1. Interrogativi filosofici ai “teologi di oggi”

1. Interrogativi filosofici ai “teologi di oggi”

– La riflessione teologica e la fedeltà alla Tradizione

– Il concilio Vaticano II e la guida del magistero

– La «svolta antropologica» in teologia diffidata da Heidegger

– Conclusione: il superamento della crisi

 

Per «teologi di oggi» intendo – come ho detto nell’introduzione – i cosiddetti «teologi progressisti» sia in dogmatica sia in morale, ossia i fautori della cosiddetta «reinterpretazione del cristianesimo». Essi pensano che è necessario «portare avanti» le aperture iniziate dal Vaticano II con la dilatazione indiscriminata del pluralismo filosofico e teologico, dell’ecumenismo… sulla base della secolarizzazione radicale e più in generale con l’assunzione del principio del trascendentale moderno che ha portato alla cosiddetta «svolta antropologica» della teologia.

Ma questa teologia riesce a mantenere, cioè a garantire la propria identità di «scienza sacra» (sacra disciplina)? Si trova, ossia si mantiene effettivamente, la nuova teologia, nella linea promossa dal Vaticano II? La «svolta antropologica» della riflessione teologica che essa proclama riesce a svolgere ancora il discorso sul messaggio della salvezza?

Ciò che preoccupa soprattutto, da un punto di vista teoretico di fondo, è come sia possibile «fare ancora una teologia» senza metafisica1 una nozione assoluta di verità dell’essere, su cui soltanto può essere fondata una prova consistente che «Dio esiste» e una «distinzione assoluta» fra creatura e creatore, fra natura e grazia, fra peccato e redenzione… e perciò la consistenza reale dell’incarnazione redentrice, non ritorna in sostanza la nuova teologia alle posizioni immanentistiche di Hermes, Günther, Frohschammer…?2

Dal punto di vista ecclesiale poi i nuovi teologi, che pur professano di «portare avanti» il Vaticano II, in realtà ne contrastano apertamente sia la lettera sia lo spirito. Parimenti, mentre dichiarano di fare il dialogo con il pensiero moderno, ne capovolgono le istanze mostrando di non conoscerne il preciso orientamento immanentistico, come li ha diffidati ripetutamente ed espressamente lo stesso Martin Heidegger da essi invocato.

È la linea che seguiremo: gli inizi di resipiscenza non sortiranno alcun effetto ma aumenteranno il presente disagio, se non si va alla radice dei problemi e degli errori.

La riflessione teologica e la fedeltà alla Tradizione.

Nella fondamentale costituzione Gaudium et spes il Vaticano II si è occupato ampiamente della natura e dei compiti della teologia. Ha segnalato specialmente i nuovi problemi suscitati dagli studi biblici e patristici recenti e dalle nuove scoperte delle scienze, della storia e della filosofia, i quali comportano conseguenze anche per la vita pratica ed esigono anche dai teologi nuove indagini. Per questo il Concilio invita i teologi, nel rispetto dei metodi e delle esigenze proprie della scienza teologica, a «ricercare modi sempre più adatti di comunicare la dottrina cristiana agli uomini della loro epoca, perché altro è il deposito o le verità della fede, altro è il modo con cui vengono enunziate, pur rimanendo sempre lo stesso il significato e il senso profondo. Nella cura pastorale si conoscano sufficientemente e si faccia buon uso non soltanto dei princìpi della teologia, ma anche delle scoperte delle scienze profane, in primo luogo della psicologia e della sociologia»3.

Pertanto il Vaticano II ha stabilito che nella teologia dogmatica bisogna mantenere il deposito delle verità della fede e cercare di aggiornare il modo di esporle e presentarle. È il richiamo alla celebre regula aurea che Vincenzo di Lerines formulò, come si è accennato sopra, per salvare la fede e il retto senso delle Scritture dalle deformazioni degli eretici quando, richiamandosi al «Depositum custodi, devitans profanas vocum novitates et oppositiones falsi nominis scientiae» di san Paolo a Timoteo (1 Tim 6, 20), affermava: «Eadem tamen quae didicisti doce ut cum dicas nove, non dicas nova». Ma allora, si domanda, non ci sarà alcun progresso nella Chiesa? Ci sarà certamente, risponde, e grandissimo. Ma deve essere un progresso vero della fede, non un cambiamento: «…sed in suo dumtaxat genere, in eodem scilicet dogmate, eodem sensu, eademque sententia»4.

Nella nuova teologia ciò è stato realizzato o si sta realizzando mediante quella che, alla scuola di Karl Rahner, è stata chiamata la «svolta antropologica» (anthropologische Wende), la quale sostituisce alla «antropologia teologica» della teologia tradizionale la «teologia antropologica»: quella era fondata sulla trascendenza metafisica di Dio e sulla realtà soprannaturale della redenzione in Cristo, questa invece sul principio moderno d’immanenza. È in atto quindi nella teologia cattolica il massimo tentativo di rigetto della trascendenza e del soprannaturale: questo, secondo i nuovi teologi, sembra l’unico modo possibile per poter parlare ancora di Dio all’uomo della nostra società secolarizzata.

Qualcuno perciò parla della necessità di superare le posizioni dell’oggettivismo teologico tradizionale che non dice più nulla all’uomo moderno e scrive: «Il movimento cosiddetto della “morte di Dio” non è altro che la forma estrema della crisi della oggettività di Dio nella teologia contemporanea. Nonostante il relativo successo del neotomismo, era inevitabile che la teologia tradizionale subisse il contraccolpo della rivoluzione che si è verificata nel campo filosofico. Si può dire che dopo Kant il linguaggio religioso su Dio ha perso le sue radici ontologiche: si tende a ridurre Dio al postulato dell’azione morale. E i due teologi che hanno maggiormente influenzato la teologia moderna, Karl Barth e Bultmann, sono, ciascuno a suo modo, eredi della critica kantiana»5.

Il medesimo autore però segnala anche il pericolo della teologia esistenziale, che ha il suo corifeo più seguito (almeno in Italia) in Karl Rahner: Nell’ambito sia del cattolicesimo sia del protestantesimo si avvertono sempre più chiaramente i limiti dell’ermeneutica esistenziale che riduce Dio al verificarsi di un incontro che mi trasforma, così come si avvertono i limiti di alcune opere cattoliche di teologia trascendentale che danno troppa importanza alle condizioni di appropriazione attraverso le quali il soggetto fa propria la realtà di Dio, rischiando così di ridurre il mistero di Dio al significato che esso ha per l’uomo. Questi teologi (Rahner e discepoli) possono essere definiti teologi della mediazione, in contrapposizione a teologi come Barth e Urs von Balthasar che insistono sulla positività della Rivelazione»6. La «mediazione» di cui si parla è presentata dalla «gnosi»7 progressista in funzione del principio moderno del «trascendentale» chiamato a esprimere la «resa al mondo» e a soppiantare appunto la trascendenza di Dio e dell’ordine soprannaturale.

Ma a questo modo, domandiamo, la presentazione del mistero della salvezza non si risolve nella «auto-comprensione» da parte dell’uomo, ossia in una versione aggiornata del principio hegeliano che «la verità della coscienza è l’autocoscienza»?8.

Si ha pertanto l’impressione, tutt’altro che infondata e che trova conferma nell’opposizione fatta alla chiusura del Vaticano II, voluta nel 1965 da Paolo VI, da parte dei teologi progressisti e di alcuni prelati fiancheggiatori, che tali teologi si siano buttati a capofitto in un’attività frenetica per ricuperare l’occasione perduta di imporre la propria versione. Essa è in netta antitesi non solo con il magistero di Paolo VI (che costoro accusano di bloccare lo slancio profetico… del Vaticano II) ma con la chiara intenzione di Giovanni XXIII e con le dichiarazioni esplicite delle costituzioni e dei decreti conciliari.

Infatti il Vaticano II – di cui i progressisti dichiarano di «portare avanti» il discorso – enunzia a questo proposito la regola sintetica di mantenersi anzitutto «…innixi patrimonio philosophico perenniter valido» e insieme di «tener conto (ratione habita) delle ricerche filosofiche dell’età moderna, specialmente di quelle che esercitano maggiore influsso nella propria nazione, come pure dei progressi delle scienze moderne», così che, ben afferrata «la natura della mentalità moderna, si trovino opportunamente preparati al colloquio con gli uomini del proprio tempo»9. E affinché non sia possibile alcun equivoco sulla linea dottrinale, ossia sull’indirizzo da seguire, lo stesso Concilio nel decreto Optatam totius per la formazione sacerdotale continua precisando che il lavoro teologico va portato avanti:

a) «…in lumine fidei»,

b) «sub Ecclesiae magisterii ductu», in maniera che

c) «alumni doctrinam catholicam ex divina Revelatione accurate hauriant, profunde penetrent, propriae vitae spiritualis reddant alimentum eamque in ministerio sacerdotali annuntiare, exponere atque tueri valeant»10.

Com’è allora che i progressisti pretendono di «portare avanti» il Concilio:

a) assumendo il principio di immanenza (trascendentale)?

b) ignorando – e non di rado contestando direttamente (Rahner, Küng…) – il metodo teologico tradizionale e il magistero che lo propone?

c) difendendo il laicismo e secolarismo più spinti nella morale e nella politica?

Sarebbe questo un «portare avanti» o non piuttosto un «portare in giro» il piano di aggiornamento del Concilio?

Ma il Concilio scende a indicare il metodo proprio di studio della ricerca teologica:

a) La Sacra Scrittura: «Sacrae Scripturae studio, quae universae theologiae veluti anima esse debet, peculiari diligentia alumni instituantur; congrua introductione praemissa, in exegeseos methodum accurate initientur, maxima divinae Revelationis themata perspiciant et in Sacris Libris quotidie legendis et meditandis incitamentum et nutrimentum recipiant».

Perché invece i teologi progressisti sostituiscono programmaticamente al principio della trascendenza della Rivelazione di Dio quello del trascendentale della rivelazione storica del mondo e dell’uomo?

b) La teologia dogmatica: 1. Enuclea anzitutto i temi biblici con la guida, per ogni verità, delle indicazioni dei Padri Ecclesiae Orientis et Occidentis.

2. Poi approfondisce e spiega i mysteria salutis nel contenuto e nei nessi dottrinali S. Thoma magistro.

3. Cerca di viverli nelle azioni liturgiche, diffondendoli in tutta la vita della Chiesa, chiarendo i problemi umani alla luce della Rivelazione11.

Perché allora i progressisti procedono imperterriti per oppositam vitam, fino a confinare S. Tommaso nel secolo XIII e a mistificarne senza scrupolo i testi e i contesti, come ha fatto apertamente Karl Rahner?12.

Il concilio Vaticano II e la guida del magistero.

Ogni credente, seguendo le orme dei concili Tridentino e Vaticano I, ritiene che la fonte primaria del messaggio di salvezza è la sacra Scrittura in quanto «Parola di Dio»: è questo il prologo della mirabile costituzione De divina Revelatione «Dei Verbum». Il caposaldo è che la Scrittura è vera Parola perché è stata scritta sotto ispirazione dello Spirito Santo, preparata da Mosè e dai profeti e portata a compimento dal Verbo di Dio fatto carne13. Ora, per quanto riguarda l’interpretazione della Scrittura, il Concilio afferma che il compito degli studiosi è preparatorio e non assertorio e decisivo, inquisitivo e mai di per sé risolutivo, perché è un’indagine di per sé puramente umana e soggetta alla contingenza dell’esistenza. Invece la fede, di cui la Scrittura è lo scrigno e la fonte autentica, deve essere proposta come verità assoluta; perciò il Concilio ricorda che la Scrittura assieme alla Tradizione è per la Chiesa la «norma suprema della propria fede»14. Si afferma perciò che la presentazione autentica della fede non è compito dei teologi ma del magistero, così che Scrittura, Tradizione e magistero della Chiesa «…iuxta sapientissimum Dei consilium ita inter se connecti et consociari ut unum sine aliis non consistat, omniaque simul singula suo modo sub actione unius Spiritus Sancti, ad animarum salutem efficaciter conferant»15.

Il Vaticano II ha ripreso e confermato integralmente nella Lumen gentium la dottrina delle due costituzioni dogmatiche del Vaticano I Pastor aeternus e De Ecclesia Christi. Quella approfondisce e precisa i concetti di creazione, rivelazione divina, fede e i rapporti di distinzione e collaborazione fra fede e ragione concludendo, al di là dello staticismo razionalistico e dello storicismo romantico, per un tradizionalismo ecclesiale dinamico, citando la regula aurea sopraricordata di Vincenzo di Lerines. La costituzione Lumen gentium affida parimenti al Papa, come successore di Pietro, e ai vescovi uniti in comunione con il Papa, il magistero infallibile della fede e della morale: tutti i fedeli, anche i teologi quindi, li devono ascoltate e aderirvi con religioso ossequio16. Ma anche quando il Romano Pontefice non parla ex cathedra, cioè non impegna il suo magistero in modo infallibile, esso è sempre autentico ed esige l’ossequio dei fedeli17.

Ora non è un fatto che il capitolo del magistero è pressoché scomparso dalla nuova teologia trascendentale?18 Non è anche un fatto che i teologi progressisti si buttano avidamente sui metodi e risultati della teologia protestante e dell’ermeneutica immanentistica (Heidegger, Gadamer, Lévi-Strauss, Foucault…)?

Sembra che i nuovi teologi siano convinti che il magistero stesso abbia rinunziato di fatto alla funzione di guida e di giudizio inappellabile per i credenti, quale finora era stata esercitata e quale è stata nuovamente dichiarata e proposta dal Vaticano II. È bastato che, nella mutata condizione dei tempi, il magistero sopprimesse l’Index librorum prohibitorum e fossero tolte o mitigate alcune censure, perché i nuovi teologi si sentissero autorizzati a presentarsi come gli unici interpreti e arbitri della fede e gli ermeneuti intoccabili della Parola di Dio. Più ancora, non solo si sono comportati con gli scritti e con i fatti «come se» il magistero non esistesse, ma non hanno esitato – Rahner in testa – a contestarne apertamente gli atti formali: per esempio, il Sillabo di Pio IX, la Pascendi di Pio X, la Humani generis di Pio XII, la Humanae vitae e il Credo di Paolo VI…, esigendo da quest’ultimo la ritrattazione, se ci tiene a essere credibile…!

Il messaggio cristiano è messaggio di salvezza in quanto annunzia la conversione dell’uomo a Dio e la lotta contro il mondo. Esso distingue il mondo creato da Dio e gli uomini chiamati a salvarsi e a essere figli di Dio, dal mondo che odia Dio e dagli uomini che rifiutano la fede e si immergono nel mondo come se questo fosse l’unico orizzonte della libertà. È questo anche l’orizzonte della svolta antropologica, della teologia orizzontale?

Quello che Giovanni XXIII all’apertura del Concilio aveva chiamato il compito dell’aggiornamento della Chiesa con il mondo moderno, costituiva un compito di verifica e adattamento da parte della Chiesa della missione avuta da Cristo di predicare il Vangelo a ogni creatura e quindi dei mezzi e dell’orientamento della sua azione salvifica in un mondo ormai dominato dalla scienza e dalla tecnica che stanno minacciando di sommergere l’uomo nelle sollecitazioni di questo mondo. Ma qual è la situazione attuale del mondo? Sotto questo aspetto la Gaudium et spes, chiamata giustamente la costituzione pastorale per eccellenza, fa una precisa diagnosi della situazione esistenziale della Chiesa nel mondo contemporaneo e costituisce, in questo senso, l’asse centrale dell’intero programma del Concilio nella sua tematica fondamentale, che è l’azione pastorale.

L’afflato carismatico e profetico del Concilio qui si manifesta soprattutto in una duplice istanza: anzitutto c’è la dichiarazione della solidarietà della Chiesa con «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono»19 ovvero dell’intera famiglia umana. C’è poi la dichiarazione programmatica che riporta la Chiesa al suo spirito originario di annunciatrice del Messaggio: «La Chiesa peregrinante è per natura sua missionaria»20.

Ma, per entrare subito nel discorso, la Gaudium et spes – come le altre costituzioni e decreti del Concilio – svolge il «nuovo» discorso sull’uomo e sul cristiano in diretta continuità con la Tradizione e con il Vaticano I e con gli altri Concili e documenti del magistero ai quali di volta in volta espressamente si riferisce.

Si deve insieme riconoscere che l’antropologia della Gaudium et spes e del Concilio è di ispirazione eminentemente biblica, ancorata alla trascendenza teologica sul fondamento della situazione storico-esistenziale dell’uomo; essa fa un taglio netto con l’antropologia moderna del trascendentale fondata sul principio dell’immanenza. È antropologia teologica, cioè fondata sulla trascendenza metafisica della divina Rivelazione, non teologia antropologica fondata sulla risoluzione della Rivelazione mediante il discorso delle scienze umane. I capisaldi sono infatti quelli della teologia tradizionale vivificati dalle istanze esistenziali. Li presentiamo nell’ordine della Gaudium et spes21:

l. «L’uomo è stato creato “a immagine di Dio”, capace di conoscere e di amare il proprio Creatore, e fu costituito da lui sopra tutte le creature terrene quale signore di esse, per governarle e servirsene a gloria di Dio»22.

2. La caduta (originale) nel peccato: «Costituito da Dio in uno stato di giustizia, l’uomo però, tentato dal maligno, fin dagli inizi della storia abusò della libertà sua, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di Dio»23.

3. La storia come lotta fra il bene e il male, l’incapacità dell’uomo di salvarsi: «Ma il Signore stesso è venuto a liberare l’uomo e a dargli forza, rinnovandolo nell’intimo, e scacciando “il principe di questo mondo”»24. L’uomo è quindi, nell’orizzonte della fede, una sublime sintesi di grandezza e miseria, travolto dal peccato ma salvato in Cristo dalla divina misericordia.

4. La trascendenza sulla natura e la certezza della vita futura: «Perciò, riconoscendo di avere un’anima spirituale e immortale, non si lascia illudere da fallaci finzioni che fluiscono unicamente dalle condizioni fisiche e sociali, ma invece va a toccare in profondo la verità stessa delle cose».25

5. L’uomo deve tendere mediante la sapienza alla conoscenza di una verità più profonda di quella delle scienze umane. «Con il dono, poi, dello, Spirito Santo, l’uomo può arrivare nella fede a contemplare e a gustare il mistero del piano divino».26

6. La legge morale, posta da Dio nell’intimo della coscienza, è la voce che chiama l’uomo ad amare e fare il bene e fuggire il male: «L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro il suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria».27

7. La libertà come fondamento dell’osservanza della legge, come dono di grazia e ragione di responsabilità: «La libertà dell’uomo, che è stata ferita dal peccato, può rendere pienamente efficace questa ordinazione verso Dio solo con l’aiuto della grazia divina. Ogni singolo uomo, poi, dovrà rendere conto della propria vita davanti al tribunale di Dio, per tutto quel che avrà fatto di bene e di male».28 La sezione termina con il richiamo alla considerazione cristiana della morte, che è illuminata dalla speranza della vittoria con la promessa della vita futura e della risurrezione «…che Cristo ci ha conquistata risorgendo alla vita».29

La costituzione introduce a questo punto la considerazione del fenomeno sconvolgente e universale dell’ateismo moderno,30 al quale essa contrappone un «mistero del Verbo incarnato» in cui «…trova vera luce il mistero dell’uomo»31 e ottiene suprema consolazione il cristiano, «…reso conforme all’immagine del Figlio con la divina grazia». Così «…per Cristo e in Cristo riceve luce quell’enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo Vangelo ci opprime».32 Quindi viene prospettata un’autentica antropologia teologica che è fondata sulla trascendenza di Dio e della Rivelazione «storica» salvifica.

La «svolta antropologica» in teologia diffidata da Heidegger.

I teologi progressisti, com’è noto, appoggiano la svolta antropologica soprattutto sull’ontologia fondamentale di Martin Heidegger, ma l’operazione è stata nettamente respinta dall’autore di Sein und Zeit sul fondamento della netta distinzione e separazione fra teologia e filosofia.33 Egli ricorda ai teologi, obliosi dell’oggetto della propria disciplina, che «la teologia e una scienza positiva (ontica) e pertanto come tale assolutamente diversa dalla filosofia».34 La positività della teologia è data dal fatto che essa procede dal principio della fede (Glaube), mentre la filosofia procede dalla ragione (Vernunft). La teologia per Heidegger procede dalla fede perchè, sia per san Tommaso sia per Lutero (che Heidegger qui cita e segue),35 la teologia è radicata e deve radicarsi nella fede. Il dato fondamentale della teologia cristiana è la sua «cristeità» (Christlichkeit).

Ecco una descrizione esistenziale della fede, un po’ contorta ma incisiva e decisiva per quel che Heidegger intende per fede: «Fede è un modo di esistenza della realtà umana, il quale secondo la propria testimonianza – corrispondente essenzialmente a questo modo di esistere – non viene temporalizzato dalla realtà umana e non temporalizzato attraverso essa per liberi frammenti, ma da ciò che diventa manifesto in e con questo modo di esistere, da ciò che è creduto. Ciò che è primario per la fede e come rivelazione l’essente, che temporalizza soprattutto la fede, è per la fede cristiana Cristo, il Dio crocifisso».36 E spiega osservando, con reminiscenza paolina, che il rapporto stabilito da Cristo tra la fede e la croce è qualche cosa di cristiano. Ora, la crocifissione e tutto ciò che le appartiene è un evento storico, e questo evento si attesta come tale nella sua storicità specifica soltanto per la fede nella Scrittura. Di questo fatto non si puo «prendere coscienza» (gewusst) che nella fede. Questa è una «partecipazione» (Teil-haben, Teil-nehmen) che si compie solo nella fede, è una trasposizione dell’esistenza in e mediante la misericordia di Dio afferrata nella fede. La fede non si comprende che come credenti. In questo consiste la positività della teologia: nel suo inserirsi esistendo nella fede: «Fede è esistere di un intendere credente nella storia manifesta con il Crocifisso cioè in una storia che accade».37

Deve restare saldo quindi che la teologia è la scienza della fede. La scientificità della teologia è in funzione del suo positum, che è di essere la scienza della fede: a) di ciò che è creduto (fides quae), b) del comportamento del credente (fides qua), c) in quanto anch’essa scaturisce dalla fede, d) in quanto anche l’oggettivazione contribuisce alla credibilità (Gläubigkeit) (ma non legata a sistemi) ricevuta come un dono.

La teologia è puramente e semplicemente storica in quanto scienza – quali che siano le discipline nelle quali essa si può articolare (teologia speculativa, teologia pratica).38 Quindi la teologia più è storica e più è sistematica, non in quanto costruisce un sistema ma in quanto lo evita, cioè in quanto evita l’applicazione di qualche filosofia.39

Quanto al problema del rapporto della teologia come scienza positiva con la filosofia, Heidegger osserva giustamente che «…non è la fede stessa ma la scienza della fede in quanto scienza positiva che ha bisogno della filosofia… non in sè ma solo per quanto concerne la sua scientificità».40 In quale senso? Nel senso che «…ogni essente non si disvela che sul fondamento, di una comprensione preconcettuale precedente anche se non conscia di ciò che è questo essente in questione e come esso è. Ogni interpretazione ontica si muove su di un fondamento anzitutto e soprattutto nascosto di un’ontologia». Ma aggiunge subito che «…croce, peccato, ecc. – che appartengono senz’altro alla connessione di essere della cristeità – non possono essere compresi nella loro essenza e modo specifico altrimenti che nella fede»,41 che è la «situazione fondamentale» (Grundbefindlichkeit) del credente.

Perciò, conclude Heidegger, l’ontologia può esercitare solo una funzione correttiva del contenuto ontico (per esempio, il concetto di «peccato» non è soltanto colpa) cioè precristiano dei contenuti teologici fondamentali: però la filosofia può essere ciò che senza assolvere questa funzione di correttivo.42 Per Heidegger quindi scienza, filosofia e teologia sono tre campi e forme di conoscere diversi: oggi l’insidia alla vita dello spirito viene soprattutto dalle scienze tecnologiche. Ma per la teologia l’insidia è venuta e viene anche dalla filosofia, e Heidegger ricorda il monito di san Paolo: «Non ha Dio reso vana la sapienza di questo mondo?», quella sapienza che i Greci cercano, come aggiunge subito san Paolo (1 Cor. 1, 20, 22), e Heidegger sottolinea…: «Chissà che la teologia cristiana non si decida una buona volta a prendere sul serio la parola dell’Apostolo e a considerare in conformità la filosofia come una stoltezza?».43 Di qui è partita anche la dottrina del «paradosso» di Kierkegaard.

Concludendo, per Heidegger la filosofia non può avere alcun rapporto, né positivo né negativo, per «decidere circa il problema di Dio»;44 deve mantenere il silenzio. Da una parte quindi Heidegger riconosce l’originalità dell’oggetto della teologia come oggetto autentico, dall’altra parte egli esclude Dio dall’ambito proprio del filosofare45 e attacca il pensiero occidentale, dai Greci fino a Hegel, per aver concepito la filosofia come «onto-teo-logia».

Heidegger ha dichiarato infatti a un teologo protestante: «Fin quando il rappresentare antropologico-sociologico ed esistenziale filosofico non sarà superato e messo da parte, la teologia non arriverà mai alla libertà del dire che le è assegnato».46 Come mai allora Bultmann, Rahner… pretendono di prendere come punto di partenza per la loro teologia la «filosofia» di Heidegger, che ignora anzi esclude da sè il problema di Dio?

La teologia nuova vuole essere una teologia non metafisica. Ma per Heidegger il problema di fondo circa la possibilità di un discorso e sapere teologico è quello dell’oggettivazione. A suo avviso, «…il pensiero è oggettivante nell’ambito delle scienze naturali poichè qui l’oggetto è misurabile, spiegabile causalmente nel senso di Kant». Ma questo ovviamente non può essere il paradigma del discorso teologico, e perciò il titolo va capovolto: «Il problema di un pensare e parlare non tecnico-scientifico nella teologia odierna». Perciò «…il compito proprio della teologia è di discutere che cosa si deve pensare nel suo proprio ambito della fede cristiana. In questo senso la teologia può anche non essere una scienza»,47 nel senso moderno del termine.

Qualcuno perciò ha voluto concludere che in teologia tocca instaurare un movimento di pensiero il quale si appropria della verità rivelata a partire dal suo luogo proprio, nel senso di cercare di spiegare il mistero irriducibile di Dio al di là non solo dello schema di soggetto-oggetto ma anche di uno schema rappresentativo di un «io-tu» interpersonale fra l’uomo e Dio. Il campo proprio della teologia è la oeconomia salutis. Quindi la nuova «…teologia non metafisica, radicata nella oeconomia salutis, continuerà a pensare Dio come Essere, ma non più nell’orizzonte del pensiero classico, cioè dell’idea, della sostanza, della natura… ma lo penserà nell’orizzonte della storia e dell’escatologia. Essa cercherà allora di esprimere il primato ontologico del futuro sul presente nell’Essere divino».48 Questa sarebbe infine la «teologia teologica», mentre la teologia metafisica è specificata dalla «speranza», cioè è proiettata nel futuro dell’eschaton come il «modo proprio del Dio biblico» che è inesauribile nelle sue promesse rispetto a tutte le manifestazioni della oeconomia salutis, anche rispetto alla risurrezione di Cristo!

Conclusione: il superamento della crisi.

Analoghe, nella gravità e responsabilità, sono le riserve che un filosofo (cristiano, s’intende) deve rivolgere agli indirizzi centrifughi della teologia morale post-conciliare, che è finita nel fango legittimando l’edonismo senza freno della borghesia consumistica, e che altrove ho chiamato la pornoteologia. Anche qui vale il principio: senza metafisica non c’è morale. Rimane solo, la morale della situazione, la morale dei compromessi (psicologici, sociologici, politici…) e del proprio comodo.

Qui possiamo concludere osservando che il superamento della crisi esige un arduo lavoro non solo di superamento (e condanna) degli attuali errori, ma anche (e soprattutto) di ricostruzione delle demolizioni  e di riparazione delle lesioni, di eliminazione delle posizioni superficiali e avventate che ancora tengono saldamente il campo. Non si guarisce la «malattia mortale» dell’uomo moderno, che è il materialismo ateo, bevendo al suo, veleno e propinandogli dell’altro veleno.

Il magistero romano ha iniziato faticosamente l’opera di orientamento e di ritorno, sulle posizioni tradizionali con le dichiarazioni sui misteri della Trinità e dell’Incarnazione del 1972 e sul magistero infallibile della Chiesa (1973). Se non che – ci sia permessa l’osservazione – sappiamo veramente ancora qual è il disagio dell’uomo moderno? Senza la diagnosi e la valutazione di fondo dei capisaldi teoretici del pensiero moderno ogni cura non è che un palliativo, un’illusione.

Il problema della libertà radicale, essenziale nel pensiero moderno e neppure sfiorato da questi teologi, non può essere ulteriormente differito.



1 Nel saggio «Contraddizioni nel libro Infallibile? di H. Küng» il teologo J. Ratzinger (nel vol, Infallibile?, in collab., Ed. Paoline, Roma 1971, p. 60) dichiara tuttavia di dare «decisamente ragione… ad H. Küng quando egli fa una netta distinzione fra teologia romana (impartita nelle scuole a Roma) e la fede cattolica». E aggiunge con enfasi künghiana: «L’affrancarsi dai ceppi dell’impostazione della teologia scolare romana rappresenta un urgente dovere da cui a mio modesto parere dipende addirittura la possibilità di sopravvivenza del cattolicesimo». Esagerato! La realtà è un’altra: a) che a Roma, prima del Vaticano II, le scuole teologiche delle varie università pontificie procedevano ciascuna per la propria strada con forti accentuazioni polemiche; b) che a Roma le varie università pontificie (Gregoriana, Lateranense, Urbaniana…) sono ora coinvolte nel caos generale venuto dal Nord, di cui sono responsabili parecchi dei collaboratori del volume indicato.

2 Ha fatto l’analisi critica di questa penetrazione progressiva dell’«antropocentrismo» del pensiero moderno nella teologia cattolica, con il confronto soprattutto tra G. Hermes come rappresentante della nuova teologia dell’immanenza e M. J. Scheeben della teologia classica della tradizione, lo studio di K. Eschweiler, Die zwei Wege der neueren Theologie, Augsburg 1926.

3 Gaudium et spes, 62, in Enchiridion Vaticanum, Ed. Dehoniane, Bologna 1971, n. 1527, pp. 895s

4 Commonitorium primum, 22; PL. 50, 667s. – Con questo testo si chiude la parte espositiva della Constitutio dogmatica «Dei Filius» de fide catholica (24 aprile 1870) del Vaticano I (Denz.-Sch. 3020).

5 C. Geffrè, Un nouvel âge de la théologie, Parigi 1972, pp. 50s

6 Ivi, pp. 52s.

7 L’accusa di gnosi alla nuova teologia – che si sta ormai allineando alla teologia protestante di K. Barth, G. Ebeling, E. Fuchs, ma specialmente di R. Bultmann, D. Bonhoeffer – si trova nello studio fondamentale di K. Prümm: Gnosis an der Wurzel des Christentums, Salisburgo 1971. Come la gnosi antica pretendeva «interpretare» la verità cristiana dissolvendola nella filosofia e riducendo la morale cristiana alle pratiche teurgiche, così anche la gnosi della teologia progressista interpreta la verità cristiana nella linea di Kant e soprattutto di Hegel e Schleiermacher (pp, 29, 33).

8 «Die Wahrheit des Bewusstseins ist das Selbstbewusstsein» (Hegel, Enzyklop. d. philos. Wiss., § 424; a cura di Jo. Hoffmeister, Amburgo 1959, p. 349).

9 Optatam totius, 15; ivi, 802, p. 438.

10 Ibid. 16; ivi 805, p. 438. Su questi precisi richiami fondamentali di metodologia teologica del Concilio si fondava la nostra nota critica La svolta antropologica della teologia («Studi cattolici», 140, 1972, pp. 665ss.) che ha suscitato le violente proteste di L. Sartori e di altri membri dell’A.T.I., ma finora non c’è stata nessuna risposta alle precise contestazioni ivi esposte. E per ben due volte è caduto nel vuoto il mio invito al Sartori per un incontro diretto che permetta un confronto dei diversi punti di vista con un franco dibattito sui princìpi nella sede che egli giudicasse più opportuna. Fiducioso nella causa della verità, resto ancora in attesa.

11 Optatam totius, 16; ivi, 806-807, pp. 438s.

12 Rahner ha raccolto il nocciolo della sua ermeneutica immanentistica di S. Tommaso in un breve saggio pubblicato nel 1972 ma che risole al 1938: Die Wahrheit bei Thomas von Aquin, Theologische Schriften, Friburgo i. Br. 1972, parte X, pp. 21-40. La nota editoriale precisa che lo studio, rielaborato senza mutazioni essenziali, appartiene al periodo delle opere fondamentali: Geist in Welt (1939) e Hörer des Wortes (1941), e che viene pubblicato in questo posto per la prima volta poiché, oltre il suo significato documentario, ha un particolare valore per l’indirizzo fondamentale del pensiero dell’A. (p. 21). In realtà lo studio indicato era stato pubblicato integralmente nella «Revista Portuguesa de Filosofia» (1951, VII, 4, pp. 353-370) con il titolo: A Verdade em S. Thomás de Aquino. L’articolo, di cui ho preso conoscenza nel vol. X delle Theol. Schr., riassume la versione trascendentale del tomismo perpetrata in Geist in Welt e Hörer des Wortes. Esso è esaminato nello studio complessivo sul «trascendentale teologico» nel pensiero del gesuita tedesco: C. Fabro, La svolta antropologica di Karl Rahner, Rusconi, Milano 1974.

13 Dei Verbum, ed. cit., 874-875.

14 Ivi, 904.

15 Ivi, 888.

16 Ivi, 344.

17 Ivi.

18 Sintomatici sono i frequenti spunti critici riservati al magistero nell’enciclopedia teologica, ispirata al Rahner, che è il Bilancio della Teologia del XX secolo (trad. it. curata da A. Marranzini, S.J., Città Nuova, Roma 1972). Cfr. per esempio vol. II, pp. 72ss., ove è evidente l’intenzione equivoca di opporre il Vaticano II al Vaticano I e all’opera dei Pontefici del secolo che li separa.

19 Gaudium et spes, 1; ed. cit.

20 Ad gentes, 2.

21 Gaudium et spes, 12.

22 Ivi, ed. cit. 1357.

23 Ivi, 1360.

24 Ivi, 1361.

25 Ivi, 1364.

26 Ivi, 1368.

27 Ivi, 1369.

28 Ivi, 1370.

29 Ivi, 1372.

30 Ivi, 1373-1384.-Cfr. il nostro commento a questi paragrafi (19-21) nel volume in collaborazione La Chiesa nel mondo contemporaneo, Milano 1967, pp. 166 ss.

31 Ivi, 1385.

32 Ivi, 1390.

33 L’operazione della svolta antropologica della teologia è stata diffidata dallo stesso Heidegger specialmente nei due saggi: Theologie und Philosophie (1927) e Einige Hinweise auf Hauptgesichtspunkte für das theologische Gespräck über «Das Problem eines nichtobjektivierenden Denkens und Sprechens in der heutigen Theologie», Friburgo i. Br. 1964, pubblicati in «Archives de Philosophie», 32, 1969, rispettivamente pp. 359 ss., 397 ss. (La trad. dei testi citati è mia.) Rimandiamo i teologi, specialmente italiani, spesso ignari delle istanze filosofiche, alla diagnosi informata e pertinente dell’equivoco della teologia trascendentale fatta da G. Penzo, Pensare heideggeriano e problematica teologica, Queriniana, Brescia 1970.

34 Sein und Zeit, 1, 360.

35 Ivi, 368.

36 «Glaube ist eine Existenzweise des menschlichen Daseins, die, nach dem eigenen – dieser Existenzweise wesenhaft zugehörigen – Zeugnis, nicht aus dem Dasein und nicht durch es aus freien Stücken gezeitigt wird, sondern aus dem, was in und mit dieser Existenzweise offenbar wird, aus dem Geglaubten. Das Primär für den Glauben und als Offenbarung den Glauben allererst zeitigende Seiende, ist für den “christlichen” Glauben Christus, der gekreuztigte Gott» (Heidegger, Theologie und Philosophie cit., p. 366).

37 Sein und Zeit, I, 368.

38 Ivi, 370 ss.

39 Ivi, 376. -Anche per Kierkegaard la rovina della teologia moderna è venuta dal fatto di assumere a fondamento qualche sistema filosofico e dal lasciarsi impressionare dalle obiezioni che le scienze naturali avanzano contro la sacra Scrittura in quanto «…tutto un complesso di concetti che si trovano nella sacra Sctittura, riguardanti i fenomeni naturali, sono insostenibili» (Papirer, 1853, X5, A 73) (Sören Kierkegaards Papirer, udgivne af P.A. Heiberg og V. Kuhr, Gyldendalske Boghandel, Nordisk Forlag, Köbenhavn 1909; trad. it. ed. 2, Brescia 1962, vol. II, n. 2767, p. 372).

40 Sein und Zeit, I, 382.

41 Ivi, 384.

42 Ivi, 388.

43 M. Heidegger, Was ist Metaphysik?, Einleitung, ed. 5, Francoforte s. M. 1949, p. 18.

44 «Durch die ontologische Interpretation des Daseins als In-der-Welt-sein ist weder positiv noch negativ über ein mögliches Sein zu Gott entschieden» (Vom Wesen des Grundes, ed. 3, Francoforte s.M. 1949, p. 36, nota 56).

45 Perciò la posizione di Heidegger verso la teologia è stata qualificata come «ateismo ironico», a differenza dell’ateismo dogmatico o tetico (cfr. Heinz-Horst Schrey, Die Bedeutung der Philosophie Heideggers für die Theologie, nel vol. Martin Heideggers Einfluss auf die Wissenschaften, Berna 1949, p. 15).

46 «So lange das anthropologisch-soziologische und das existenzphilosophische Vorstellen nicht überwunden und auf die Seite gebracht sind, kommt die Theologie niemals ins Freie des ihr zugewiesenen Sagens» (H. Ott, Was ist systematische Theologie?, in Neuland in der Theologie, a cura di J.M. Robinson e J.B. Cobb, Zurigo-Stoccarda 1964, parte I, p. 132). Una critica sostanziale dell’impossibilità di una sintesi teoretica del metodo trascendentale con il realismo classico, in particolare della scuola di Marèchal-Heidegger (Rahner, Lotz, Coreth, Brugger…), si deve a uno studioso laico tedesco: W. Hoeres, Kritik der transzendentalen Erkenntnistheorie, W. Kohlhammer, Stoccarda 1969. Cf. il vigoroso riassunto di G. Perini nel saggio: Il carattere profetico del tomismo e la «filosofia secolastica trascendentale», in «Aquinas», XIII, 1970, pp. 215-261.

47 Sein und Zeit, I, 412 ss.

48 Geffrè cit., pp. 80 s.

Si encuentras un error, por favor selecciona el texto y pulsa Shift + Enter o haz click aquí para informarnos.

Deja un comentario

Tu dirección de correo electrónico no será publicada. Los campos necesarios están marcados *

Este sitio usa Akismet para reducir el spam. Aprende cómo se procesan los datos de tus comentarios.