Kasper, Schoonenberg., Hülsbosch…– danno invece per scontata, mettendosi dalla parte della gnosi del radicalismo liberale protestante e mettendo in crisi la distinzione capitale per la teologia che è e rimane quella tra ragione e fede, tra natura e grazia, secondo il Vaticano I.

La crisi della teologia contemporanea, in cui si vuole calare anche Baget-Bozzo è, da una parte, una crisi scientifica di metodo, cioè di abbandono dei loci theologici del metodo classico, e dall’altra una crisi morale di oblio dello scandalum crucis per adeguarsi agli errori e alle follie edonistiche del mondo contemporaneo. Bisogna ripetere ancora con J. A. Möhler: «Veni, creator Spiritus…».


1 «Renovatio», aprile-giugno 1973, p. 323.

2 Cfr. C. Fabro, La svolta aniropologica di Karl Rahner, Rusconi, Milano 1974.

3 «Renovatio», luglio-settembre 1971, p. 380. Nel volume del Convegno di Ariccia, Dimensione antropologica… cit., pp. 271 ss.

4 Ivi, p. 323.

5 Per esempio cfr. K. Barth, Die protestantische Theologie im 19. Jahrhundert cit., pp. 484 ss.; Die Theologie und die Kirche, Zurigo s.d., pp. 212 ss.; K. Leese, Die theologische Prinzipienlebre im Lichte Ludwig Feuerbachs cit.; Id., Die Religionskrisis des Abendlandes und die religiöse Lage der Gegenwart, Amburgo 1948, pp. 97 ss.

6 Posso rimandare alla mia Introduzione all’ateismo moderno cit., II, 690 ss., ripreso e aggiornato nella replica su «Studi Cattolici», n. 143, pp. 17 ss.

7 S. Tommaso, De veritate, I, 1.

8 Cfr. L. Feuerbach, Das Wesen des Gbristentums, parte I, c. 7: Das Mysterium der Dreieinigkeit und Mutter Gottes, parte II. c. 25: Der Widerspruch in der Trinität. La tesi centrale è ripresa nel titolo dell’ultima delle importanti note a questa sua opera capitale: «Der Mensch ist der Gott des Christentums, die Anthropologie das Geheimnis der christlicken Theologie», a cura di D. Bergner, Reclam, Lipsia 1957, p. 466. È l’antitesi e mistificazione esplicita della trascendenza ed efficacia divina del messaggio cristiano di salvezza.

9 Cost. Fidei catholicae, Denz.-Sch. 902.

10 Denz. 1440.

11 «Das Bewusstsein Gottes ist das Selbstbewusstsein des Menschen, die Erkenntnis Gottes die Selbsterkenntnis des Menschen» (L. Feuerbach, Das Wesen des Christentums cit, parte I, c. 2, p. 71).

12 Ivi, parte II, c. 21, pp. 286 ss., spec. p. 292.

13 Dimensione antropologica cit., p. 324.

14 Per un orientamento sulla teologia patristica della imago Dei rimando alla raccolta monumentale di G.W.H. Lampe, A Patristic Greek Lexicon, Oxford 1968, s.v. eivkw,n, spec. § III: Of image if God in man (pp. 413 ss.). L’immagine è presa tutta da parte dell’anima e della sua vita spirituale.

15 Gaudium et spes, 24; ed cit., p. 814.

16 Inferno, X, 15.

17 «Renovatio» cit., p. 324.

18 Ivi, p. 324.

19 De imit. Christi, II, 12, 7.

20 Cfr. Partecipazione e causalità, SEI, Torino 1961; L’uomo e il rischio di Dio cit., e soprattutto Introduzione all’ateismo moderno cit., che Baget-Bozzo ha avuto la benevolenza di citare.

21 «Renovatio» cit., p. 319.

22 Ivi, p. 321.

23 De ente et essentia, prologo.

24 N. Cohn, Das Ringen um das tausendjäbrige Reich, Berna-Monaco 1961, pp. 94 ss. Sulle linee fondamentali della concezione di Gioachino da Fiore e del suo sviluppo nei movimenti eterodossi medievali fino all’idealismo moderno, cfr. C. Fabro, La storiografia nel pensiero cristiano, in «Grande Antologia Filosofica», Marzorati, vol. V, pp. 42 ss.; testi, pp. 166 ss.

25 «Renovatio» cit., p. 320.

26 Il tentativo di Gassendi, in questo senso, non convince.

27 Denz.-Sch. 3020.

28 «Renovatio» cit., p. 321.

29 Ivi.

30 Citando il grande Péguy, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, Baget-Bozzo sembra attribuire il marasma spirituale del nostro tempo a una faute mystique, ossia che «la règle n’a pas nourri le siècle», che «gli uomini di Chiesa non hanno nutrito il popolo della ricchezza della fede» (p. 322). Non mi sento di condividere questa condanna di un secolo come il diciannovesimo, fulgente per la predicazione, le iniziative apostoliche ed educative, la fioritura di santità, specialmente in Francia e Italia (anche a Genova!), per l’attività dei Pontefici, per l’opera di difesa della fede da parte dei Pontefici e del concilio Vaticano I contro gli errori moderni. E oggi l’incessante opera di Paolo VI di ammonizione contro gli errori che proliferano da ogni parte con arrogante sicurezza è forse più ascoltata? Dovrà allora l’attuale Pontefice essere considerato responsabile dell’attuale bailamme?

31 «Renovatio» cit., p. 322.

32 Ivi, p. 322.

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