4. La dissoluzione della teologia in antropologia

4. La dissoluzione della teologia in antropologia

– Prologus Galeatus: il concetto tomistico di sacra doctrina

– Il tema del Convegno

– La «svolta antropologica» della nuova teologia

Prologus Galeatus: il concetto tomistico di sacra doctrina.

 È giunto anche per la teologia, che i nostri antichi e san Tommaso nella Summa chiamano sacra doctrina1 fondata sulla Parola di Dio venuta dall’alto, il cosiddetto «momento della verità» ovvero della sua resa a discrezione di fronte all’indiscrezione del clamore scomposto delle molte e confuse parole umane che vengono dal basso?

Nel plesso semantico di sacra doctrina il termine sacra ha per san Tommaso un significato differenziale, ossia caratterizzante, in quanto gli oggetti propri, cioè le verità di cui tratta principalmente la teologia, non sono trovati dalla ragione ma vengono da Dio per rivelazione. Inoltre, solo poche intelligenze, ossia le più forti e anche queste non senza fatica e mescolanza di errori, sono in grado di conoscere e investigare le stesse verità su Dio accessibili alla ragione naturale. Di qui la vigorosa formula tomistica: «Necessarium igitur fuit, praeter philosophicas disciplinas, quae per rationem investigantur, sacram doctrinam per revelationem haberi».2 Netto è quindi il divario tra la teologia e le altre scienze umane, compresa la più alta e ardua, che è la metafisica: queste sono all’origine umane, quella è sacra.

La «sacralità» della teologia cristiana3 non è pertanto una qualifica culturale estrinseca ma va detta costitutiva intrinseca e questo anzitutto nella sua vera origine, perché essa tratta di Dio e delle creature «…secundum quod cognoscuntur lumine divinae revelationis».4 Anche se non è qui il caso di diffondersi sulle profonde riflessioni che san Tommaso dedica alla trascendenza, cioè all’origine soprannaturale della teologia, essa va tuttavia ricordata con tutto il vigore. Questo suo carattere di trascendenza spicca dovunque l’Angelico ritorna sul problema con le espressioni più forti: per esempio, quando usa l’espressione sacra Scriptura seu doctrina. E infatti la ragione principale di questa eccellenza singolare della teologia è appunto nella sua origine, che è la divina Rivelazione: «Sacra autem doctrina propriissime determinat de Deo secundum quod est altissima causa; quia non solum quantum ad illud quod est per creaturas cognoscibile (quod philosophi cognoverunt), ut dicitur: Quod notum est Dei, manifestum est in illis; sed etiam quantum ad id quod notum est sibi soli de seipso, et aliis per revelationem communicatum».5 Il nodo perciò e la fonte della verità teologica non sono in terra ma in cielo, nella scienza di Dio e dei beati di cui essa è subalterna: «Et hoc modo sacra doctrina est scientia, quia procedit ex principiis notis lumine superioris scientiae, quae scilicet est scientia Dei et beatorum.6 Alla sacralità di origine corrisponde e si aggiunge la sacralità del contenuto in quanto è Dio stesso direttamente o indirettamente l’oggetto della teologia, da cui deriva la particolare consistenza e unità della teologia come scientia salutis. San Tommaso lo esprime tenendo sempre presente oltre la causa efficiente anche la causa finale: «Omnia autem pertractantur in sacra doctrina sub ratione Dei; vel quia sunt ipse Deus; vel quia habent ordinem ad Deum, ut ad principium et finem. Unde sequitur quod Deus vere sit subiectum huius scientiae».7 E l’Angelico intende questa unità e coesione dell’oggetto della teologia secondo un movimento che abbraccia l’intera vita soprannaturale al di là di ogni classificazione o determinazione sistematica: «Omnia alia quae determinantur in sacra doctrina, comprehenduntur sub Deo, non ut partes vel species, vel accidentia, sed ut ordinata aliqualiter ad ipsum».8

Il nocciolo della verità salvifica della teologia, come è intesa da san Tommaso, che certamente è l’eco della più pura e vigorosa tradizione patristica, è che la teologia forma un plesso unitario con la fede soprannaturale e la scienza di Dio e dei beati, così che gli articuli fidei fungono per essa da primi princìpi. Di qui le espressioni tanto in sé illuminanti, quanto oggi (come ora diremo) completamente ignorate: «Sua principia sunt articuli fidei»; «Cum enim fides infallibili veritati innitatur»; «Innititur nostra revelationi Apostolis et Prophetis factae, qui canonicos libros scripserunt».9 Di qui il capovolgimento nella sfera stessa dell’evidenza che può essere espressa, con terminologia moderna, dicendo: «Mentre nelle scienze naturali l’evidenza è analitica e orizzontale, nella teologia essa è sintetica e verticale», oppure (e forse meglio): «Mentre il sapere naturale ha carattere di evidenza formale, la conoscenza della vita soprannaturale ha carattere di evidenza reale cioè personale». Meglio ancora si potrebbe dire che qui non si tratta di appellarsi alla evidentia auctoritatis personae. Per san Tommaso infatti il fatto che la teologia poggi sull’autorità e non sull’evidenza dei contenuti non nuoce ma consolida la sua verità, come egli afferma in un testo un po’ lungo ma istruttivo anche perché sembra ormai dimenticato dalle nuove generazione dei teologi: «argumentari ex auctoritate est maxime proprium huius doctrinae, eo quod principia huius doctrinae per revelationem habentur; et sic oportet quod credatur auctoritati eorum quibus revelatio facta est. Nec hoc derogat dignitati huius docirinae. Nam licet locus ab auctoritate quae fundatur super ratione humana sit infirmissimus; locus tamen ab auctoritate quae fundatur super revelatione divina, est efficacissimus.10

Possiamo allora concludere che il carattere incomparabile che compete alla teologia come sacra doctrina non le deriva solo in quanto il prologo è in cielo ma anche in quanto, per usare un’espressione cara alle ultime leve della teologia cristiana, l’intero suo «orizzonte» è sotto la continua irradiazione della fede soprannaturale e sotto la guida della divina rivelazione garantita nell’evento storico mediante l’autorità. Quel che importa rilevare con forza è che il «giro logico» ovvero la persuasibilità degli articoli di fede è immanente alla mozione intima della fede stessa, così che ove viene a mancare la fede il discorso teologico perde ogni presa diretta, e il teologo deve limitarsi «…ad solvendum rationes si quas [adversarius] inducit contra fidem».11 In questo suo compito non vi è dubbio che la teologia faccia ricorso anche alla ragione naturale, cioè ai contributi della storia, della critica ermeneutica, della filosofia stessa, della scienza…. che è il piano su cui si trova l’avversario non credente. Il ricorso alla ragione è comunque del tutto secondario ed è un punto da tenere ben saldo: «Utitur tamen sacra doctrina etiam ratione humana non quidem ad probandum fidem (quia per hoc tolleretur meritum fidei), sed ad manifestandum aliqua alia quae traduntur in hac doctrina. Cum enim gratia non tollat naturam, sed perficiat, oportet quod naturalis ratio subserviat fidei; sicut et naturalis inclinatio voluntatis obsequitur charitati».12 La funzione ministeriale della ragione umana verso la teologia, secondo l’intero àmbito delle scienze e della filosofia, si inquadra pertanto nella serenità dell’armonia tra natura e grazia e quindi tra ragione e fede, e, anche se la teologia fa uso di tali scienze ovviamente… tamquam interioribus et ancillis,13 questa loro funzione diventa un titolo d’onore14 e non ha nulla a che fare con il presunto «ancillaggio» – un brutto termine per una funzione altissima – denunziato invece dai fautori dell’ultima teologia.

Ma questo anche spiega o almeno fa sospettare che questi fautori dell’ultima teologia stiano in realtà per diventare i «fossori» della sacra doctrina che è la teologia tout court. È fondato questo sospetto che sarebbe catastrofico per l’uomo pellegrino verso l’eternità? Pensiamo sia molto istruttivo a questo riguardo percorrere e considerare l’ispirazione e i punti salienti del tema presentato nel Convegno del 1971 dei Teologi Italiani, anche perché il monumentale volume degli Atti15 è passato quasi inosservato dalla stampa o ha avuto – come spesso accade – presentazioni e recensioni troppo frettolose.

Il tema del Convegno.

Il volume degli Atti del Convegno merita la più seria considerazione sia per l’argomento sia per il suo carattere rappresentativo.16 Diciamo subito che la stragrande maggioranza dei relatori sembra ignorare del tutto la sacra doctrina nel senso tomistico, anzi parte con la lancia in resta contro la concezione classica senza mai tentare – se ho letto bene! – di chiarirne almeno gli elementi fondamentali. Una fin de non recevoir… e basta: e questo è già poco serio. Ma ciò che maggiormente preoccupa è che in un Convegno dedicato al «metodo teologico»17 nulla si dice, e nulla il lettore riesce a trovare, sulle «fonti» del discorso teologico, sulla regula fidei, sulla guida del magistero, sulla problematica dei rapporti espliciti tra natura e grazia e tra fede e ragione…18 Una scusa può essere la giovane età dei relatori (la maggior parte non raggiunge i quarant’anni e qualcuno neppure i trenta); un’altra scusa potrebbe essere la suggestione innegabile del termine «antropologia» accostato, alla teologia, in quanto l’uomo – come Giobbe – si sente chiamato, a far valere il dono divino della ragione anche davanti a Dio. Una terza e più reale scusa – ma la chiamerei senz’altro la spiegazione effettiva – è il fatto che l’atteggiamento qui dominante è stato allestito in una colluvie di libri e libercoli venuti d’Oltralpe e ammanniti con puntualità da compiacenti editori cattolici che hanno finito col frastornare i nostri giovani teologi, trascinandoli nel gorgo della facile novità. La ragione profonda è l’accettazione lineare e acritica del «principio di immanenza» del pensiero moderno che dà sostanza e struttura alla nuova antropologia.

La stessa presentazione di padre Marranzini, il quale qua e là si mostra però un po’ preoccupato, lungi dallo sfuggire all’equivoco ne dà anzi la formula quando dichiara che il tema proposto tende a «restituire l’immagine biblica dell’uomo» in quanto essa include il progetto di «costruire una immagine dell’uomo aderente alla nostra situazione culturale (prospettiva della linguistica del dato)».19 In parole povere: si tratta, lasciando da parte la via regale dei Padri e dei Simboli dei Concili, di immergere il messaggio biblico nel calderone della vita e della cultura moderne. L’immanenza e la storicità trascendentale dell’essere proclamato da Cartesio, Kant, Hegel… fino ad Heidegger con la mediazione di Rahner e Metz (per costui il pensiero moderno è più adatto al messaggio evangelico che non quello tradizionale patristico-scolastico!) nominati dal Marranzini, di Bultmann, Barth, Tillich, Bonhoeffer, i nuovi santi padri del protestantesimo; di Rahner, Schillebeeckx, Schoonenberg, Hulsbosch, Küng… cioè dell’avanguardia cattolica più progressista; dell’idealista Gadamer e perfino di psicanalisti e marxisti, come Marcuse, Adorno, Bloch, Gramsci… L’orientamento è dato da padre Marranzini stesso quando caratterizza con disinvoltura lo storicismo moderno «un guadagno da cui non si può prescindere».20 Davvero? Allora, se l’uomo moderno non comprende altro che i valori sociologici, e non riesce a esprimersi che con il linguaggio orizzontale, ossia antropologico, la teologia deve fare Kaputt, diventare anch’essa antropologia trascendentale degli ideali sociali, politici, economici… e risolversi a dimenticare il riferimento all’Assoluto e al peccato, seppellire per sempre il suo messaggio di salvezza dal peccato di trascendentismo. Ecco la tesi della nuova teologia, un po’ contorta ma esplicita e significativa «Se è vero, infatti, che la soggettività umana ha acquisito un impatto coestensivo all’intera gamma della problematizzazione ermeneutica, che cioè è diventata (a livello di “riflessione seconda”, s’intende) un polo imprescindibile del circolo ermeneutico, è chiaro che lo stesso metodo teologico non può più eludere il problema ermeneutico. È dunque il guadagno antropologico della nostra cultura e della teologia odierna a imporre una revisione (o almeno un “ripensamento”) del metodo della teologia».21

Vediamo un po’, ma con calma e chiarezza, perché ci muoviamo in un campo minato. E nella tesi ora citata, poco, anzi nulla, è chiaro. Infatti:

1. Che cosa significa: «Se è vero, infatti, che la soggettività umana ha acquisito un impatto coestensivo all’intera gamma della problematizzazione ermeneutica»? «Se è vero…». È questa la tesi della nuova teologia trascendentale, ossia della ripresa del tentativo di introdurre in teologia il principio moderno di immanenza, il progetto che fu nel secolo diciannovesimo degli Hermes, Günther, Frohschammer…, denunziato dal vescovi tedeschi del tempo e condannato da Gregorio XVI, da Pio IX con il Sillabo e dal Vaticano I, ripreso dal modernismo e condannato dalla Pascendi e dal decreto Lamentabili, da Pio XII con l’Humani generis… Documenti, come vedremo, che sono stati espressamente richiamati dal Vaticano II. E allora, che gioco fanno i nuovi teologi i quali affermano, come se niente fosse accaduto e stabilito, «…che la soggettività umana ha acquisito un impatto coestensivo all’intera gamma della problematizzazione ermeneutica», che tale soggettività è diventata cioè «un polo imprescindibile del circolo ermeneutico» (della teologia, suppongo). Questo, se ben intendo, significa in parole semplici che il dato rivelato va filtrato, cioè «mediato», adagiato e ridotto alle dimensioni della soggettività umana, messo in linea orizzontale, adeguato, all’orizzonte della finitezza dell’antropologia heideggeriana-rahneriana. Ciò significa dare un colpo di spugna a tutta l’opera della tradizione e del magistero.

2. Che cosa significa perciò: «…che lo stesso metodo teologico non può più eludere il problema ermeneutico»? La sana teologia infatti non ha mai eluso il problema ermeneutico: l’hanno soddisfatto i Padri contro le eresie trinitarie e cristologiche, i teologi del Tridentino contro le eresie sulla grazia di Lutero, Zuinglio e Calvino, gli ultimi Pontefici contro la negazione della trascendenza, del peccato e dell’ordine soprannaturale da parte della filosofia moderna e dei «complici» teologi. Il metodo teologico classico dà il primo luogo ai loci theologici che sono la sacra Scrittura, la tradizione della dottrina dei Padri e dei Concili e la sua presentazione da parte del magistero infallibile della Chiesa esercitata autoritativamente dal Sommo Pontefice, dai Concili ecumenici e dai vescovi uniti con lui. È questo, ci sembra, l’autentico «circolo ermeneutico» che il metodo teologico non può – anzi, non deve – eludere. Un circolo ermeneutico che deve restare «sacro»: poiché sacro è l’oggetto, sacre sono le fonti, sacro il fine. Perciò la teologia è detta sacra doctrina, anche se si è sempre svolta e si svolge nel tempo come opera umana nell’impatto della Parola di Dio – e della missione di salvezza della Chiesa – con il mondo, nell’incontro della verità immutabile con le mutevoli vicissitudini del pensiero e della vita degli uomini.

3. Infine, che cosa significa: «È dunque il guadagno antropologico della nostra cultura e della teologia odierna a imporre una revisione (o almeno un “ripensamento”) del metodo della teologia»? Osservo subito che la conclusione, rispetto alle premesse, è poco chiara, anzi piuttosto ambigua. Infatti se «la soggettività umana ha acquisito un impatto coestensivo all’intera gamma della problematizzazione ermeneutica» così da diventare «…il polo imprescindibile del circolo ermeneutico», la conclusione ovvia non è che la teologia faccia una «revisione o almeno un “ripensamento” del suo metodo», ma deve fare una rivoluzione qual è quella appunto del metodo di immanenza (theologia vitae) rispetto a quello della trascendenza (theologia auctoritatis). Ed è ciò che effettivamente hanno fatto e stanno facendo i fautori della «svolta antropologica», della secolarizzazione, dell’ecumenismo e pluralismo indifferenziati (il maestro Rahner e i discepoli Küng, Marranzini, Sartori, Molari, Ruggeri, Molinario, Bonifazi…, lo stato maggiore e minore del famigerato Convegno teologico 1971 dell’Ariccia).

La revisione e il ripensamento devono sempre essere in atto, in teologia e in ogni campo della riflessione, e questo per i nuovi apporti della scienza, per le nuove situazioni in un mondo che avanza con accelerazione progressiva nella scienza e nella tecnica ma che si involve e regredisce rispetto alla profondità del senso della vita e della moralità e soprattutto rispetto al destino soprannaturale della vita terrena che è soltanto tempo di prova e di attesa della vita eterna.

La tesi di padre Marranzini è gravida quindi e responsabile, per la sua parte, dell’equivoco fondamentale della nuova teologia. E con l’equivoco, si ha la lacuna. È una lacuna che attinge la dichiarazione di metodo alla sua radice e ne denunzia pertanto il procedere dogmatico e arbitrario. L’«operazione antropologica» in teologia – tutti lo sanno e quindi lo dovrebbero sapere per primi i suoi fautori – comporta un cambiamento radicale di rotta della riflessione teologica, un capovolgimento nel metodo teologico di 180 gradi… rispetto al metodo tradizionale, ripreso e aggiornato – come vedremo più avanti – dal Vaticano II. Il capovolgimento si rapporta soprattutto a quella che si potrebbe chiamare la «obliterazione» della distinzione metafisica, cioè assoluta e divisiva (che non è «separazione» manichea di due mondi incomunicabili o frattura kantiana tra fenomeno e noumeno) del mondo della natura da quello della grazia, della sfera della ragione da quella della fede. Ebbene, i nuovi teologi hanno scalzato il metodo tradizionale seguito da Atanasio, dai grandi Cappadoci, dal Damasceno, da san Tommaso e su su fino al Gaetano, al Bellarmino, fino al Perrone, Newman, Kleutgen… senza addurre alcuna ragione.

Essi hanno poi adottato sic et simpliciter il «metodo dell’immanenza», condannato finora dalla Chiesa fino al Vaticano II compreso, come diremo, non solo come niente fosse, come se prima non fosse accaduto nulla, ma senza mai impegnarsi a spiegare chiaramente il principio di immanenza nella sua effettiva origine speculativa (l’identità di essere e pensiero) e nella sua esplosiva struttura operativa (l’identità di pensare e volere…) culminante nella volontà di potenza dell’uomo moderno, della politica e della tecnica moderne. La «scienza moderna», come processo meramente esplorativo della realtà dei fenomeni, non cade ovviamente sotto questa riserva che attinge soltanto l’impiego, l’uso e l’abuso, delle sue scoperte, che è opera non tanto degli scienziati ma dei politici (e dei tecnici a servizio dei politici).

Potrà essere che a questo modo si riesca a costruire una «immagine dell’uomo aderente alla nostra situazione culturale», che Marranzini chiama la «linguistica del dato», ma è certo che a questo modo non si riesce affatto a «restituire l’immagine biblica dell’uomo», come afferma Marranzini. Nell’antico Testamento l’uomo e creato a immagine di Dio e deve lasciarsi guidare da Dio, osservando la sua Legge; nel nuovo Testamento l’uomo è salvato dal peccato e dalla morte dal sangue di Cristo che viene ministrato dalla Chiesa…, come insiste santa Caterina da Siena: altro che «circolo ermeneutico della soggettività» o le fumisterie della «linguistica del dato» che muta secondo le prospettive a getto continuo della logica, della fenomenologia, dei virtuosismi dell’ermenetitica storicistica, della… duttilità della morale permissiva! Questi teologi quindi nascondono ai fedeli «qualcosa» di decisivo, anzi li spingono a un’avventura, senza avvertirli con linguaggio onesto e schietto che procedono per aliam viam!

 

La «svolta antropologica» della nuova teologia.

Osserviamo a questo riguardo che – una volta posta questa base – non si tratta più di rilevare la «dimensione antropologica della teologia»,22 ciò che la teologia tradizionale ha sempre fatto, ma di capovolgere l’asse portante della teologia, di trasformare cioè la teologia in antropologia. Ciò è chiamato, con voluttuosa compiacenza, dai nuovi teologi la «reinterpretazione del cristianesimo»: ciò che, in semplici parole, significa dare un addio alla Chiesa dei martiri e dei santi per accomodarsi… a questo mondo! E questo è stato fatto con sicurezza e ostinazione sbalorditiva dalla maggioranza di coloro che sono intervenuti al Congresso. Fra queste posizioni a freddo di delirio teologico mi permetto di segnalare qualcuna fra le più risolute.

Baget-Bozzo proclama nientemeno che il ricupero positivo dell’ateismo di Feuerbach per l’allestimento di un’antropologia teologica23 che deve spazzar via la teologia tomistica fondata sulla trascendenza metafisica.24

Ruggeri, partendo dalla svolta antropologica di Rahner, vede il paradigma della nuova antropologia teologica nel plesso di teoria-prassi presentata dal marxista Gramsci25 e relega la teologia classica a «momento di un processo storico».26

Milano invita la teologia a imparare da Marcuse «…il coraggio della dialettica negativa».27

Benincasa ci invita, alla scuola dell’heideggeriano Gadamer (da lui ascoltato ad Heidelberg), a dare il primato alla domanda sulla risposta28 così che «nessuna proposizione può essere ritenuta assolutamente vera»,29 né esiste un’ermeneutica propriamente teologica.30

Pezzetta si mette al seguito di Schoonenberg per accogliere «una cristologia senza dualismo [la quale] è, in termini positivi, della piena presenza di Dio in tutto l’uomo Gesù Cristo… soprattutto in questa persona»:31 a quest’affermazione di arianesimo e monofisismo radicale il Pezzetta si limita a opporre un punto esclamativo. Noi preferiamo l’interrogativo: è d’accordo Pezzetta con questa negazione aperta del dogma dell’unione ipostatica?

Per il rahneriano Bonifazi «…i concetti più centrali della teologia, quali grazia, salvezza, peccato, redenzione, Dio, creazione, unione ipostatica, anima, corpo, immortalità, escatologia, verità, legge morale naturale, libertà, oggi sono soggetti a un processo di revisione e di ripensamento che sembra presupporre come valida la pluralità e la storicità del pensiero umano. La teologia attuale, intraprendendo questo processo di revisione e ripensamento, forse viene ad avvicinarsi molto a una tendenza fondamentale della filosofia contemporanea, che cerca di concepire l’essere come tempo e il tempo come essere».32 Addio, quindi, ai dogmi e alle formule dogmatiche!

È vero che padre Marranzini parla di «qualche contestazione» alla relazione Mancini33 e dichiara che «…il Congresso non si è proposto di approdare a delle conclusioni definitive e a risultati indiscussi».34 In realtà nel volume non figura alcun testo di siffatte discussioni e tale assenza non può che causare nell’attento lettore un vivo rammarico. L’errore a nostro avviso e nel metodo, ossia nell’assunto dello stesso segretario del Convegno, distribuito forse in anticipo ai partecipanti come orientamento generale sul tema del Convegno stesso, di cui ora si è delineato l’orientamento. E l’orientamento consiste nell’assunzione diretta anzitutto della linguistica contemporanea e indirettamente, ma esplicitamente, nell’accettazione dell’orientamento immanentistico del pensiero moderno secondo il quale la risoluzione della verità va fatta nel cogito, volo, …ossia nella soggettività umana. E nel Convegno – che è pur dedicato al metodo e alla linguistica teologica! – non solo manca una relazione sulla «Parola di Dio», una mancanza rilevata da qualcuno nel Convegno stesso,35 ma non si trova una qualsiasi giustificazione del radicale cambiamento di rotta. Il principio moderno è stato assunto sul peso e sul chiasso dei grossi nomi sopraindicati, ossia mettendosi senz’altro al seguito dei redattori dei vari Manifesti e Congressi di contestazione del magistero36

apparsi in quest’epoca di confusione teologica postconciliare. Un cambiamento di rotta, questo dei nostri giovani teologi, che mette i brividi quando si pensa che ad essi l’Autorità ha affidato la formazione dei futuri sacerdoti, ossia dei primi testimoni della fede dei martiri, dei missionari e dei santi. Ma di quale fede, viene da domandarsi, se la fede è qui ridotta alle dimensioni dell’esperienza mondana e dell’esistenza temporale? Ma di quale testimonianza, se qui la fede è declinata e invitata a declinarsi secondo le categorie feuerbachiane, marxiste, psicanaliste, esistenzialiste, strutturaliste… nell’orizzonte della scienza, della tecnica, della politica e via dicendo?

L’errore di metodo è qui radicale e patente, se confrontiamo l’orientamento di questa avanguardia teologica con il criterio della teologia classica che abbiamo esposto nel prologo: cioè, invece di connettere la teologia al lumen fidei che è virtù teologica e invece di fondare nella guida infallibile del magistero la certezza e verità della sacra doctrina che è la teologia nella scientia beatoruum, si celebra ora allegramente il baccanale dell’antropologia esistenziale (di Feuerbach, Heidegger, Gadamer…) ingolfandosi nelle categorie della temporalità.

Si potrebbe dire infatti che si accusa da più parti la nuova teologia di neo modernismo, ma il problema ha forse anche un significato più vicino e «situato». Si tratta che la «nuova teologia» è passata dal formalismo o essenzialismo (suareziano), finora dominante in molte scuole teologiche, all’esistenzialismo attualistico ispirato ad Heidegger: non a caso Heidegger è seguito e sostenuto in campo cattolico da filosofi e teologi della Compagnia di Gesù specialmente (ma non esclusivamente) tedeschi come Lotz e Rahner. È un capovolgimento operato, all’interno dello stesso oggetto e dello stesso metodo speculativo che da Suarez è passato a Wolff e mediante Hegel è giunto ad Heidegger: è la forma di pensiero che ha dominato e tuttora domina in Occidente, la quale riduce la struttura dell’ente all’essenza possibile e reale secondo la distinzione meramente modale di essentia ed existentia. Prima (nel nominalismo, Suarez) l’esistenza era l’evento meramente estrinseco, causato da Dio o da una causa seconda: ora, dopo Kant e con Heidegger, l’esistenza è l’attuarsi nel tempo della soggettività umana, come dicono ormai anche i nuovi teologi rahneriani, tillichiani, bultmanniani: Rahner e Bultmann dichiarano espressamente di partire dalla prospettiva di Heidegger.37 È il rifiuto della metafisica, esplicito in Rahner e implicito in Lotz, che ha sostituito la metaphysica cognitionis cioè la metaphysica mentis alla metaphysica entis.

Come questi teologi «neoterici» hanno prima ignorato la profondità innovatrice della distinzione tomistica di essentia ed esse e l’appartenenza intrinseca della creatura al Creatore e dello spirito finito allo spirito assoluto, così oggi (come fanno Rahner, Lotz, Metz…) essi ignorano la lezione decisiva di  Kierkegaard contro l’immanentismo38 che ha opposto ad Hegel la distinzione invalicabile di finito e infinito, di intelletto e volontà, di necessità e libertà, di libertà e storia, di storia e rivelazione divina… in cui si fonda e si attua per l’uomo la responsabilità infinita di fronte all’evento salvifico dell’Incarnazione mediante l’ascolto del messaggio di salvezza. Perciò costoro possono problematizzare tutto: dal contenuto (non dico le formule, che sono sempre perfettibili) degli stessi dogmi fondamentali del cristianesimo fino a contestare per principio il fondamento dell’autorità e la legittimità del suo esercizio dottrinale. Come fa a tutto spiano il loro ammirato e indiscusso maestro Karl Rahner. Ma su questo, e su altri aspetti della pseudomodernità della «via nova» non mancherà occasione di una disamina più diretta e più opportuna.

Il capovolgimento operato dal Convegno si esercita a un doppio livello: anzitutto, al livello della negazione (oscuramento) della trascendenza metafisica39 mediante l’assunzione esplicita o implicita del principio moderno di immanenza e l’oblio della trascendenza metafisica di Dio, come l’ipsum esse subsistens, sulla creatura (materiale e spirituale) che è l’ens per participationem; poi, e soprattutto, al livello della negazione (oscuramento) della distinzione reale fra l’ordine naturale e soprannaturale della oeconomia salutis. Di qui l’assenza pressoché totale di ogni accenno al peccato e alle sue conseguenze, alla rigenerazione della grazia con il corteo delle virtù teologali e dei doni soprannaturali… che formano il nucleo centrale della semantica teologica. Invece per sfuggire all’accerchiamento del pensiero moderno si leggono ovunque le adesioni più sviscerate alle posizioni più spinte della teologia protestante liberale, travasate allegramente in campo cattolico, quali la demitizzazione, la secolarizzazione, il «gioco linguistico» (Sprachspiel)40 di H. Albert… Questa, che è chiamata qui con ditirambi trionfalistici la nuova «piega o svolta antropologica» (è la decantata anthropologische Wendung di K. Rahner)41 deve liberare la Chiesa dal ghetto in cui era finita con l’avanzare del mondo moderno (per colpa del Sillabo, del Vaticano I, della Pascendi… e ora della Humanae vitae!) e proclamare la bengodi teologica del «cristianesimo anonimo», della teologia indipendente, della morale permissiva, del pansessualismo freudiano… Quindi, invece di tenere issata saldamente la Croce di Cristo come segno di contraddizione, si proclama la necessità di conformarsi allo «spirito di questo secolo» cioè alle sue norme di vita (critica alla Humanae vitae, al celibato ecclesiastico, alla prassi tradizionale dei punti più scottanti del Decalogo…). E questo è certamente coerente, una volta operato quel capovolgimento di princìpi, ossia quando l’oggetto diventa soggetto e l’autorità è considerata, secondo la terminologia marxistica, «sovrastruttura».42

Molte sono le formule vistose di questo cataclisma che dovrebbe portare alla «reinterpretazione della Scrittura»,43 e quindi dello stesso cristianesimo nei suoi fondamenti sulla base della negazione del significato assoluto dell’autorità, nell’accettazione della dottrina e dell’obbligazione assoluta, della legge dell’osservanza morale. Eccone alcune: «l’essere come tempo», con la conseguente e continua metamorfosi dei concetti;44 l’uomo come relazione trascendentale a Dio;45 l’uomo come «soggetto della teologia»;46 «primato della domanda sulla risposta», così che nessuna proposizione è vera assolutamente, e la «situazione» fondamentale dell’uomo è la «situazioneparola» come fatto che permette una nuova interpretazione dell’esistenza ove lo stesso Gesù di Nazareth è l’evento «linguistico» decisivo per la fede. Un evento da interpretare secondo le categorie della nuova ermeneutica tedesca, quali Sprache, Sprachlichkeit, Wortereignis, Wortgeschehen, Sprachereignis47

Il nucleo speculativo di siffatte posizioni è la suddetta «svolta antropologica», che è intesa come l’apriori teologico, ossia l’accettazione del trascendentale moderno all’interno della teologia cattolica. Essa è riferita più spesso a Rahner,48 ma appartiene all’intera costellazione dei grandi contestatori odierni della tradizione e del magistero sopraindicati. La formula rahneriana è riportata, come si è visto, da padre Marranzini: «L’antropologia [è] il luogo che include tutta la teologia»…49 che è da presentare oggi come fondamento assieme a tutte le altre verità di fede quali «divinizzazione», «figliolanza», «innbitazione divina», ecc. in «categorie antropologico-trascendentali».50 Di qui si progetta perfino il passaggio a una «precomprensione della Bibbia sulla linea dell’analitica esistenziale e fenomenologica», della linea del Dasein heideggeriano come essere-nel-mondo. La conseguenza è il «pluralismo teologico» secondo i vari strumenti, metodi e modelli linguistici propri di tante filosofie e scienze umane attuali.51 Brevemente, vale anche per la teologia e in generale per l’ermeneutica della Scrittura e della fede cristiana l’assioma del relativismo storicistico: veritas filia temporis, modificato in: veritas filia hominis in tempore, ossia quatenus viventis in tempore. E il senso della formula ormai è chiaro: l’uomo trae la significanza dei plessi rivelati dalla propria soggettività, dallo sviluppo continuo della civiltà e dai risultati della realtà culturale dell’umanità storica.52 È, questo infatti il significato del trascendentale moderno o piuttosto è la sua banalizzazione nella sfera della teologia. È quanto dire che la teologia si fonda sull’apriori religioso e non più sul depositum fidei conservato nella Chiesa e proposto dal magistero, come dichiara il Mancini in apertura della sua relazione-fiume in due momenti:

a) «La risoluzione della filosofia della religione in quella che sono solito chiamare la coscienza trascendentale o, se si vuole, critica (ma in senso forte) della teologia».

b) «Qui diventa fondamentale non più la questione della possibilità pura del kerygma ma la questione del suo positivo riconoscimento autentico come apriori divino pubblicamente dato nella storia».53

Ma una presa di coscienza coerente del principio trascendentale all’interno della rivelazione cristiana porta inevitabilmente alla negazione di ogni trascendenza e della stessa esistenza del soprannaturale: il peccato e la redenzione vi perdono ogni senso, una volta che il cristianesimo deve adeguarsi al mondo e adattarsi alle categorie della finitezza dell’essere come temporalità.

Concludiamo. In questo Convegno tutto sembra capovolto: l’oggetto, il metodo, le fonti, il criterio di verità e lo scopo della teologia. Prometeo ha vinto non solo la battaglia della ragione ma anche quella della fede. I filosofi libertini dell’Illuminismo, i deisti, gli atei materialisti del secolo diciottesimo possono ritenersi soddisfatti. La sinistra hegeliana e il positivismo del secolo diciannovesimo… lo stesso Feuerbach, che vedeva nella trascendenza della religione e soprattutto nei misteri del cristianesimo l’alienazione fondamentale dell’uomo, e presentato qui da Baget-Bozzo come il nuovo Giovanni Battista di questa teologia del tradimento. Viene allora da domandarsi: è forse questo il «fumo di Satana penetrato nel tempio di Dio», denunziato ai fedeli nella festa di san Pietro da Paolo VI?54 Ma se la stessa teologia perde così il suo pudore sacrale per sguazzare nelle vie di Babilonia, a chi potrà l’uomo chiedere il lume e il conforto della speranza? Quando allora tornerà la teologia a essere la sacra doctrina, la dottrina sacra del sacro che ci salva come luce essenziale?

A queste amare riflessioni fa riscontro la fiera protesta di san Paolo: «Non ha Iddio reso stolta la scienza di questo mondo?» (1 Cor. 1, 20). E leggo oggi55 per mio conforto il testo evangelico della domenica XIV post Pent.: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai semplici. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te» (Mt. 11, 25-27).

Perciò è chiaro che in simili prospettive non esiste più il problema dei rapporti tra fede e ragione, poiché al rapporto in questione ci pensa di volta in volta la dialettica in atto della cultura e della storia. E si arriva o si pretende perfino, nell’ingenuità di qualcuno, a voler intimidire lo stesso magistero della Chiesa soffiando che il tempo degli interventi e delle condanne è finito e che bisogna lasciare via libera al impeto dello spirito; poiché alla Chiesa giuridica e burocratica, legata alle formule dogmatiche di una cultura superata, alla Chiesa oppressiva delle coscienze e avversaria del progresso e dell’evoluzione dei dogmi, deve ora succedere la «Chiesa carismatica» che deve stare al passo con i tempi. Una Chiesa pertanto che non si propone più di trasformare il mondo e di sollevarlo verso la Croce di Cristo e la luce della grazia, ma che dovrebbe assumere il compito di calarsi nel mondo e operare per gli ideali economici e politici del mondo con le forze stesse del mondo muovendo nel suo orizzonte di laicismo esistenziale.

È questa certamente una teologia capovolta in antropologia (l’ultimo Fichte, Hegel, Feuerbach…): ma può essere detta ancora teologia? Una teologia che si vuole concretare nelle istanze temporali e che in morale sdegna in ogni modo la rinunzia e in dogmatica si allinea alla sapientia huius saeculi e fugge la trascendenza…, può essere ancora riconosciuta come sacra doctrina? Una teologia che ha volatilizzato la realtà del peccato, che arrossisce della stoltezza della Croce e tace sull’imitazione di Cristo e sulla via regia sanctae crucis, può ancora fregiarsi della qualifica di «cristiana»? Il termine stesso di «reinterpretazione» del cristianesimo, che questi teologi hanno sostituito a quello giovanneo di «aggiornamento», scopre le carte della mistificazione o almeno dell’equivoco: non è il Vangelo che va declinato secondo gli umori e gli errori dell’uomo moderno, ma è questo che deve cercare la salvezza in quello con un impeto rinnovato di speranza che non vada delusa.

La cultura moderna, anche se spesso fin dall’Umanesimo ha avversato la fede cristiana, ha chiarito e approfondito non pochi aspetti positivi della soggettività e dell’originalità dello spirito umano. Soprattutto la filosofia moderna ha scandagliato e messo in evidenza il valore primario e costitutivo della libertà nella struttura dinamica del soggetto spirituale. È questa la soggettività che va approfondita nella linea dello Pseudo Dionigi, di sant’Agostino, di san Tommaso, di Pascal, di Kierkegaard, di Newman…, per scoprire e alimentare le possibilità dell’io profondo di fronte agli interrogativi del peccato e della morte, cioè per sfuggire al risucchio dell’«essere nel mondo e nel tempo» con una speranza che non deluda. Questo deve essere il compito positivo e costruttivo dell’«aggiornamento»: ma questo avrà un senso e un esito solo se l’io si manterrà in posizione verticale di trascendenza, cioè fondato sull’Assoluto e rivolto all’eternità. Affidarsi al cogito moderno, trasferire il fondamento dalla trascendenza al trascendentale, cioè da Dio all’uomo, condizionare la sacra doctrina all’affaccendarsi nelle realtà profane delle scienze umane, tuffarsi nell’attivismo di un’antropologia tuttofare… è condannarsi, come mostra la marea crescente della disperazione dell’uomo contemporaneo, a essere trascinati nel mare in tempesta e senza sponde della cattiva infinità: è trasformare l’io in mero spettacolo e spettatore (fenomenologia), in puro luogo dell’evento, ossia è ridurre la coscienza a una scena proiettata sul finito in una infinita interrogazione del mondo.

Eppure nella sua «prolusione inaugurale» il card. Garrone aveva indicato la via giusta, quella della tradizione viva della Chiesa: che significato può avere un lavoro teologico fuori di questo riferimento? In realtà tutto lo sforzo dell’ultimo Concilio, leggiamo, è stato permeato in profondità dalla coscienza di una antropologia teologica da costruire e da perfezionare. E poco è mancato, ci informa il cardinale, toccando il momento chiave del problema, che non si sia sottoposto ai Padri un vero documento su questo preciso argomento, la cui ispirazione essenziale sarebbe stata una riflessione sulla nozione tradizionale, così ricca e complessa, dell’uomo «immagine di Dio».56 La sostanza del richiamo a questo, tema, urgente oggi più che mai, è stata comunque riversata nei primi capitoli della Gaudium et spes: il vero nucleo dell’antropologia teologica in senso autentico è indicato quindi con opportuno richiamo dal cardinale nella verità biblica che l’uomo è stato fatto «a immagine e somiglianza di Dio» (Gen. 1, 26), il tema sul quale si era venuta costruendo la grande teologia della Chiesa dai Padri alessandrini e cappadoci (spec. Gregorio di Nissa), a sant’Ilario, S. Agostino e nel Medio Evo S. Tommaso.57 In questa scia, con saggezza e prudenza – come si conviene – il cardinale ammonisce del pericolo insito nel metodo antropologico quando l’uomo prende il sopravvento su Dio: «Si continuerà a parlare di Dio, ma sottilmente si svuoterà l’espressione del suo contenuto. O, ciò che è lo stesso, si comincerà a considerare i due termini come fossero dello stesso, ordine».58 Ed è esattamente la linea di questo cosiddetto orizzontalismo che i teologi sopra ricordati hanno imboccato, senza scrupoli o pentimenti e, sembra, anche senza contestazioni: almeno per quanto si può sapere da questo volume. Il cardinale poi giustamente torna a insistere nell’affermazione della trascendenza di Dio e che per questo è necessaria una «filosofia seria» (corsivo nel testo), richiamandosi espressamente al Convegno di Firenze, di cui questo dell’Ariccia sembra esattamente l’antitesi.59 Egli lamenta infatti che il De Deo uno «…oggi rischia di aver perduto ogni aggancio con le sue basi razionali, e questo non costituisce un miglioramento. Il teologo ha bisogno di ricordare che non si può parlare di Dio e dell’uomo come di due realtà poste sullo stesso piano: se lo si dimentica, l’uno o l’altro è condannato a scomparire».60 Nessuno oggi nega, ne alcun grande teologo l’ha mai negato in passato, che l’uomo non è per la teologia un oggetto di considerazione qualsiasi, ma è ovvio che egli sta al centro della oeconomia salutis, ossia che come prima è stato l’oggetto prediletto della creazione (a «immagine di Dio»), così dopo il peccato è diventato l’oggetto di predilezione per la salvezza nella redenzione in Cristo che è il Verbo fatto carne e diventato fratello dell’uomo. È stato Dio stesso, con la misericordia del suo «piano di salvezza» (Heilsplan), a iniziare e fondare l’antropologia teologica. Ma una siffatta antropologia può avere consistenza «teologica» soltanto se è riflessa e fondata nella trascendenza di Dio, della redenzione e della grazia, che sono i termini e i temi assenti (perché «superati…») nelle relazioni indicate. «È l’uomo, a essere per Dio»: è ancora il cardinale a ricordare questa verità sostanziale, presente a ogni umile fedele e dimenticata invece propter falsas vocum novitates dai nostri teologi. Solida è perciò la lezione del cardinale e va meditata: «Questo rapporto, che è divenuto un fatto, non implica in Dio alcuna sorta di vicissitudine contraria alla sua natura. Qualunque sia l’importanza presa dall’uomo per comprendere Dio, resta che non è Dio a esistere per l’uomo. Capovolgere il rapporto significherebbe togliere a Dio e all’uomo insieme ogni significato. Dio non può assolvere il suo compito in rapporto all’uomo quando lo si subordina all’uomo: qualunque siano le affermazioni di Cristo toccanti la sua volontà di “servizio” e i gesti di umiltà da lui compiuti per la nostra salvezza, la Rivelazione è a questo riguardo di una chiarezza decisiva».61 Il cardinale conclude: «La vera vocazione dell’antropologia teologica è di scoprire o di riscoprire la grandezza che si ha nel servizio amoroso di Dio. Dio non è un semplice interlocutore dell’uomo e fatto a sua misura, e neppure un estraneo, tanto meno un suddito, ma è in definitiva un amico che ha in questa amicizia tutta l’iniziativa: “Apparuit benignitas et bumanitas Salvatoris nostri Dei” (Tit. 3, 4 ss.)».62 Al contrario, una «antropologia che mette l’uomo al servizio di Dio senza conservare la coscienza che l’uomo esiste “per opera di Dio e per Dio”, secondo la formula ripresa incessantemente da san Paolo, non merita più il suo nome»,63 cioè «teologia» per l’appunto.

Il cardinale non ha potuto, a causa dei gravi impegni del suo ufficio, seguire i lavori del Congresso, e non ci sono note le sue impressioni o reazioni al volume degli Atti. Quel che è certo ed evidente, e ogni lettore lo può constatare, è che i relatori indicati si sono mossi nella direzione diametralmente opposta a quella indicata dal cardinale in conformità della Lumen gentium, della tradizione, del magistero e della teologia classica: cioè un pasticcio di filosofia moderna troppo frettolosamente assimilata e peggio applicata. Un passo falso che è un sintomo grave dell’aberrazione in atto in non pochi professori di teologia e filosofia dei seminari italiani i quali non temono di esporre il cristianesimo come un regnum huius mundi, in competizione e più spesso in alleanza con il marxismo, l’esistenzialismo, lo strutturalismo, la psicanalisi… Non meraviglia allora che anche in Italia i seminari diocesani (e anche quelli di non pochi istituti religiosi) si vadano spopolando, che i residui allievi vivano nell’irrequietezza di esperienze sociali ed ecumeniche di dubbia consistenza prima di approfondire il tesoro inestimabile dell’ortodossia e di formarsi all’abnegazione del servizio di rinunzia più alto per il prossimo qual è il sacerdozio cattolico!

Non tocca a me dire se la situazione sia anche in Italia, come in molte nazioni, quasi ormai disperata.

Ma come semplice cristiano posso ben ricordare il grido del profeta: «Custos quid de nocte?» (Is. 21, 11). Il problema è diventato troppo complesso perché possa essere risolto in poche parole e con provvedimenti semplicistici. Non v’è dubbio tuttavia che l’animo dei fedeli resta percosso e dolorosamente impressionato nel vedere lo svuotamento di seminari e istituti di formazione ecclesiastica fino a pochi anni or sono fiorenti di gioventù serena e impegnata nella conquista della verità e della santità. E oggi?… Il vuoto, l’irrequietezza, la smania del «dialogo con il mondo» a tutti i livelli, ma soprattutto al livello delle idee del mondo! Dire allora che chi ha avuto l’ufficio e ha accettato il «servizio», di intervenire per salvare la barca, quando infuria la tempesta, deve anche intervenire, è un truismo: c’è solo da augurarsi che diventi una realtà tempestiva in un’opera di concorde e vigorosa ripresa da parte della gerarchia sine acceptione personarum, come voleva l’Apostolo.

Il problema essenziale non è il ripristino nè dell’Index librorum prohibitorum né delle carceri del S. Uffizio, ma quello dell’orientaniento sicuro della coscienza cristiana: se nella prima parte del secolo la regula fidei è stata guidata nella linea della Pascendi di san Pio X e della Humani generis di Pio XII, oggi non dev’essere permesso ai teologi di cambiarla e di farsene beffe. Se il mondo continua ad allontanarsi dalla morale di Cristo, i nuovi teologi non possono avere l’autorizzazione, né espressa né tacita, di proclamare – sotto il pretesto di battersi per la giustizia terrena – la conformità al mondo. Vorrei terminare, senz’accusare nessuno, con un testo di Kierkegaatd nell’Esercizio del cristianesimo: «Si sente abbastanza spesso e abbastanza chiaramente lo sfacciato discorso che bisogna “andare oltre”, ossia che non bisogna star fermi al cristianesimo, alla fede, alla cosa semplice, all’obbedienza, al “tu devi!”. Esso è penetrato sempre più profondamente negli strati del popolo sul quale naturalmente influisce, oserei dire, il giudizio dei circoli aristocratici; esso e penetrato in un modo fin troppo facile, poiché purtroppo ogni uomo ha una passione naturale e innata per la disobbedienza. Così si misero avanti le “ragioni” e il credere fu posto per tre ragioni, invece dell’obbedienza, perché ci si vergognava di obbedire. Così la mitezza prese il posto del rigore, poiché non si aveva il coraggio di comandare e ripugnava lasciarsi comandare: coloro che dovevano comandare diventarono vigliacchi, e quelli che dovevano obbedire insolenti. Così, con la mitezza, il cristianesimo è stato abolito nella cristianità. Senz’autorità, con panni rattoppati e quasi sbrindellati, esso circolava nascosto nella cristianità; non si sa se tocca o no levarci il cappello davanti ad esso, o se deve esso inchinarsi davanti a noi ossia se siamo noi ad aver bisogno della stia compassione o lui della nostra. Non c’è per noi che una salvezza: il cristianesimo. Anche per il cristianesimo c’è un’unica salvezza: la severità».64

Quasi cinque secoli prima, in una situazione altrettanto drammatica per la società cristiana, una debole e santissima donna come Caterina da Siena, faceva una diagnosi similare e con accenti ancor più crudi e perciò anche più vicini alla misera situazione della Chiesa di oggi. Riportiamo alcune espressioni dal Dialogo, nel trattato su Il corpo mistico della la Santa Chiesa, dove Caterina denunzia la causa del male alla radice, lamentando con accoramento materno: «Di tutti questi mali e di molti altri sono cagione i prelati, perché non ebbero l’occhio sopra il loro suddito, anco gli davano largo, ed esso medesimo el mandava e faceva vista di non vedere le miserie sue… Tutti questi mali, e molti altri dei quali io non ti voglio più dire per none appuzzare l’orecchie tue, seguitano per li difetti dei gattivi pastori, che non correggono né puniscono i difetti de’ sudditi e non si curano né sono zelanti che l’ordine sia osservato, perché essi non sono osservatori dell’ordine». Per la santa, che i discepoli chiamavano «dolcissima mamma», tutti costoro erano «membri del diavolo» che vanno incontro al giudizio del sommo Giudice: «Male e gattivamente me la possono rendere, e però ricevono da me, giustamente, quello che hanno meritato».65

Altri tempi e altre situazioni, d’accordo: ma al fondo non si tratta forse del medesimo ritmo profondo dello spirito, travolto miserabilmente dalla fascinatio nugacitatis, che affiora a tratti in tutti i tempi come le vampate di un vulcano, facendo la terra bruciata dello spirito? Che direbbe oggi l’umile e fierissima vergine senese della follia di aggiornamento mondano e della smania di secolarizzazione, della morale permissiva, della demitizzazione e contestazione a tutti i livelli che imperversa oggi nella Chiesa? E infine che direbbe l’umile popolana di Siena e Dottore della Chiesa, che con affetto filiale chiamava il Papa suo «Babbo dolce» e «dolce Cristo in terra», di questi teologi e prelati che sembrano sempre più sordi ai richiami del Vicario di Cristo?



1 È Il il titolo della q. 1 della Summa Theologiae di san Tommaso: De sacra doctrina, qualis sit, et ad quae se extendat. Esso compare in tutti i primi otto articoli (gli ultimi due trattano della sacra Scrittura) e sta evidentemente per theologia come si legge in I, 1, ob. 2 e ad 2: «Unde theologia, quae ad sacram doctrinam pertinet, differt secundum genus ab illa theologia quae pars philosophiae ponitu». Il termine «teologia» nel senso di metafisica viene, com’è noto, da Aristotele (filosofi,a Jeologikh,: Metaph. VI, 1, 1026 a 19). È usato al plurale per indicare le concezioni dei Presocratici, in Meteor. II, 1, 353 a 35. Platone ha l’espressione: o tu,poi peri, Jeologi,aj (Republ. 379 a). Si può rilevare che nel giovanile Commento alle Sentenze san Tommaso (I, Prologus) usa di preferenza il termine theologia (trovo il termine sacra doctrina solo nella divisione degli articoli della q. I; ed. Mandonnet, I, p. 6).

2 S. Th. I, 1, 1.

3 Questa sacralità è attestata fra l’altro, nel testo tomistico, dall’interscambio tra sacra doctrina e sacra Scriptura (cfr. per esempio: «Unde sacra Scriptura, cum non habeat superiorem [scientiam], disputat cum negante sua principia» (S. Th. 1, 1, 8).

4 S. Th. I, 1, 1 ad 2.

5 Ibid. I, 1, 6.

6 Ibid. 2. La subalternazione è chiarita poco dopo: «Sacra doctrina non supponit sua principia ab aliqua scientia humana, sed a scientia divina, a qua, sicut a summa sapientia, omnis nostra cognitio ordinatur» (ibid. 6 ad 1). Già nel Commento alle Sentenze: «Sic theologia articulos fidei quae [qui?] infallibiliter sunt probati in scientia Dei supponit et eis credit» (Prologus, I, 3, q.la II; Mandonnet, I, p. 13).

7 S. Th. I, 1, 7.

8 Ibid. 7 ad 2.

9 Ibid. 8 ad 2. Anche nel Commento alle Sentenze: «Ista doctrina habet pro principiis primis articulos fidei, qui per lumen fidei infusum per se noti sunt habenti fidem, sicut et principia naturaliter nobis insita per lumen intellectus agentis» (Prologus, I, 3, q. la III; Mandonnet, I, p. 14).

10 S. Th. I, 1, 8 ad 2.

11 Ibid. 8.

12 Ibid. ad 2. Si noti anzitutto che san Tommaso parla della ragione nel suo espandersi naturale, delle scienze e delle discipline filosofiche e non dell’assunzione, per via di scelta preferenziale, di una filosofia particolare sia essa aristotelica o platonica (com’era accaduto per esempio per Agostino: cfr. S. Th. I, 84, 5). Per chiarire l’originalità della speculazione di, S. Tommaso e il suo profondo distacco dalla Scolastica, si vedano le nostre ricerche sulla partecipazione tomistica (La nozione metafisica di partecipazione secondo san Tommaso, ed. 3, Torino 1963; Participation et causalité, ed. it., Torino 1961; Esegesi tomistica, Roma 1969; Tomismo e pensiero moderno, Roma 1969).

13 S. Th. I, 1, 5 ad 2.

14 Lo afferma con stile biblico e pittoresco san Tommaso stesso: «Potest dici quod quando alterum duorum transit in dominium alterius, non repulatur mixtio, sed quando utrumque a sua natura alieratur. Unde illi qui utuntur philosophicis documentis in sacra doctrina redigendo in obsequium fidei, non miscent aquam vino sed aquam convertunt in vinum». (In Boeth. De Trin. II, 3 ad 5). I teologi progressisti stanno facendo l’operazione opposta.

15 Associazione Teologica Italiana, Dimensione antropologica della teologia, Ancora, Milano 1971, 651 pagine, Il volume consta di una Introduzione di A. Marranzini, della Prolusione del card. Garrone, della chilometrica relazione (l’unica) di I. Mancini e di ventidue comunicazioni di diversa ampiezza e consistenza.

16 Quanto alla rappresentatività dei convegnisti, c’è una spiccata dominanza del Sud polarizzata attorno al rahnerismo di padre Marranzini, con scarsa presenza e larghe assenze dei seminari del Nord e del centro Italia.

17 Dimensione antropologica cit., p. 13.

18 Eppure l’A.T.I. aveva affrontato espressamente il problema nel suo II Congresso Nazionale tenuto a Firenze intorno all’Epifania del 1968 (cfr. I teologi del Dio vivo, La trattazione teologica di Dio oggi, Milano 1968) che il IV Congresso ignora totalmente. Le espressioni del Santo Padre nella lettera inviata da mons. G. Benelli a padre Marranzini: «Sua Santità ha vivamente apprezzato e gradito tale rinnovata testimonianza di devoto attaccamento alla Chiesa e di fedele adesione al suo indefettibile magistero» (p. 5), suonano come amara ironia per questo IV Convegno dominato dal Rahner il quale richiede per i teologi libertà assoluta di immergere lo «Spirito nel mondo» ed esige dal Papa di ritrattare gli atti del suo magistero (spec. la Humanae vitae!) se vuole presentarsi come credibile!

19 Dimensione antropologica… cit., pp. 9 ss.

20 Ivi, p. 10.

21 Ivi, p. 11.

22 Ivi, p. 12.

23 Ivi, p. 272.

24 Sorprende questo atteggiamento di Gianni Baget-Bozzo perché tutti ricordano la sua linea di stretto conservatorismo nella rivista genovese «Renovatio», almeno fino a pochi anni fa, quando difendeva a spada tratta (e faceva bene, anche se lo faceva a modo suo) che «…l’opera di san Tommaso rimane il fondamento per una intelligenza cristiana che sappia cogliere il frutto della sua maturità» (corsivo di B.-B.) («Renovatio», 1967, p. 283). E ancora due anni più tardi denunziava, in una recensione alla traduzione italiana del Dizionario di teologia di Rahner e Vorgrimler, l’ambiguità della concezione del «sapere atematico» del Rahner e insieme diffidava la presuntuosa affermazione ‑ contenuta nella prefazione di detto dizionario ‑ che le «concezioni dei collaboratoti sono siate chiaramente confermate dal Concilio». «Quali affermazioni?», ribatte seccato B.-B. «Queste», si domanda, «che abbiamo citato e che sono appunto le concezioni “proprie” al padre Rahner? Non ci sembra. E allora? Così si aggiunge equivoco su equivoco» (ivi, 1969, pp. 129 s.). Ancor più dura è la replica, nello stesso anno, dello stesso B.-B. alle superficiali stravaganze filomarxiste del salesiano Girardi (pp. 515-517). Bene. Ma allora sorge la curiosità di sapere come, dopo una così esplicita contestazione del principio di immanenza e dopo quel riconoscimento della validità cristiana perenne di san Tommaso, l’A. sia passato al presente ditirambo cristiano all’ateo e materialista Feuerbach.

Per questo, e per altro ancora, chi farà la storia del pensiero cristiano di questo secondo cinquantennio del secolo non avrà un compito facile.

25 Dimensione antropologica cit., pp. 283 ss.

26 Ivi, p. 292. L’Autore svolge questo suo indirizzo nel vol. Sapienza e storia. Per una «teologia politica» della comunità cristiana, Milano 1971. Esso riporta in Appendice anche la presente relazione (pp. 123 ss.).

27 Ivi, p. 317.

28 Ivi, p. 337.

29 Ivi, p. 352.

30 Ivi, p. 364.

31 Ivi, p. 464.

32 Ivi, p. 506. Eppure ricordiamo (non la ricorda invece più il Bonifazi) la tesi lateranense dell’Autore: Immutabilità e relatività del Dogma secondo la teologia contemporanea, Roma 1959, che è un’attenta messa a punto della posizione tradizionale d’accordo con P. Garrigou-Lagrange, Ch. Journet, Ch. Boyer, B. Xiberta… Vengono invece indicati fra gli Autori contro i quali era stata diretta la Humani generis specialmente i fautori della théologie nouvelle: De Lubac, Le Blond, Bouillard, Daniélou, De Solages… come sospetti di relativismo dogmatico (spec. pp, 88 ss.).

33 Dimensione antropologica… cit., p. 14.

34 Ivi, p. 15.

35 Lo afferma padre Marranzini a p. 14 dell’op. cit.

36 È strano che sia padre Marranzini sia i partecipanti oltranzisti, che hanno dominato il Convegno, ignorino questa grave spaccatura verificatasi nella teologia contemporanea: nella relazione di padre Marranzini, c’è solo un rapido e blando cenno alle critiche a Rahner, da parte di Lakebrink, Gaboriau e del sottoscritto (pp 499 s.). A questo riguardo, in riferimento soprattutto alla mistificazione (che era passata finora inosservata) dei testi e dei contesti del realismo tomistico perpetrata da Rahner Geist in Welt e Hörer des Wortes, mi permetto di rimandare al mio saggio: La svolta antropologica di Karl Rahner, ed. 1, Rusconi, Milano 1974.

37 Cfr. l’esplicita dichiarazione di Rahner in Martin Heidegger im Gespräck, a cura di R. Wisser, Friburgo-Monaco 1970, pp. 48 s.

38 Questa lezione di ricupero del realismo cristiano da parte di Kierkegaard ‑ in convergenza con l’opera di Newman e di J. A. Möhler ‑ era stata vigorosamente raccolta e proposta, nella prima metà del secolo, da insigni maestri del pensiero cattolico tedesco come E. Przywara, R. Guardini, P. Wust, Th. Haecker, E. Peterson, K. von Hildebrand… che Soprattutto il prepotente e abile nominalismo di Rahner ha spazzato via.

39 La negazione della metafisica in generale, e di quella tomistica in particolare, è implicita nell’assunzione del metodo trascendentale e si vede nella formula stessa del Congresso che padre Marranzini ha preso di peso dal Rahner: «L’antropologia [è] il “luogo” che include tutta la teologia» (p. 484); per altre negazioni, cfr. p. 280: Ruggeri; pp. 327 ss.: la riduzione della verità alla «situazione-parola» di Benincasa: pp. 423 ss.: il volontarismo puro di Bonhoeffer secondo Sorrentino; p. 464: mondanità dell’essere e negazione della preesistenza del logo di P. Schoonenberg secondo Pezzetta; pp. 483 ss.: la «svolta antropologica» come negazione della metafisica in K. Rahner, secondo Marranzini e Bonifazi, che deduce dal pluralismo e relativismo filosofico e teologico l’assioma: «Veritas, sive philosophica, sive theologica, est filia temporis» (P. 504).

40 Dimensione antropologica… cit., p. 290.

41 Ivi, p. 487. Anzi, qualcuno propone esplicitamente di andate ancora «al di là di Rahner» (così per esempio Ruggeri, pp. 277 ss.).

42 Ivi, pp. 291 ss.

43 Benincasa (ivi, p. 344).

44 Bonifazi (ivi, pp. 506 ss.).

45 Ruggeri (ivi, p. 278).

46 Martinetto (ivi, pp. 519).

47 Benincasa (ivi, spec. pp. 364 ss.).

48 Ivi, p. 278.

49 Ivi, p. 484.

50 Ivi, p. 491.

51 Bonifazi (ivi, pp. 513 ss.).

52 La degenerazione della teologia in tale direzione si legge nella comunicazione di F, Molinario, L’acculturazione come via e ragione di fondo per l’antropologizzazione della teologia (ivi, pp. 633 ss.).

53 Ivi, p. 26.

54 E il Papa precisava, non senza amarezza: «C’è il dubbio, c’è l’incertezza, c’è la problematica, c’è l’inquietudine, c’è l’insoddisfazione, c’è il confronto. Non ci si fida più della Chiesa, ci si fida di più del primo profeta profano che viene a parlarci da qualche giornale o da qualche moto sociale, per chiedere a lui se ha la formula della vera vita… e non pensiamo di esserne già noi padroni e maestri» («Oss. Rom.», 30 giugno-1 luglio 1972, pp. 1 s.).

55 9 luglio 1971.

56 Dimensione antropologica cit., p. 19.

57 Cfr. per esempio per Clemente Al.: W. Völker, Der Wahre Gnostiker nach Clemens Alexandrinus, Berlino 1952, pp. 112 ss. Quanto alla teologia di Gregorio Nisseno, la eivkw,n: «…è il punto di partenza e di arrivo (Ausgangs-und Zielpunkt) dell’intero sviluppo del cristiano» (Id., Gregor von Nyssa als Mystiker, Wiesbaden 1955, p. 66). Per san Tommaso, basti rimandare alla mirabile trattazione di S. Th. I, 93, nella quale l’Angelico si richiama ampiamente alla tradizione patristica e in particolare a sant’ Agostino (su questa questione tomistica serbo ancora un vivo ricordo del profondo commento tenuto dal card. M. Browne, all’università dell’Angelicum, negli anni di formazione).

58 Dimensione antropologica cit., p. 21.

59 Sorprende, fra l’altro, l’assenza pressoché completa. al Convegno dell’Ariccia dei relatori del Convegno di Firenze (a cui si è richiamato espressamente il cardinale Garrone).

60 Dimensione antropologica cit., p. 21.

61 Ivi, p. 22.

62 Ivi, p.23.

63 Ivi.

64 S. Kierkegaard, L’esercizio del cristianesimo, tr. it. di C. Fabro, Roma 1971, pp. 283 s.

65 Il Dialogo, c. CXXV, a cura di G. Cavallini, Roma 1968, pp. 317 ss. Il beato Raimondo, che al dire della santa sua penitente non aveva un cuor di leone, attenua un po’ nella sua pregevole versione latina la veemenza dell’originale. Per esempio, nel secondo testo, nella frase «gattivi pastori» tralascia l’aggettivo: «Haec et alia multa malasequuntur ex defectibus pastorum et eorum ignavia» (Dialogi D. Catharinae Senensis Virginis, per D. Raymundum a Vineis ex italico sermone in latinum conversi, Ingolstadii 1583, p. 187 r).

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