X. Dio e il mistero del male

I. Il male e il problema di Dio

Nella cultura contemporanea la riflessione sul male è diventata, quasi come tutti i problemi dello spirito, certamente ambigua: rifiutata la prospettiva assoluta della metafisica che mette al sicuro l’Assoluto e i suoi diritti, l’uomo barcolla fra prospettive opposte di noncuranza o indifferen­za e di angoscia o disperazione. Vale a dire che o ci si adagia insensibili agli eventi, quali che siano, o si protesta contro tutto e contro tutti: la prima condotta è più frequente negli Stati a regime totalitario ove non c’è tempo per chiacchierare né possibilità di protestare, la seconda è propria degli stati a democrazia fragile cioè recente ove la chiacchiera – e si può ammettere che anch’essa appartiene ai diritti della libertà riacquistata – è dilagante a tutti i livelli sociali ma specialmente politico e religioso. Lo sviluppo enorme dei mezzi di comunicazione sociali con i grandi complessi editoriali che dominano il mercato delle idee va creando davanti alle coscien­ze come una nube di vapori accecanti e inquinanti così che la coscienza dei più è incapace di giudicare alle volte i fatti della cronaca stessa quotidiana. Lo sbocco inevitabile è lo scetticismo etico che è il predellino per il passaggio all’ateismo pratico.

In mezzo a tutti questi guai, Dio perché non interviene? D’onde vengono tutti questi mali? Si domandava Plotino597. La geremiade sulla valanga dei mali – fisici e morali, individuali e sociali… – è intermina­bile: dal pianto di Eva descritto con dolente commozione dal Masaccio nella Cappella Brancacci del Carmine a Firenze – davanti al corpo sanguinante di Abele ucciso dal fratello fino all’ultimo dramma della storia il quale, se è riservato all’Anticristo (come afferma l’Apocalisse di Gio­vanni), sarà un bilancio che assommerà tutti gli orrori e le perversioni possibili. Poi, ma soltanto dopo tale cataclisma, verrà la vittoria definitiva di Dio: così promettono i profeti, Cristo e già lo presentavano gli antichi poeti e filosofi598. Intanto continua la protesta dell’uomo per il male e per il dolore, per sé e per gli altri, per i giusti e per i delinquenti: per la frequente fortuna di questi e la sfortuna ossia i dolori e le sofferenze di quelli di cui il libro di Giobbe e l’Ecclesiaste, per dare un ricordo biblico insuperabile, hanno descritto la suprema insanabile ampiezza e amarezza. Tale è la realtà dell’esistenza che ognuno di noi ha già forse trascorsa o sta percorrendo: rispetto a quanto l’uomo si aspetta dalla vita, l’esistenza gli offre un bilancio nettamente negativo – o si soffre per i propri guai o si soffre per i guai altrui oppure si soffre perfino due volte e doppiamente, per quelli e per questi. Si tratta di mali di ogni genere e per ogni livello di esistenza: per i piccoli ed i giovani, come per gli adulti ed i vecchi; per gli intelligenti o furbi e gli ottusi od i semplici; per i santi e per i birbanti… – la valanga del male non conosce sbarramenti o distinzioni anche se ha un diverso modo di avventurarsi.

È superfluo osservare che per gli atei la realtà del male è il pezzo forte, cioè l’argomento decisivo contro l’esistenza di Dio, ma si tratta di un’illazione troppo facile e semplicistica la conseguenza: cioè di una concezione meccanicistica della realtà e perciò aprioristica. L’esistenza del male è un grosso problema, il più grave e intricato, non solo per il teismo ma anche per l’ateismo. E per cominciare dal teismo, è proprio S. Tommaso a vedere nel «male» la prima difficoltà per ammettere l’esi­stenza di Dio. «Indichiamo con “Dio”, egli osserva, un certo Bene infinito. Ma se esistesse Dio, non ci sarebbe nessun male. Ma il male purtroppo c’è nel mondo. Quindi Dio non esiste»599. Una riflessione a livello morale ed esistenziale che l’Angelico cerca di parare con una celebre risposta di S. Agostino: «Dio è talmente il Sommo Bene che non permette alcun male nelle sue opere se non fosse tanto onnipotente da ricavare il bene anche dal male». E perciò, commenta S. Tommaso, lungi dall’essere un’obiezione l’esistenza del male può contribuire ad esaltare la bontà di Dio in quanto permette il male per cavarne un bene maggiore600.

Questo potrebbe essere detto una risposta teologico-formale che fa appello alla trascendenza della divina Provvidenza che lascia però aperta una crepa nell’edificio divino della creazione che si suppone strutturata con ordine e sapienza.

Il problema è ripreso più avanti ma quasi con gli stessi termini sia nell’obiezione come nella risposta601. Ecco il nucleo dell’obiezione: «Id­dio fa sempre ciò ch’è meglio molto più di quanto non faccia la natura. Pertanto nelle cose create il male non esiste». Il corpo dell’articolo 2 riprende il principio svolto nella questione precedente (q. 47, aa. 1-2) che la perfezione dell’universo esige che gli esseri siano disuguali, alcuni perfetti, altri imperfetti, alcuni corruttibili e altri incorruttibili ed il male è il retaggio dei secondi, che perciò non deve sorprendere. Ed invece, almeno sul piano esistenziale, come subito diremo, la cosa sorprende e sorprende molto. Comunque, S. Tommaso all’obiezione sopra indicata dà ora una risposta di più largo respiro che fa ricordare l’hegeliano das Wahre ist das Ganze (il Vero – e perciò anche il Bene – è il Tutto)602: ciò che importa è il bene del Tutto al quale può essere perciò sacrificato il bene della parte (ossia del «singolo» nella società umana!) – ciò ch’è un principio aristotelico cioè di filosofia pura – ma allora come si può insieme sostenere che «persona est id quod est perfectissimum in tota natura»?603. S. Tommaso infatti risponde: «Ipsum autem totum quod est universitas creaturarum, melius et perfectius est, si in eo sint quaedam quae a bono deficere possunt, quae interdum deficiunt Deo hoc non impediente». Ora la risposta si allarga chiamando in aiuto un testo dello Ps. Dionigi (grande autorità per S. Tommaso): «Providentia non est naturam destruere, sed salvare»604, ma che S. Tommaso sembra capovol­gere osservando che «ipsa natura rerum hoc habet, ut quae deficiere possint, quandoque deficiant».

L’osservazione non è del tutto persuasiva sia perché si potrebbe chiedere: perché questa distinzione originaria? Come mai questa preferen­za di trattamento creaturale? E per tutto il mondo, ch’è per noi il più cocente, può valere siffatto taglio gordiano? S. Tommaso sembra avvertire la difficoltà e cerca di difendersi riprendendo il testo di S. Agostino che abbiamo riportato poco fa per la 1a obiezione dell’esistenza di Dio. Ma sorprende ora il suo commento: «Unde multa bona tollerentur, si Deus nullum malum permitteret».

E tranquillo continua: «Non enim generaretur ignis, nisi corrumpere­tur aër; neque conservaretur vita leonis, nisi occideretur asinus; neque etiam lauderetur iustitia vindicantis et patentia sufferentis, si non esset iniquitas persequentis»605. Una risposta che, presa in sé e fuori del contesto teologico proprio, non solo non appare soddisfacente, ma diventa perfino irritante e repellente non solo perché l’asino sarebbe tutt’altro che soddisfatto di essere destinato, per conservarlo in vita, ad essere maciulla­to tra le fauci del leone: ma anche lo stesso giusto e il sofferente immersi in un mare di guai non sarebbero soddisfatti, di fronte ai tanti mali che li angustiano ed alle troppe ingiustizie che li opprimono, di una soddisfazio­ne meramente platonica o kantiana quale qui si afferma. S. Tommaso svolge questa trattazione del male sotto la continua guida di S. Agostino e dello Ps. Dionigi che sono i sommi teorici in materia ma per ambedue l’origine del male non sembra un grosso problema: il male fa parte dell’ordine della creazione, il male proviene dal bene, cioè da un bene imperfetto. Ma che significa un bene «imperfetto»? Un bene che in parte non lo è? Un «bene imperfetto» che però diventa male, cadere nel male… è una contraddizione e per l’uomo la creazione diventa una beffa, peggio ancora: una condanna anticipata. Questo anche Agostino come Tommaso l’avevano ben capito ed allora quelle risposte formali dovevano essere reali, bibliche anzitutto e solo dopo anche razionali.

La Bibbia infatti ci ripete ad ogni tappa della creazione che la natura era «buona» in ogni sua parte: la luce, l’ordine dell’universo, la varietà del sole, della luna e delle stelle, la ricchezza e la bellezza delle forme viventi ed animali… ed ogni giorno della creazione termina con la dichia­razione stessa di Dio: «… et vidit Deus quod esset bonum»606. Quando poi si passa alla creazione dell’uomo «… a sua immagine e somiglianza» e gli affida l’uso e il governo di tutto il creato, Dio sembra davvero soddisfatto: «Viditque Deus cuncta quae fecerat et erant valde bona» (v. 31 ).

Bene, diciamo anche noi: ma perché poi di fatto la storia dell’umanità in generale e del singolo in particolare, anzi si potrebbe dire dell’intera natura fisica e animale – con le sue catastrofi, terremoti, alluvioni…, e per la storia dell’uomo con le malattie, guerre e morti – per ogni età ed ogni luogo – è diventata sempre lo «spazio» ingordo di sofferenze e dolori di ogni genere?

La Bibbia lo spiega subito nel capitolo terzo607 col racconto della caduta ossia della ribellione dell’uomo alla volontà di Dio: all’origine di tutti gli orrori della natura e di tutti i mali dell’uomo, morte compresa, sta il peccato commesso dall’uomo, dalla prima Coppia umana, per istiga­zione di Satana608.

Allora i mali della vita che l’uomo subisce dall’interno e dall’esterno, nell’anima e nel corpo, dalla nascita alla morte, dalla natura e dai suoi simili… sono la conseguenza primaria del primo peccato dei progenitori: secondo la Bibbia la ribellione della natura all’uomo e la malizia dell’uomo contro l’uomo a cominciare dal fratricidio di Abele, sono la diretta conseguenza della ribellione originaria dell’uomo a Dio. Non si comprende perciò come Agostino e Tommaso, trattando dell’origine del male, abbia­no lasciato in ombra questa considerazione; ch’è poi la considerazione, più esistenziale e convincente, almeno nella sfera dei credenti. Non v’è dubbio che questo primum negativo domini la storia sacra sia del Vecchio come del Nuovo Testamento609.

S. Tommaso, con la tradizione teistica, difende la Provvidenza, ossia la convinzione che, anche dopo il peccato originale, Dio non ha abbandonato l’uomo alla sua rovina ma è pronto a guidarlo e ad assisterlo con l’aiuto della sua Sapienza: una fonte di consolazione che sarà intravista anche dalla tarda filosofia greca, specialmente stoica e neoplatonica, ma che nella religione biblica avrà una conferma ed un sigillo e una soluzione del tutto speciali mediante il mistero dell’Incarnazione e quindi soltanto elevandosi alla vita soprannaturale della fede e della grazia divina. La filosofia pura non conosce altre soluzioni che quelle di tipo universalistico – del dualismo, panteismo, determinismo, fatalismo e simili – le quali non fanno altro che rafforzare l’ateismo e spingere alla disperazione.

Un rapido confronto fra la concezione della filosofia classica e quella biblica si trova nel Prologo al mirabile commento dell’Angelico al libro di Giobbe610: esso offre un breve panorama dell’itinerario del pensiero umano nel cammino della Verità a partire dalla filosofia greca (S. Tomma­so ha ignorato completamente il pensiero dell’Estremo Oriente). I primi filosofi greci e poi Democrito ed Empedocle, l’origine del mondo e gli eventi che in essa si compiono (come oggi p. es. J. Monod ed altri cultori della fisica contemporanea) li attribuivano al caso. Ma i seguenti filosofi – l’Angelico qui non fa nomi – cercando la verità con maggiore diligenza e perspicacia, sono arrivati al concetto di Provvidenza ossia alla convinzione che la regolarità che si osserva nei fenomeni della natura mostra ch’essi sono retti «a quodam intellectu supereminente». Però anche presso costoro restò un’ombra ossia il dubbio circa il procedere degli eventi umani: «se cioè accadessero a caso o fossero governati da qualche provvi­denza o ordinamento superiore». E questa volta S. Tommaso mette in prima linea il motivo esistenziale cioè la convinzione che nel campo morale regni il massimo disordine al punto che sembri trionfare l’ingiusti­zia e soccombere l’onestà e la virtù: «Non semper bonis bona eveniunt aut malis mala, neque rursus semper bonis mala aut malis bona, sed indifferenter bonis et malis et bona et mala». S. Tommaso si ferma qui, ma – come abbiamo accennato e come presto torneremo ad osservare – c’è di peggio e molto di peggio nella vita e nella storia umana a mettere in crisi per l’uomo la giustizia della divina Provvidenza. Comunque mi permetto di rilevare, anche qui non si accenna allo sfondo del primo peccato e si ritorna all’affermazione indispensabile della divina Provviden­za: «Haec autem opinio [del «caso» come prima origine delle cose] maxime humano generi nociva invenitur; divina enim providentia sublata nulla apud homines Dei reverentia aut timor cum veritate remanebit, ex quo quanta desidia circa virtutes, quanta pronitas ad vitia subsequatur satis quilibet perpendere potest: nihil enim est quod tantum revocet homines a malis et ad bona inducat quantum Dei timor et amor». Ed è questo cioè di riuscire a fondare questa convinzione lo scopo proprio, osserva Tommaso, del Libro di Giobbe, che è quindi il primo e più sublime saggio di una «teodicea». E lo spiega. Infatti ammettiamo pure che gli eventi naturali mostrino la presenza e l’attività regolativa (guber­nentur) della divina provvidenza. Ma la storia umana? È questo il punto cruciale e lo scoglio principale contro la divina provvidenza ed in partico­lare ciò che dà scandalo e forza alla negazione della provvidenza: «… est afflictio iustorum».

E spiega: «Nam quod malis interdum bona eveniant, etsi irrationabi­le primo aspectu videatur et providentiae contrarium, tamen utcumque habere potest excusationem ex miseratione divina; sed quod iusti sine causa affligantur totaliter videtur subruere providentiae fundamentum». Ma, ci permettiamo di osservare extra textum, che in senso rigoroso nessun uomo secondo la Bibbia può dirsi veramente giusto, cioè del tutto senza peccato all’infuori di Cristo e della Vergine sua Madre: perciò il problema resta.

Ed è S. Tommaso a risolverlo più avanti nel commento al c. 19, 25: «Scio quod Redemptor meus vivit et in novissimo die de terra surrectu­rus sum». Qui il commento è esplicito: «Ubi considerandum est quod homo qui immortalis fuerat constitutus a Deo mortem per peccatum incurrit (Rm 5,12)… a quo quidem peccato per Christum redimendum erat genus humanum, quod Job per spiritum fidei praevidebat redemit enim nos Christus de peccato per mortem pro nobis moriendo; non autem sic mortuus est quod eum mors absorberet, quia etsi mortuus sit secundum humanitatem mori tamen non potuit secundum divinita­tem»611. L’esposizione classica, che S. Tommaso darà a questa sua teologia dell’Incarnazione, riparatrice del peccato dei progenitori e di quelli di tutti gli uomini, si trova nei primi tre articoli della q. 1 della Pars III della Summa Theologiae di cui è sufficiente indicare la robusta struttura.

«Se è stato conveniente che Dio si incarnasse»612.

La risposta è di natura trascendentale ed è presa dai due massimi Padri platonizzanti, Dionigi e Agostino. Del primo è ricordato il principio: «Bonum est diffusivum sui; unde ad rationem summi boni pertinet quod summo modo se creaturae communicet». Agostino invece dà la spiegazio­ne antropologica: «naturam creatam sic sibi coniungit ut una persona fiat ex tribus, Verbo, anima et carne». Ma nell’ad 3um spunta il problema del male come risposta all’idea manichea che il corpo rappresenti nell’uo­mo il male e perciò disdicevole all’assunzione da parte del Verbo. S. Tommaso, com’è noto, distingue anche qui il malum culpae dal malum poenae: quello disdice a Dio, non questo ch’è stato introdotto dalla sapienza e giustizia di Dio propter gloriam Dei613. Certo, per S. Tomma­so, il motivo principale dell’Incarnazione è stato la «soddisfazione ade­guata» e più conveniente614 del peccato dell’uomo, come spiega, seguen­do S. Agostino, nell’articolo seguente: «Se è stato necessario per la salvezza del genere umano l’Incarnazione del Verbo». La prima parte dell’articolo espone i vantaggi «positivi» dell’Incarnazione per spingere l’uomo all’esercizio delle tre virtù teologali, all’esempio di Cristo ed alla piena partecipazione della divinità. Solo nella seconda parte si parla della «remotio mali»: a) di fuggire il diavolo «qui est auctor peccati», b) di non macchiare l’anima, c) di fuggire la presunzione, d) assieme alla superbia, e) per ottenere la vera libertà. Motivi nobilissimi, senza dubbio, e vantaggi notevoli: soprattutto quello di operare la riconciliazione del­l’uomo con Dio615. Ma fin qui il problema del dolore sembra essere lasciato nell’ombra.

Ed anche nella sua mirabile Vita Christi, trattando della Passione e Morte di Cristo con l’ampiezza e la profondità ch’egli, da principe della teologia, poteva dare, ha di mira lo scopo dell’Incarnazione ch’era di meritarci la remissione dei peccati e la salvezza eterna ed insieme di descrivere i dolori della sua Passione e Morte soprattutto «i più gravi di tutti gli altri dolori», sia nel corpo come nell’anima (soprattutto la tristezza) avendo sofferto per tutti i peccati di tutti gli uomini (ibid. q. 46, spec. a. 6)616.

Se è vero, com’è vero ed ha sempre commosso le anime pie ed in particolare i mistici che hanno partecipato più direttamente nell’anima e nel corpo ai dolori della Passione di Cristo, che i dolori sofferti dal Figlio di Dio superano ogni capacità umana di comprensione, resta sempre anche aperto il problema della prima origine del primo peccato dal quale sono derivati in radice tutti questi guai non solo per noi peccatori ma anche – e di più assai – per Cristo che ha voluto salvarci mediante le sue strazianti sofferenze narrate succintamente, anzi queste appena accennate nei Vangeli617.

Ora S. Tommaso, trattando dell’origine del peccato in generale, mette certamente in primo piano la libertà dell’uomo, ma riconosce insieme realisticamente anche la mancanza dell’aiuto divino e quindi l’inevitabilità della caduta senza che Dio possa essere chiamato in causa né direttamente né indirettamente: «Contingit enim quod Deus aliquibus non praebet auxilium ad evitandum peccata, quod si praeberet, non peccarent. Sed hoc totum facit secundum ordinem suae sapientiae et iustitiae, cum ipse sit sapientia et iustitia»618. E S. Tommaso arriva ad ammettere, sempre in questa sfera trascendentale, che Dio (come spesso afferma la Bibbia) può negare la sua grazia a quanti pongono ostacolo ma anche ad altri: «Unde causa subtractionis gratiae est non solum ille qui ponit obstaculum gratiae, sed etiam Deus qui suo iudicio gratiam non apponit». Ma cos’è, quale fondamento può aver allora questo giudizio divino di rifiuto della grazia a cui seguirà il peccato e poi la pena eterna?619. Questo rigore logico di una teologia metafisica può mai colmare l’angoscia esistenziale? Nell’ad 1um ritorna il motivo della dannazione, già incontrato per la predestinazione: «… sicut culpa tyrannorum ordinat in bonum martyrum et poenam dam­natorum ad gloriam iustitiae suae».

È vero che S. Tommaso si tiene lontano sia dal naturalismo pelagiano che attribuisce alla sola libertà umana la scelta del bene e del male, come anche dal rigido predestinazionismo manicheo ad accentua, assieme all’in­flusso delle passioni disordinate, anche l’opera malefica del diavolo: ma perché quest’azione malefica da alcuni sarà respinta e diventerà occasione di maggior progresso nella virtù e da altri sarà accolta e li porterà a perdizione? L’Angelico risponde, e con coerenza, che ciò accade a colui «… qui ei [diabolo] voluntarie se subiicit»620.

D’accordo: ma il vero problema, come si è visto, sta all’inizio. Si naviga quindi sempre nel mistero che rimane a sua volta nascosto nel mistero fondamentale del peccato originale e della sua trasmissione a tutti i figli di Adamo621: rimesso il peccato originale col battesimo, come insegna la fede cattolica, restano tuttavia le conseguenze sia morali (l’in­clinazione al male di tutti i vizi capitali…), sia fisiche (debolezze, malformazioni congenite, malattie, povertà, calamità naturali ed ora anche quelle derivanti dalla tecnica… ed infine la morte). Oggi, per le coscienze del mondo contemporaneo, occorre una fede di una forza speciale cioè una grazia singolare per accettare come «permessa» da un Dio buono (che la poteva impedire…) una simile situazione così carica in crescendo di orrori ed errori. Questa situazione può porre in crisi anche anime credenti e benintenzionate e portarle all’orlo della disperazione e fino al suicidio: situazioni estreme che non sono consentite ad un vero credente quando si mette a considerare quanto Dio ha fatto per l’uomo prima creandolo libero e poi, specialmente, con l’Incarnazione, facendo cambiare la direzio­ne della storia e piegando risolutamente la bilancia dalla parte del bene.

Ma, nonostante tutto questo, noi dobbiamo constatare che anche post Christum natum, il male, sia fisico che morale, continua nel mondo ed anzi, specialmente in certe epoche – vissute anche di recente ed in parte le viviamo tuttora – che il male prevale sul bene, la perfidia sulla bontà, il torto sul diritto, la violenza sulla giustizia… Lo spettacolo del male fisico e morale, le forze che con il progresso stesso aumentano rischiano di causare nuovi mali e nuovi dolori possono sconvolgere anche le coscienze più oneste e forti – e forse soprattutto queste! – Al problema del male, sul piano esistenziale, nessuna filosofia è stata in grado di rispondere – come si è accennato all’inizio – ma la stessa teologia, se non vuole accontentarsi di sotterfugi dialettici, che forse possono irritare ancora più la suscettibilità dell’uomo d’oggi, deve fare appello ad una fede robusta e ad un dono di particolare grazia che nella teologia mistica si chiama «l’abbandono in Dio» nella piena conformità alla sua volontà. L’abban­dono in Dio è allora lo stato esistenziale che più si addice ai «figli di Dio» quali devono essere soprattutto i cristiani.

Tale abbandono è la forma più alta della fede dell’uomo nel suo rapporto a Dio: lo riconosceva anche Kierkegaard, d’accordo col Nuovo Testamento e con i mistici cristiani. Il pagano, come oggi l’ateo e il miscredente, pensa che l’uomo non possa avere nessun rapporto a Dio come di persona a persona. Nel Cristianesimo invece l’uomo si rapporta a Dio come il bambino ai suoi genitori che vigilano in tutto su di lui e Dio dà all’uomo l’aiuto della grazia con la quale egli lo può amare e servire sulla terra: è questo uno dei motivi dominanti degli Scritti edificanti e del Diario622. Infatti come Dio dà tutto gratis all’uomo, l’anima e il corpo con tutte le loro facoltà, così l’uomo deve darsi a Dio senza condizioni: l’abbandono in Dio diventa così la «seconda nascita», è come il «torna­re bambini» (X1 A 59 e 679, nri. 2092, 2516). È la vera vita dello spirito in cui «ritorna tutto lo spirito dell’infanzia, ma alla seconda potenza» cioè con l’assoluta fiducia della fede (nri. 2581, 2615). L’esistenza dello spirito di abbandono è di ritenersi «… meno che niente davanti a Dio» e di credere insieme «ch’Egli si occupa delle minime piccolezze», come del passero del cielo e del giglio dei campi623. La vita dello spirito procede in senso inverso a quella naturale: in essa si cresce «diventando sempre più bambini» (nr. 2722). L’abbandono in Dio è la prova suprema del nostro amore per lui ed il sigillo della fede: esso dà la forza per sopportare tutte le prove e avversità della vita come un «segno» dell’amore che Dio ha per noi: così ci insegnano i Modelli (i Santi) ossia che «l’essere amati da Dio e amare Dio è soffrire» (nr. 3631). Così e pertanto il cristiano che vuole appartenere a Cristo, deve abbandonarsi totalmente a Lui, perché le due cose – amare e abbandonarsi – si equivalgono: occorre «uscire al largo» dove l’acqua misura la profondità di 70.000 piedi (nr. 3513). Ed è perciò l’abbandonarsi a Dio ciò che ci fa vincere l’angoscia e la disperazio­ne. In conclusione si tratta – e questa è un’osservazione di metafisica esistenziale per Kierkegaard – che, nel rapportarsi dell’uomo a Dio, il modo («come») esprime l’essenza stessa del rapporto e questo modo è «l’abbandono fino a dire che…» Dio stesso, che è l’Assoluto, è per noi proprio questo «come noi ci mettiamo in rapporto con Lui».

E spiega: «Nell’ambito delle realtà sensibili ed esteriori l’oggetto è qualcos’altro dal modo: ci sono parecchi modi… ed un uomo riesce forse a trovare un modo più indovinato. In rapporto a Dio il “come” è il “che cosa”»624. E conclude da pari suo: «Colui che non si mette in rapporto con Dio nel modo dell’abbandono assoluto, non si mette in rapporto con Dio. Rispetto a Dio non ci si può mettere in rapporto “fino ad un certo punto”, poiché Dio è proprio la negazione di tutto ciò che è “fino ad un certo punto”» (nr. 2936). Gli esempi insigni di siffatto abbando­no sono, per Kierkegaard, nella Bibbia specialmente Abramo e Giobbe625.

Ma l’esempio più luminoso di siffatto abbandono dell’anima in Dio è stato per Kierkegaard, come per la pietà cattolica, la «Benedetta fra le donne, la Madre di Dio, la Vergine Maria», come egli la chiama in Timore e Tremore. Il dramma e l’esempio di abbandono in Dio della Vergine è illustrato come segue:

«Certamente Maria mise al mondo il Bambino in modo miracoloso; ma la cosa tuttavia avvenne in lei al modo delle altre donne, e quello fu un tempo di angoscia, di sofferenza, di paradosso. L’Angelo certamente era uno spirito servizievole, ma non fu affatto uno spirito servile, che siasi portato dalle altre donzelle d’Israele per dir loro: “Non disprezzate Maria, quel che in lei si compie è la cosa straordinaria”.

«Invece l’angelo se ne venne solo a Maria, e nessuno lo potrebbe comprendere. Quale donna più offesa di Maria: e non è vero qui che colui che Dio benedice, col medesimo respiro Egli anche lo maledice? Questa è la interpretazione spirituale della situazione di Maria. Ella non è affatto – mi ripugna a dirlo, ma ancor più il pensare alla storditezza e alla civetteria di quanti l’hanno interpretata – una gran dama che si mette in mostra per trastullarsi con un Dio Bambino. Non pertanto quando Maria dice: “Ecco, io sono l’ancella del Signore” (Lc 1,38), ella è grande, e non dovrebbe essere difficile spiegare come sia divenuta Madre di Dio. Maria non abbisogna dell’ammirazione del mondo, così come Abramo non ha bisogno di lagrime: perché ella non era un’eroina, né egli un eroe ma ambedue divennero più grandi degli eroi non col fuggire la sofferenza, le pene, il paradosso, bensì per via di essi»626.

Mediante la fede quindi il credente fa completo affidamento in Dio sia in vita come in morte.

II. Problema del male e lesistenza di Dio

La liturgia romana celebra fra i suoi martiri quei bambini uccisi da Erode, deluso dai Magi dopo la loro visita al Bambino Gesù ch’egli avrebbe voluto sopprimere per il timore di avere in lui un rivale nel potere. Il racconto dell’evangelista Matteo (2,13ss.) è perentorio e agghiacciante così come le rappresentazioni dell’arte cristiana627. L’episo­dio è certamente drammatico, non solo per la efferata crudeltà del tiranno, ma anche per il nostro problema: l’ateo può scorgervi la prova perentoria che di un Dio siffatto il quale, mentre da una parte si cura di salvare miracolosamente il Figlio e naturalmente può prevedere le reazioni del sanguinario tiranno, permette invece l’innocente carneficina e sembra in­sensibile al pianto disperato delle madri. Si conosce la tesi di A. Camus che basta il fatto della morte di un innocente per togliere ogni consistenza alle prove dell’esistenza di Dio.

Non c’è dubbio che l’episodio evangelico, a causa del protagoni­sta che la Chiesa ha accolto e adora come Figlio di Dio e Salvatore degli uomini, è il più impressionante e può mettere in crisi la coscienza umana – come di fatto l’ha messa sia nell’antichità cristiana come nei tempi moderni628 – sulla fede in un Dio sommamente buono, giusto e onnipo­tente e fornire un grave pretesto – se non un argomento perentorio, come cercheremo di mostrare – contro l’esistenza di Dio. Soprattutto l’aspetto esistenziale di tanta efferata crudeltà è particolarmente impressio­nante e gli atei non hanno lasciato passare l’occasione per attaccare a fondo la verità del Cristianesimo. Riportiamo l’obiezione dalla penna di un autore, cultore di problemi scientifici, ma che si è interessato con passione (anche troppa!) ai problemi teologici più ardui.

In un libro recente, anche se non recentissimo, dal titolo bizzarro: «Teologia ultima»629, Valerio Tonini ha esposto questa tesi senza peli sulla lingua e soprattutto senza alcun scrupolo o senso teologico. La tesi è messa subito in apertura del libro: «All’inizio di ogni storia di religione c’è un crimine. Questo crimine viene commesso nel nome stesso di Dio. Anche la storia evangelica comincia con un ineffabile crimine. Vangelo secondo Matteo 2,16: «Allora Erode sadirò e mandò ad uccidere tutti i fanciulli che erano in Betlemme e in tutti i suoi confini, dalletà di due anni in giù». Nella morte dei fanciulli innocenti, dell’età di meno di due anni, morti sgozzati, per sua cagione, immolati alla nascita di Cristo, Egli visse. Dio è dunque colpevole non solo delle nostre nascite, in Adamo, ma con la stessa sua nascita in terra commette un crimine di una malvagità inaudita. Questo Dio, che sgozza innocenti per regalarci un suo figlio! L’angelo del Signore si è preoccupato di avvertire Giuseppe, il padre del bambino Gesù: “fuggi in Egitto imperocché Erode cercherà del bambino per farlo morire”. Infatti, con la fuga, Giuseppe salva il Figlio di Dio e dell’Uomo; ma Erode uccise tutti gli altri bambini in tutti i suoi confini.

Basterà allora la morte in croce di questo preteso Salvatore a riscattare il delitto commesso dal Padre con la sua strage degli Innocenti?

Maria, donna e madre, incolpevole, ha pianto dirottamente il figlio suo crocifisso. Molte altri madri avevano pianto, quand’Egli era nato, per la sua cagione. Ma Dio, padre, non ha pianto. Nessuno lo ha mai visto piangere, lui, il sommo bene, la somma bontà, la somma sapienza. Perché ha inventato anche questo delitto sugli innocenti, allo scopo di far nascere il figlio suo? Quando spera di riscattarlo?» (p. 11).

L’Autore prende lo spunto dall’episodio per dare una sua personale interpretazione della natura e storia del Cristianesimo ch’egli si sforza di spiegare all’interno dei cicli similari della storia comparata delle religioni, con sfumature gnostiche e pseudomistiche: «La crudelissima narrazione del sangue delle vittime innocenti che Dio immola a se stesso, “rappre­senta” una storia incisa profondamente e da sempre nella memoria umana. Il tema della estrema efferatezza domina le espressioni più archai­che della religiosità» (p. 19).

Questa tesi ed il suo sviluppo diventano dispersivi per una riflessione critica nell’ambito strettamente teologico al quale intendiamo limitarci e ci permettiamo subito di osservare ed ammettere che si tratta di un argo­mento particolarmente arduo per la sensibilità dell’uomo moderno. Non è la crudeltà come tale che qui ci mette in crisi poiché la crudeltà ha bagnato di sangue spesso innocente tutte le vie della storia sia prima, sia anche dopo Cristo: ma sono le circostanze davvero strane dell’evento: cioè che mentre Cristo per un divino e speciale intervento viene posto in salvo, gli altri suoi coetanei sono abbandonati indifesi alla ferocia del tiranno che, per sgozzarli in braccio alle madri, li attira nello stadio perfino con l’inganno. Il fatto certamente sussiste ma non sembra che l’antichità cristiana ne sia rimasta particolarmente impressionata, tutta ammirata invece per l’intervento singolare di Dio per salvare la vita dell’Infante divino. Il problema invece è affrontato direttamente da Gio­vanni Crisostomo630: nel c. II della Homilia IX egli pone il problema con tutta chiarezza e credo opportuno seguire punto per punto la sua analisi.

Il Bambino ha fatto ritorno dall’Egitto e il Crisostomo tesse lodi dei meriti della storia religiosa di quel popolo, specialmente nei primi secoli del Cristianesimo con lo sviluppo del monachesimo, quando i monaci erano tutti dediti di giorno al lavoro e di notte alla preghiera fra i quali emerge il beato e grande Antonio come risulta dalla Vita scritta di lui631 di cui il Crisostomo tesse l’elogio soprattutto per aver predetto l’eresia ariana ed aver preparato la battaglia per vincerla: «Nam illa, quae arianico morbo spectabant, necnon detrimentum inde emersurum praenun­tiavit (Antonius), Deo utique revelante, et omnia, quae futura erant, prae oculis ipsi ponente» (p. 330). E primo l’elogio dell’uomo: «Id quod cum aliis etiam adjunctis maximus est veritatis argumentum, quod videlicet nulla haeresis talem habeat virum». Poi i meriti del libro: «Sed ne ultra haec e nobis audire pergetis, si librum in quo haec scripta sunt legetis, accurate omnia ediscere poteritis, et multam inde haurire philoso­phiam. Hoc autem rogo non ut librum adeamus tantum, sed et ea, quae ibi scripta sunt, imitemur» (p. 330s.)632.

L’ospitalità che l’Egitto offrì a Cristo fu ripagata dal primo posto nell’attuazione del Vangelo nel Cristianesimo precostantiniano. Ed ora veniamo al nocciolo della strage degli Innocenti. Il Santo rileva subito il comportamento stolto di Erode quando, accortosi che i Magi se n’erano tornati senza ripassare da lui, invece di riflettere monta su tutte le furie pensando che l’avessero voluto canzonare: perciò ordina l’inutile e crudele strage dei piccoli innocenti quasi preso da un raptus di furia e gelosia insieme: «Nam quasi a quodam irae invidiaeque daemone percitus, nulla ratione frenatur sed contra ipsam furit naturam, iramque, quam contra Magos sibi illudentes conceperat, contra insontes pueros exonerat, simile facinus in Palestina aggressus, ei quod olim in Aegypto perpetratum fuerat» (p. 332). E qui avverte acutamente il problema sul quale il Criso­stomo attira espressamente l’attenzione: si tratta di un problema già molto discusso perché aveva sollevato seri dubbi, più o meno accesi, sulla giustizia di Dio633.

Come si poteva salvare una siffatta giustizia quando, mentre Dio fa porre in salvo Cristo, lascia i teneri bambini in balia della crudeltà di Erode? Il problema c’è anche per il Crisostomo che è convinto di dover dare una risposta sia pure sommaria (breviter disputantes). La prima risposta è dialettica e potrebbe essere detta a simili: cioè come per la liberazione miracolosa di Pietro dalla prigione, l’Erode di allora (il primo era già morto) mise a morte i soldati innocenti di quella fuga, così anche il primo e più crudele Erode mise a morte i bimbi innocenti per essergli sfuggito Gesù di mano. Ma questa, il Crisostomo stesso si fa l’obbiezione, non è una spiegazione o giustificazione ma un aggravare la situazione ossia il problema in questione. Ed anch’egli risponde dall’interno della fede. Non si chiede, come forse facciamo oggi noi, perché avendo salvato Gesù Bambino, Dio ha abbandonato gli altri innocenti alla crudeltà del pri­mo Erode, ed avendo liberato dal carcere Pietro ha abbandonato i poveri soldati alla crudele rappresaglia del secondo Erode. Cosa risponde il Crisostomo? Egli chiama modestamente la sua una soluzione «probabile» ed essa consiste nel riversare la responsabilità dei due crimini – com’era del resto ovvio – nella crudeltà dei due re: essi infatti avevano tutta l’opportunità e la possibilità di considerare ed apprezzare le cause straor­dinarie dei due eventi. Non lo fecero perché accecati dalla passione del potere, soprattutto l’Erode che uccise gli inermi innocenti per abietta crudeltà. Voglio essere schietto, avverte il Crisostomo: «Et quid hoc? inquis; haec non est solutio, sed additamentum ad quaestionem. Hoc bene novi ego: ideo haec omnia in medium profero, ut omnibus unam addam solutionem. Quaenam igitur est illa solutio? et quam probabilem solutio­nem afferre possumus? Christum scilicet non fuisse ipsis necis causam, sed regis crudelitatem: quemadmodum neque illis Petrum, sed Herodis amen­tiam» (p. 333). Nel caso dell’Apostolo, liberato dall’Angelo, non c’era motivo alcuno di infierire sulla guardia e di accusarla di negligenza poiché tutto stava a posto ed Erode poteva rendersi conto da sé del miracolo634. Tutto infatti era accaduto in modo da non compromettere le guardie e per mettere in evidenza l’intervento speciale di Dio e per spingere al buon senno anche il re.

Altrettanto, e più ancora, si deve dire per il primo Erode che aveva avuto tutte le garanzie, per la nascita di Cristo, di un evento del tutto straordinario e di non essere stato affatto ingannato dai Magi se, dopo aver prestato l’adorazione al Bambino, non hanno fatto ritorno a lui che già aveva il suo piano per sopprimerlo: «Cur, o Herodes, a Magis illusus iratus es? Non noveras divinum esse partum? Annon tu principes sacerdo­tum advocaveras? Annon vocati illi Prophetam, qui haec olim praenuntia­verat, ad tribunal tuum adduxerunt? Annon vidisti vetera novis consona­re? Annon audisti stellam his ministravisse? Annon reveritus es barbaro­rum diligentiam? Annon miratus es eorum fiduciam ac loquendi liberta­tem? Annon horruisti ad veram Prophetae vocem? Annon ex prioribus postrema sequi cogitasti? Cur non ex omnibus tecum reputasti, non ex Magorum fraude haec evenisse, sed divina virtute omnia ut par erat, providente? Etiamsi vero illusus fuisti a Magis, quid illud ad pueros qui nihil te laeserant?» (p. 333s.)635.

Bene, incalza il supposto obiettore: hai mostrato che il primo Erode è stato sanguinario in modo che nessuno lo può scagionare dalle sue efferate crudeltà ed in particolare verso i pargoli innocenti. Allora: perché mai Iddio ha permesso una siffatta crudele ingiustizia?

A questo punto il Crisostomo enunzia una legge storica generale e cioè che quando una disgrazia colpisce insieme molti, non c’è motivo che qualcuno si lamenti in particolare: «Qui laedant multos, qui laedatur nullum esse» (ibid.). E spiega, per togliere ogni turbamento, che ciò è permesso dalla Provvidenza o per la remissione dei nostri peccati o per darci un premio («aut in peccatorum remissionem, aut in mercedis retributionem»). Questo va bene per i peccatori che hanno da espiare colpe passate, ma quelli innocenti bambini… che avevano potuto fare? Ebbero però – ed è la soluzione ultima del Crisostomo – un grande premio e non un danno: «… qui statim ad tranquillum portum appule­runt?». Ed è un premio perfino ben più grande di quello che se fossero vissuti «… alioquin vero non permisisset pueros praematura morte abri­pi, si magni futuri erant» (p. 355). È la sua spiegazione che si pone in un contesto spiccatamente teologico. La tragedia resta in tutto il suo strazio e non vi trova altro compenso o castigo, se così si può dire, che l’orrenda fine che toccò al crudele Erode qual è narrata da Giuseppe Flavio636.

Ma la tragedia dei piccoli innocenti resta, concludiamo anche noi, ma essa è stata causata dalla crudeltà degli uomini e permessa da Dio il quale ha permesso che il suo stesso Figlio morisse in Croce non solo per la malizia degli uomini ma abbandonato anche dal Padre (Mt 7,46). L’unica risposta, e la più profonda, resta pertanto all’interno della oeconomia salutis, come mistero nascosto in Dio637, secondo la quale tocca ai giusti e agli innocenti espiare le colpe dei peccatori. Ma è questo, appunto, un mistero per la ragione che Tonini, Camus e quelli che la pensano come loro, non vogliono ammettere.

Ciò che sorprende in questa appassionata difesa del Crisostomo è che, mentre si accentua la malizia dei due Erodi, non si fa un cenno preciso della malizia originale dell’uomo ch’è la vera radice universale del male fisico e specialmente di quello morale nella storia: una dottrina esplicita del resto in S. Paolo di cui il Crisostomo è stato il massimo ammiratore e commentatore.

Questo pessimismo teologico sul peccato e sulle sue conseguenze verrà messo in evidenza dai sistemi agostiniani e specialmente dal Giansenismo e dalla Riforma, ma senza intaccare con questo la credenza e la fede in Dio. Questa credenza verrà gradualmente dissolta nel pensiero moderno prima nel dualismo gnostico di J. Böhme ripreso da Schelling e poi risolto nella dialettica hegeliana che innalza il negativo cioè il peccato, nell’ordine morale, a momento costitutivo per l’affermarsi della realtà della storia. Quindi: niente più escatologia di trascendenza ossia giudizio finale di Dio che separerà in eterno i giusti dai malvagi (Mt 25,46) ma il giudizio è la stessa storia in atto: «La storia del mondo è il giudizio del mondo»638. Così dall’oppressione soffocante del male e del peccato nella concezione luterana e giansenista si è giunti all’autoliberazione dal male nel pensiero moderno, cioè a quella coscienza del bene e del male dentro la quale il male o è riconosciuto originario (Kant) o diventa di conseguenza quel limite soggettivo che la ragione non cessa di superare con l’avanzare della storia. Purtroppo, come ha mostrato Kierkegaard639, la realtà dell’esisten­za umana continua dilacerata fra l’errore e il dolore cui pone rimedio soltanto il Cristianesimo. Riassumiamo:

1. Possiamo ripetere che il male fisico e morale esiste, esisteva prima di Cristo ed esisterà fino alla fine dei tempi e questo anzitutto per la struttura finita delle cose, ma soprattutto come conseguenza di un disordi­ne o ribellione originaria dell’uomo contro Dio, di una macchia nel fondo dell’anima.

2. Ma l’uomo, come soggetto spirituale, può lottare entro certi limiti contro il male e contro la morte stessa: può alleviare il male altrui e sopportare il proprio a propria purificazione. Questa forma di capovolgi­mento del male nel bene lo vede la stessa ragione e la libertà lo può attuare rendendosi essa stessa libera, cioè liberandosi dagli egoismi che ne appannano l’orizzonte della sua apertura infinita.

3. L’esistenza del male cioè dei dolori fisici e morali, delle malattie e dei tradimenti, delle ingiustizie e dei soprusi di ogni sorta… in cui vive la società – qualunque sia il suo grado di sviluppo ma maggiormente in quelle forme più evolute e non esclusa la società religiosa ch’è fatta di uomini immersi anch’essi nella storia… – poiché è un dato di fatto inevitabile, se ciò costituisce una difficoltà per il teismo nel suo significato ingenuo, s’inserisce bene nella religione e nella grandezza e misericordia della rivelazione biblica e cristiana. Diventa perciò, per oppositam viam, una dimostrazione dell’istanza per l’esistenza di un Dio padre e giudice degli uomini che ha dato loro, oltre l’essere, il dono suo più alto ch’è quello della libertà e dell’amore.

4. Perciò possiamo ancora concludere: non esiste e non può esistere dimostrazione alcuna contro l’esistenza di Dio e di una vita futura. Esistono invece, e gli uomini li hanno compresi fin dai primordi, le prove ed i segni della sua amicizia e provvidenza per gli uomini: fra cui anche questa, ardua ma consolante, ch’Egli sa cavare per noi il bene anche dal male, come buon medico, e può darci la vita anche con la morte: ciò che nessun medico potrà mai fare.

Le soluzioni dialettiche del pensiero moderno sono semplicemente disperate e insieme indifferenti: se la libertà non può elevarsi sopra l’antitesi di bene e di male e lottare per affermare il primo e diminuire il secondo, la vita umana è abbandonata – anche dopo Cristo e con la fede in Dio – al gioco del fato e non c’è più «fondamento» per distinguere il bene dal male: poiché ciascuno di essi è principe e principio assoluto nel suo regno che l’uomo poi, per suo conto, non conosce quale sia: mescola­to, com’è, fra i miliardi di uomini che si pigiano nei sentimenti della fede e si confondono nei flutti del tempo che li spingono nel gorgo della morte.

Certamente il male, l’esistenza del male fisico e morale, non prova l’esistenza di Dio: è invece a suo modo una prova della libertà, anche se difettosa dell’uomo. Ma è stata ancora più difettosa e (per noi) più dannosa la libertà degli Angeli ribelli, di Lucifero (detto poi «Satana», il tentatore, spirito splendidissimo – forse il più splendido secondo alcuni accenni della Bibbia e l’opinione di alcuni Santi Padri e Scrittori ecclesia­stici…) perché Lucifero ha tentato il primo Uomo e perché al suo comando i suoi giannizzeri hanno tentato e continuano a tentare gli uomini al male, a tutte le forme del male secondo l’elenco dei sette vizi capitali.

Ma l’esistenza del male, dei diavoli e di tutte le bestie e i draghi nell’Apocalisse… non costituiscono né possono costituire un argomento, e tanto meno decisivo, contro l’esistenza di Dio, come Primo Principio creatore buono e Provvidente. Il male, che inonda la vita e la storia, può costituire al più una difficoltà per chi spinge all’estremo l’astrazione del Sommo bene metafisico per poi intenderla in modo psicologico ch’è il luogo dove sorgono le recriminazioni della pigrizia e dell’infedeltà del­l’uomo.

Ma una volta ammesso che l’uomo è stato creato libero – e questo l’ha poi rapinato il pensiero moderno (soprattutto Fichte, Schelling, He­gel) per distorcere il senso di Dio e preparare la sua negazione – egli può sollevarsi ad accettare la grazia offerta da Cristo e trasformare il male in bene e le sollecitazioni del peccato in occasioni in virtù e di santità con la protezione della Maestà di Dio e degli Angeli e sull’esempio dei martiri e dei Santi.

Così l’esistenza terribile, agghiacciante e quasi disperata del male, non è un’accusa contro Dio, ma una condanna del Principe del male: anzi certi peccati esterni, di estrema malizia, vanno dalla diffusione delle eresie, alla ferocia delle torture degli innocenti nei lager nazisti e marxisti (che non bisogna mai dimenticare)… fino alla viltà di ministri e prelati cristiani e perfino cattolici paurosi – come in Italia – di combattere e far combat­tere apertamente (come il Vangelo voleva) l’approvazione dell’infame legge del divorzio (1974) e di quella incomparabilmente più infame dell’aborto (1976)640. E, per stare nell’Italia di questo dopoguerra, questa legge, anche per i termini ambigui di lassismo in cui è stata redatta, viola ogni diritto umano e divino, è l’attentato più vile e violento contro i più innocenti ed i più inermi, è un delitto per il quale non c’è pena umana corrispondente641. Si deve osservare che anche all’interno del Partito – anche se la maggioranza votò contro (ma non furono le assenze e il tradimento DC a permettere il lieve scarto per l’approvazione della legge? – le reazioni furono minime, e quelle della stampa cattolica si limitarono alle deplorazioni di prammatica: nessuna reazione o dimostrazione pubbli­ca di protesta, nessuna petizione della testimonianza cristiana del Referen­dum). Poi, com’è noto, seguì l’arresto e l’assassinio crudele e malvagio dell’On. Moro il 6 maggio 1978 e si commosse (giustamente, del resto) tutta l’Italia laica ed ecclesiastica e lo si ricorderà ad ogni ricorrenza annuale. Ma di quelli innocenti, soffocati a migliaia da mano di medici che Ippocrate aveva dichiarato solo salvatrici, nessuno parla e nessuno mai parlerà.

C’è qualcosa che noi, spettatori dolenti e impotenti, di tanta infamia ad opera di politici, possiamo fare? Ed è un’infamia qualificata, una macchia che tutti i profumi di Arabia non potranno cancellare, quando si pensa che il Presidente Leone, che non ebbe la coscienza cristiana di dimettersi piuttosto di firmare l’iniquissima legge642, si dimise di lì a poco per faccende d’interesse personale. E non solo l’enorme e potente apparato ecclesiastico non è andato aldilà delle deplorazioni di rito, ma anche i così detti «gruppi del dissenso» da una parte ed i gruppi di azione, di base, di preghiera, anche quelli pur così verbalmente pugnaci di «Comunione e liberazione», tutti sono stati buoni buoni a casa loro, senza l’ombra di una protesta efficace, senza quel grido di amore e di dolore, per quel dolore e per l’ingiustizia universale che avrebbe certamen­te scosso un po’ le coscienze. Non è questo un evento per l’Italia (detta) cattolica ben più grave, dopo duemila anni di Cristianesimo, della strage compiuta da un re sanguinario su alcune diecine di innocenti? Erode e i suoi sicari non erano cristiani, e tanto meno erano andati al potere sotto lo scudo crociato, come Andreotti e compagni firmatari, deputati e senato­ri assenti al voto per bloccare l’infame voto… E perché allora quella volta l’Ing. Tonini, che si è tanto scandalizzato per l’episodio evangelico fino a prendersela con Dio, non ha scritto (a quanto ci consta) questa volta neanche una cartella di protesta contro quest’infamia commessa dalla società italiana?

L’ateismo non ha una parola per alleviare il dolore, per colpire gli operatori d’ingiustizia… perché non ammette altro che il finito, perché nega l’orizzonte nuovo dell’amore e della giustizia infinita, perché respinge la Paternità di Dio, la redenzione del Figlio e la santificazione d’amore dello Spirito Santo. L’ateismo marxista al bellum omnium contra omnes, ch’è la legge della storia (anche contemporanea), non oppone che la retorica del materialismo dialettico e del materialismo storico cioè la legge del dominio della forza ch’è la lotta di classe e questo non è altro che sanzionare il dominio del male, la legittimità dell’odio e della vendetta e quindi la legge del materialista Hobbes del bellum omnium contra omnes. Ed oggi i popoli liberi condannano con proteste e sanzioni, Italia compresa, l’oppressione in Polonia, da parte della minoranza comunista al governo, sull’associazione della maggioranza dei lavoratori (Solidarnosc), e la pressione sovietica sulla povera e impoverita nazione satellite: ma cos’è quest’oppressione al confronto dell’aborto ammesso ormai in quasi tutte le nazioni?

Al male, che travaglia dall’inizio e travaglierà sempre la vita dell’uomo sulla terra, non può portare soccorso – e l’ha portato abbondantemente con l’Incarnazione – che Dio soltanto prestandoci spesso il suo aiuto e assistendoci sempre con la sua grazia per seguire l’esempio di Cristo modello: così assumere il dolore della vita e la stessa morte, diventa un atto di amore per Lui. Il problema del male allora può avere una risposta solo in Dio, ammettendo cioè l’esistenza di un Dio che ha creato l’uomo libero il quale ha abusato della sua libertà per peccare, per ribellarsi a lui, ma Dio, per sua infinita misericordia, gli ha offerto in Gesù Cristo la possibilità di salvarsi dal peccato con la grazia e di vincere la morte con la resurrezione alla vita eterna.

III. Lateismo inevitabile?

Ben più a fondo del Tonini nell’analisi esistenziale del male si è avventurato, con profonda e appassionata coscienza esistenziale, Albert Camus nella sua opera di protesta contro il mondo moderno: ateo an­ch’egli, ha la sincerità di spirito di seguire l’autodistruzione dell’uomo prodotta dalla negazione di Dio. Egli non si ferma all’episodio dei piccoli trucidati dal sospettoso e crudele Erode, di cui (mi sembra) non faccia neppure menzione, ma intende abbracciare il male nella sua totalità, cioè l’uomo nella disintegrazione di tutti i valori, nel suicidio sia fisico sia spirituale, nella degradazione o autodistruzione che il progredire della civiltà fa dell’essere umano.

Anche il suo punto di partenza è umanista e più precisamente anticri­stiano poiché appioppa al Cristianesimo, senza preamboli (cioè senza i preamboli della perversione della libertà dell’uomo esposta nella Bibbia), la valanga di sventure cadute sull’uomo ossia d’aver messo la realtà dell’uomo sotto il segno del pessimismo: «Ce n’est pas moi qui a inventé la misère de la créature, ni les terribles formules de la malédiction divine. Ce n’est pas moi qui ai crié ce Nemo bonus, ni la damnation des enfants sans baptême. Ce n’est pas moi qui ai dit que l’homme était incapable de se sauver tout seul et que du fond de son abaissement il n’avait d’espé­rance que dans la grâce de Dieu»643.

Camus aveva lavorato in gioventù ad una «esercitazione» dal titolo: Entre Plotin et Saint Augustin, per il diploma di studi superiori e questa ricerca lasciò nel suo spirito un solco profondo che si espresse con vigore insolito nella sua opera principale: Lhomme révolté644, in cui egli giustamente ravvisa la caratteristica dell’uomo contemporaneo. La rivolta ha le sue radici e matrici nella contraddizione insuperabile in cui l’esisten­za si trova ovunque si volga: pessimismo radicale, totale, insuperabile… che suppone una specie di maledizione metafisica aldilà e prima del tempo. Per Camus l’uomo è assurdo, una formula ch’egli reputa più esatta di quella cristiana ch’egli sia un peccatore e di quella marxista ch’egli sia uno sfruttato – due concezioni che si risolvono, benché in modi diversi, in ottimismo.

Quanto al Cristianesimo in particolare, Camus non solo pone le distanze, ma capovolge la situazione. Egli coglie esattamente il punto cristiano: «Si le Cristianisme est pessimiste quant à l’homme, il est optimiste quant à la destinée humaine». Ma qui subito s’impone un distinguo decisivo: è ottimista per il cristiano coerente che crede in Cristo e vive nella sua grazia, è pessimista per chiunque respinge, mistifica e tradisce Cristo – cioè per chiunque non lo vuole come Figlio di Dio e suo Salvatore. Per il cristianesimo l’uomo è una dualità, non soltanto di corpo ed anima, ma di capacità di bene e di male ed è qui che si decide la «destinée humaine». Ed è qui che spunta l’equivoco anche della formula seguente del Camus: «Eh, bien! Je dirai que pessimiste quant à la destinée humaine, je suis optimiste quant à l’homme. Et non pas au nom d’un humanisme qui m’a toujours paru court, mais au nom d’une ignorance qui essaie de ne rien nier» (p. 374).

Tutto questo discorso è senza senso e non a caso, poiché invece di andare alla radice del peccato come primo male, Camus, che si protesta ateo, non vede una via d’uscita ed insieme va all’attacco dei cristiani. Camus è, fra i moderni, lo scrittore che con maggior serietà ha affrontato il problema del male, ma partendo da una posizione di ateismo non può trovare che il vuoto, l’insignificanza, ovunque si volga.

Anche l’affermazione seguente naviga nell’equivoco, malgrado la buona intenzione: «Et pour moi il est vrai que je me sens un peu comme cet Augustin d’avant le christianisme qui disait: “Je cherchais d’où vient le mal et je n’en sortais pas”. Mais il est vrai aussi que je sais, avec quelques autres, ce qu’il faut faire, sinon pour diminuer le mal, du moins pour ne pas y ajouter. Nous ne pouvons pas empêcher peut-être que cette création soit celle où des enfants sont torturés. Mais nous pouvons diminuer le nombre des enfants torturés. Et si vous ne vous y aidez pas, qui donc dans le monde pourra nous y aider?» (p. 374).

Legittima però mi sembra l’invocazione seguente che invita i credenti al «dialogo» a non lasciare Socrate solo645, né soli i pochi solitari, inorriditi da tanti mali ingiusti e crudeli, nel mondo – dalla Russia, al Vietnam, alla Cambogia, all’Angola…

Ma gratuita è la sua interpretazione della risposta cristiana la quale, a suo parere, non si può esaurire che o in una forma di compromesso o in un’enciclica: è questo un modo come un altro per manipolare la storia. Può darsi, e l’ammetterlo non è affatto eresia, che anche la Chiesa visibile abbia le sue lacune e perfino la sue colpe nella gestione delle cose umane: ma la Chiesa ovunque ha potuto predicare il Vangelo, ha predicato la paternità di Dio, l’amore del prossimo ch’è la prima radice per soccorrere chi soffre senza distinzione «… pour les enfants et pour les hommes» (p. 375). Ma possono fare altrettanto quei «solitari» – che qui celebra Camus – che sono e si dichiarano «sans foi et sans loi?». Dove nasce qui il legame con i sofferenti? Dov’è l’obbligazione che scaturisca dal fondo della coscienza e diventi un imperativo reale di autentica donazione e non di mera legalità razionale?

Il suo pensiero su questo punto si coglie meglio nella risposta ad un’intervista sul compito di un professionista e soprattutto di uno scritto­re: l’intervistatore esaltava l’opera del Dr. Rieux che si era impegnato anima e corpo per eliminare la sofferenza dell’uomo646. La risposta di Camus è senz’altro sincera ma purtroppo arida, intellettualistica, alla Pilato: «L’obstacle infranchissable me paraît être en effet le problème du mal. Mais c’est aussi un obstacle réel pour l’humanisme traditionnel. Il y a la mort des enfants qui signifie l’arbitraire divin, mais il y aussi le meurtre des enfants qui traduit l’arbitraire humain. Nous sommes coincés entre deux arbitraires. Ma position personnelle pour autant qu’elle puisse être défendue, est d’estimer que, si les hommes ne sont pas innocents, ils ne sont coupables que d’ignorance» (p. 380). Ma questo è ancora un puro ritorno a Socrate. Egli, è vero, ricorda anche la presenza storica del Cristianesimo, ma ammette che per questo compito «… qualche cristiano intelligente preferirebbe il marxismo». Questo è un fare del giornalismo a buon mercato – tanto più che, come vedremo, Camus – a differenza di Sartre, non è tanto tenero con Marx e i marxisti. Più perentoria è l’osservazione seguente: «Ceci pour le doctrine»647. Segue un giudizio sulla Chiesa difficile (per me almeno!) a decifrare: «Reste l’Eglise. Mais je prendrai l’Eglise au sérieux quand ses chefs spiritueles parleront le langage de tout le monde et vivront eux-mêmes la vie dangereuse et misérable qui est celle du plus grand nombre» (p. 380).

Per parte mia – e l’ho scritto in una risposta ad un attacco contro la Chiesa di P. P. Pasolini648 – non avrei nulla in contrario ad accettare l’ipotesi: non sarà il sottoscritto povero e libero studioso, e dopo la caduta del potere temporale, a difendere certe grandeurs rivelatesi non solo inutili, ma scandalizzanti della Chiesa storica di cui però, dopo il Vaticano II, si dovrebbe prendere una maggiore coscienza. Ma il problema di fondo è un altro e il Camus neppure lo sospetta: cioè la missione soprannaturale della Chiesa ch’è la continuazione e applicazione dell’opera di Cristo di salvare l’uomo dal peccato e dalla dannazione eterna. Questi, per il credente, non sono «fantasmi», ma le «ultime» e perciò le prime e più vere realtà. Per questo il Cristianesimo non è un semplice evento storico universale, come il marxismo, ma porta l’uomo in uno spazio diverso e per un destino eterno.

Piace tuttavia, lo devo confessare, lo stile di diatriba di Camus ch’è radicale e non ondeggiante fra ideologie opposte come fa Sartre fra l’anarchia e il comunismo. Piace il suo rispetto per l’uomo come tale, senza distinzioni, come «l’uomo comune» di Kierkegaard. Piace anche, e vorrei dire soprattutto, l’affermazione radicale della libertà radicale, ch’egli – come ora vedremo – chiama il diritto della rivolta. Ma Camus non è andato fino in fondo a questo concetto ch’è l’esigenza morale primordiale da cui è sorto il peccato e dal peccato ogni male.

La rivolta, la ribellione, la protesta od anche la contestazione… com’è stata chiamata dai movimenti giovanili del 1968 è la «risposta» al mondo assurdo, all’assurdo del mondo e al mondo dell’assurdo, che c’è stato trasmesso dalla cultura e civiltà occidentale ed in particolare dal pensiero moderno. La tesi che apre l’introduzione è di precisione agghiacciante nella denunzia del capovolgimento radicale della situazione umana: «Il y a des crimes de passion et des crimes de logique. La frontière qui les sépare est incertaine. Mais le code pénal les distingue, assez commo­dément, par la préméditation. Nous sommes au temps de la préméditation et du crime parfait. Nos criminels ne sont plus ces enfants désarmés qui invoquaient l’excuse de l’amour. Ils sont adultes, au contraine, et leur alibi est irréfutable: c’est la philosophie qui peut servir à tout, jusqu’à changer les meurtriers en juges»649. Sembra di ascoltare le spavalde autodifese dei brigatisti assassini di oggi. È avvenuto quindi nell’epoca moderna un fatto unico che ha cambiato il volto dell’umanità e la formula, per strabiliante e incredibile che possa sembrare, è la seguente: mentre prima la crudeltà, la sopraffazione, la violenza… potevano rivendi­care una propria coerenza, oggi – una volta che la civiltà è passata sotto il dominio delle ideologie – ciò che domina è «l’assurdo»: è attorno a questo concetto (?) o piuttosto realtà esistenziale che gira tutta l’analisi di Camus. È questa nozione di assurdo – come punto di arrivo del pensiero moderno e Camus parla con preferenza, più che di «notion» di «senti­ment de l’absurde». La tesi generale diventa allora: «Le sentiment de l’absurde, quand on prétend d’abord en tirer une règle d’action, rend le meurtre au moins indifférent et, par conséquent, possible. Si l’on ne croit à rien, si rien n’a de sens et si nous ne pouvons affirmer aucune valeur, tout est possible et rien n’a d’importance. Point de pour ni de contre, l’assassin n’a ni tort ni raison. On peut tisonner les crématoires comme on peut aussi se dévouer à soigner les lépreux. Malice et vertu sont hasard ou caprice»650.

La lezione di Camus è importante perché ci mostra senza mezzi termini il vicolo cieco della contraddizione e dell’assurdo in cui si è cacciato l’uomo moderno. È vero che il suo dilemma, di origine dostoje­vskiana: o suicidio o omicidio, mi sembra artificioso, perché non di rado – come leggiamo quasi tutti i giorni – i due fenomeni possono andare insieme. Il problema essenziale è quello del «significato» (Sinn) ossia di «dare un significato» (Sinngeben) alla vita e per fare questo occorrono dei «contrafforti» sia a parte ante come a parte post, cioè dei principi trascendenti rispetto ai quali la libertà possa giocare la sua scelta e sfidare il nichilismo. Giudicare assurdo e contradditorio tanto il suicidio come l’omicidio come fa Camus, e relegare perciò l’esistenza umana nella con­traddizione dell’assurdo appellandosi – con la finezza dello scrittore (Premio Nobel) che gli è riconosciuta – ad alcuni dei massimi scrittori filosofici del Sette-Ottocento, (Sade, Stirner, Hegel, Marx, Nietzsche, Rim­baud, Proust…) e soprattutto ad Ivan Karamazoff, il nichilista filosofeg­giante di Dostojevski… è troppo poco.

È sorprendente la sordità e quasi assenza che anche Camus, come tutti gli esistenzialisti di sinistra mostrano per Kierkegaard il quale ha posto, con un’analisi mai prima toccata dell’essenza della libertà e contro tutti i fatui ottimismi e pessimismi della filosofia tedesca da Kant a Schopenhauer, che il nichilismo moderno non ammette che l’unica alternativa: o credere o disperare651. Ma Camus ha perfettamente ragione quando afferma che tutta questa situazione di disorientamento universale, «cette contraddi­ction essentielle», come giustamente la chiama, è di essere «… un passa­ge véçu, un point de départ, l’équivalent dans l’existence du doute méthodique de Descartes»652. Al cogito infatti da una parte corrispon­de, sul versante metafisico, l’ateismo cioè la negazione di Dio e sul versante esistenziale dell’uomo il nichilismo che può avere sbocchi molte­plici: ma tutti verso l’insignificanza non sempre fino a giungere al suicidio e assassinio, ma sempre causando indifferenza, noia, insignificanza, vuoto…

Una terza osservazione importante come conseguenza inevitabile del nichilismo moderno, ossia della negazione dell’Assoluto personale ch’è Dio, è la trasformazione o capovolgimento dei rapporti fra uomo e uomo che non sono più presi dall’antitesi, che sta a fondo e fondamento della libertà, fra vero e falso, fra giusto e ingiusto, ma in termini di violenza ossia del rapporto fra oppressori e oppressi. Così la libertà come la verità s’incontrano e s’identificano nella volontà di potenza: Hegel-Marx e Nietzsche come poi Engels-Lenin-Stalin-Hitler… si trovano sulla medesima traiettoria. Di qui si può comprendere, ossia non desta una grande sorpresa, la risposta dello stesso Camus nelle Lettres sur la révolte, che fanno da commento allo Homme révolté ove si legge: «Alors que l’Homme révolté, tout en exaltant la tradition révolutionnaire non marxiste, ne nie pas l’importance et les acquisitions du marxisme»653. Sulla fragilità di simili considerazioni, si comprende che Albert Camus nel discorso ufficiale per il conferimento del Premio Nobel a Uppsala (14 dicembre 1957) abbia espresso il valore ideale della sua opera nella difesa della libertà dell’opera d’arte ma è vano, anzi futile, protestare che «… la valeur la plus calomniée aujourd’hui est certainement la valeur de la liberté»654. Tutta l’aulica orazione gira, con compiacenza, attorno a questo principio: una conclusione ben strana cioè di estetismo puro, imprevedibile dopo le infiammate e sincere pagine di LHomme révolté.

Riconosciamo allora il merito in senso diretto all’esistenzialismo con­temporaneo ed al marxismo, se si vuole, in senso obliquo di aver avverti­to, anzi di non aver eluso, il problema del male. Però si sono limitati o a descriverlo e ad infiorarlo con analisi letterarie e pseudofilosofiche oppure a capovolgerne il senso. Così l’esistenzialismo si scandalizza e denunzia la violenza come negazione della libertà ed il marxismo l’esalta come indispensabile all’attuazione della libertà (lotta di classe). Ed è questa soluzio­ne ch’è senza soluzione perché ipotizza il futuro come tale e che come tale non è né mai sarà, l’essenza del pensiero moderno, il risvolto sociologico del suo ateismo radicale. L’ha ben visto proprio Sartre nel saggio magistra­le su Descartes, ch’è forse teoreticamente lo scritto suo più limpido e perfetto, quando commenta il volontarismo assoluto cartesiano: «Ici le sens de la doctrine cartésienne se dévoile. Descartes a parfaitement com­pris que le concept de liberté renfermait l’exigence d’une autonomie absolue, qu’un acte libre était une production absolument neuve dont le germe ne pouvait être contenu dans un état antérieur du monde et que, par suite, liberté et création ne faisaint qu’un. La liberté de Dieu, bien que semblable à celle de l’homme, perd l’aspect négatif qu’elle avait sous son enveloppe humaine, elle est pure productivité, elle est l’acte extratemporel et éternel par quoi Dieu fait qu’il y ait un monde, un Bien et des Vérités éternelles. Des lors la racine de toute Raison, est à chercher dans les profondeurs de l’acte libre, c’est la liberté qui est le fondement du vrai, et la necessité rigoureuse qui paraît dans l’ordre des vérités est elle-même soutenue par la contingence absolue d’un libre arbitre créateur»655.

Così, per l’uomo comune, il problema del male non solo non è stato risolto per il suo stato presente, ma direttamente compromesso; s’intende il male d’oggi, di quest’uomo, in questa situazione… ed il male dell’uomo come soggetto responsabile, come persona che non ha solo doveri verso lo Stato e il partito ma anche diritti. Ma tutte queste sono ormai parole completamente inutili, pallidi ricordi di tempi teocratici e di quando si credeva che Cristo era veramente Dio, e perciò giudice, e veramente uomo e perciò esempio a noi e intercessore con Dio. Risolvere il problema del male è possibile solo con e nella fede e più che parlare di risolvere è meglio ricorrere, come espressione di avvicinamento, alla imitazione di Cristo di «… chiarire, illuminare, prospettare…» per mettersi – come dice il Vangelo ed insiste Kierkegaard con tutta la tradizione cristiana – ad operare con la fede, a resistere con la speranza ed a patire con l’amore.

Il problema del male non ammette quindi alcuna soluzione puramente filosofica: le soluzioni che ne hanno dato i vari sistemi, ottimisti e pessimisti che siano, sono semplici invenzioni di un deus ex machina che non significano nulla per l’uomo esistente, anzi l’offendono.

Abbiamo iniziato affermando che l’esistenza del male è l’unica obiezio­ne consistente, sul piano esistenziale della libertà, per l’affermazione dell’e­sistenza di Dio. Ora possiamo concludere, dopo l’esposizione della pro­spettiva filosofica più recente e più sensibile, che solo nella prospettiva della fede cristiana il male riceve un senso ed una soluzione positiva di salvezza per l’uomo e per ogni uomo. Quindi – per paradossale che possa sembrare – la nostra conclusione è che proprio l’esistenza del male nella storia dell’uomo, sia come individuo sia come società, si trasforma nella riflessione della fede in una prova ed esigenza, anzi nella certezza assoluta dell’esistenza non solo di un Dio, primo Principio, ma del Verbo che si è unito a ciascuno di noi con la grazia ed infine dell’Amore che a questo modo ci è stato comunicato al di là di ogni merito e misura. Ed è così che nel Nuovo Testamento si legge che «… il nostro dolore si trasformerà in gioia» (Gv 16,21) – anche su questa terra.

Così la filosofia non risolve, non può risolvere, il problema del male: perché anzi ha fatto di tutto per oscurarlo confinandolo nel non essere; la fede biblica e specialmente cristiana invece lo illumina da tutte le dimen­sioni dell’esistenza, del corpo e dello spirito, come pena del peccato che diventa itinerario indispensabile di purificazione e di elevazione della libertà corrotta.

E la soluzione ultima verrà proprio in quello che per l’ateo è il supremo male, cioè nella «sorella morte», oltre il tempo e la storia. Sarà il giorno dell’Apocalisse finale quando, disposti in corona attorno a Cristo, i Martiri, e primi fra essi i Santi Innocenti, alzeranno verso Lui le loro palme invocando: «Hai vendicato il nostro sangue» (Ap 19,2). Essi «sono quelli del Quinto sigillo, le anime degli sgozzati per la Parola di Dio e della testimonianza che avevano resa. E gridarono a gran voce dicendo: “Sino a quando, o Signore, o santo e verace, non giudichi tu e non vendichi il sangue nostro su quei che abitano la terra?”. E fu data loro a ciascuno una veste bianca e fu detto loro che stessero quieti ancora per breve tempo fino a che fosse completo il numero dei loro conservi e dei loro fratelli che dovevano esser uccisi come loro» (Ap 6,9-11). E l’ultima invocazione: «Amen! Vieni, Signore Gesù!» (Ap 22,20).

Voltaire fu oltremodo impressionato dal terremoto di Lisbona che nel novembre del 1755 sprofondò quasi completamente quella città: ma quante altre città non furono sprofondate nei secoli anteriori ed anche nei tempi vicini a noi e durante la stessa esistenza di molti di noi ed anche di chi scrive, come già si è detto all’inizio. Ma Voltaire non conclude né alla disperazione né alla negazione di Dio. Il suo Poéme sur le désastre de Lisbonne656 rimane un testo classico quando si vuole affrontare sul piano esistenziale il problema del male.

«Tutto è bene!», afferma il razionalismo: ma questo vale soltanto nell’ordine metafisico (ens et bonum convertuntur)657, mentre sulla terra il bene è sempre mescolato al male e il piacere al dolore. È maggiore il bene del male, il piacere del dolore? Voltaire non si pone il problema e neppure noi lo poniamo, poiché chi sarebbe capace di dare una risposta adeguata e accessibile per noi mortali, abbandonati a tutti gli accidenti dell’esistenza ed in primis alle forze cieche della natura? La risposta di Voltaire non lascia dubbi ed ha perfino sinceri accenti biblici, sia nei toni di miseria come in quelli di speranza: il male non può certo venire da Dio: e allora?

«Ou l’homme est né capable, et Dieu punit sa race, ou ce maître absolu de l’être et de l’espace, sans courroux, sans pitié, tranquille, indiffe­rent, de ses premiers décrets suit l’éternel torrent; ou la matière informe, à son maître rebelle, porte en soi de défauts nécessaires comme elle; ou bien Dieu nous éprouve, et ce séjour mortel n’est qu’un passage étroit vers un monde éternel. Nous essuyons ici des douleurs passagéres: le trépas est un bien qui finit nos misères. Mais quand nous sortirons de ce passage affreux, qui de nous prétendra mériter d’être heureux?»658.

Una speranza che sta già sulla soglia del Cristianesimo? Se non è stato per Voltaire (chi lo sa?), può esserlo per i lettori soprattutto di oggi quando la ragione ha visto cadere in mezzo secolo tutti i suoi idoli.

Riteniamo allora con il consenso dello spregiudicato Voltaire che l’ateismo, comunque si presenti, è impossibile nella sfera esistenziale ch’è essenzialmente aspirazione alla Verità ed al Bene Supremo. La componente esistenziale per elevarsi a Dio, per sopportare il male, per accettare la morte come una liberazione ed un «passaggio», un approdo alla vita ed alla beatitudine senza fine… è indispensabile.

Ed è siffatta componente, che si trova nella fede del Risuscitato, come la teologia contemporanea ha messo fortemente in rilievo, che diventa decisi­va ed alla fine universalmente persuasiva secondo l’assicurazione di S. Paolo: «Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati e perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti (…). Ma come in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti saranno vivificati» (1Co 15,17-22).

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597 Enn. I, 8 (51); ed. Henry-Schwyzer, t. I, p. 121, 1ss. Il tema è ripreso spesso nel neoplatonismo (Cf. Proclo, De Malorum Subsistentia, tr. lat. di G. Moerbecke. Da Proclo dipende, sembra, il misterioso Ps. Dionigi, De Divinis Nominibus, c. IV; PG 3, col. 721), che diventa il maestro indiscusso del medioevo su questo problema sotto l’aspetto metafisico, mentre S. Agostino lo è per l’aspetto del peccato e della grazia.

598 La letteratura sul problema del male è inesauribile. La raccolta più aggiornata sembra quella di F. Bilhiesich, Das Problem des Übels in der Philoso­phie des Abendlandes, in 3 vol.; Bd. I, Von Platon bis Thomas von Aquin; Bd. II, Von Eckhart bis Hegel; Bd. III, Von Schopenhauer bis zu Gegenwart, Wien 1955-1959. Naturalmente si presuppongono le esposizioni che si trovano nei Dizionari e nelle Enciclopedie filosofiche e teologiche.

599 S. Th., Ia, q. 2, a. 3, ob. 1.

600 «Hoc ergo ad infinitam Dei bonitatem pertinet, ut esse permittat mala, ut ex eis eliciat bona» (ibid., ad 1um).

601 S. Th., Ia, q. 48, a. 2: «Utrum malum inveniatur in rebus».

602 G. Hegel, Phaenomenologie…, Vorrede; ed. Hoffmeister, p. 21.

603 S. Th., Ia, q. 29, a. 3.

604 S. Th., Ia, q. 48, a. 2. Ma devo confessare che la seguente osservazione di S. Tommaso mi lascia molto perplesso: «Ipsum autem totum, quod est universitas creaturarum, melius et perfectius est, si in eo sint quaedam quae a bono deficere possunt, quae interdum deficiunt, Deo hoc non impediente» (ibid., a. 2 ad 3um). Questo può valere solo dopo il peccato originale, come pena. La morte violenta, anche quella degli animali, desta orrore in chi la vede e provoca dolori atroci in chi la soffre.

605 S. Th., Ia, q. 48, a. 2 ad 3um.

606 Gen 1, vv. 4.11.13.18.21.25.

607 Il c. II, com’è noto, ripete ed amplia con stile più pittoresco il racconto della creazione.

608Gen 3,1ss.

609 Cf. p. es. le riferenze riportate da J. Guillet, Thèmes bibliques, Thèmes du peché, Paris, 1950, spec. 94ss.

610 Expositio super Job ad litteram; ed. Leon., Roma 1965, fol. 3s.

611 Expositio super Job ad litteram; ed. Leon., fol. 116, Cl. 254-265.

612 S. Th., IIIa, q. 1, a. 1.

613 S. Tommaso applica questo motivo anche al tremendo problema della predestinazione e della riprovazione (S. Th., Ia, q. 23, aa. 1-8. Cf. spec. a. 5 ad 3um: una risposta che per noi, moderni, risulta sorprendente e quasi agghiacciante).

614 Questo motivo della «adeguata soddisfazione» emerge in particolare nel­l’ad 2um ove si tocca l’infinita malizia del peccato.

615 Cf. più avanti: q. 26: «De hoc quod Christus dicitur mediator Dei et hominum» in quanto è insieme Dio e uomo.

616 Si noti nell’ad 2um: «Christus ut satisfaceret pro peccatis omnium hominum assumpsit tristitiam maximam quantitate absoluta…»; nell’ad 6um: «Christus voluit genus humanum a peccatis liberare, non solo potestate, sed etiam iustitia. Et ideo non solum attendit quantam virtutem dolor eius haberet ex divinitate unita: sed etiam quantum dolor eius sufficeret secundum naturam humanam, ad tantam sati­sfactionem».

617 Quasi a complemento di questa sobrietà del racconto evangelico, esistono varie «rivelazioni private» di alcuni Santi e mistici sui dolori sofferti da Cristo nella Passione e Morte.

618 S. Th., Ia-IIae, q. 79, a. 1. Cf. anche ad 1um.

619 S. Tommaso lo dice espressamente, seguendo sempre S. Agostino, quando tocca il problema dell’accecamento dei peccatori: «… ad quosdam excaecatio ordina­tur ad sanationem, quantum ad alios ad damnationem» (ibid., q. 79, a. 4).

620 S. Th., Ia-IIae, q. 80, a. 4 ad 2um.

621 S. Th., Ia-IIae, q. 81, a. 1.

622 Citiamo con i numeri della tr. it., Brescia 1979-19833.

623 Cf. Lc 12,23ss., e per l’argomento C. Fabro, La preghiera nel pensiero moderno, Roma,  1979, 21ss.; in una recensione a questo saggio Gianfranco Morra nota: «Venuta meno la “meraviglia per l’Essere” (filosofia) e l’invocazione di salvezza (preghiera), l’uomo assolutizza se stesso e le sue finite possibilità concludendo nell’oppressione e nel dominio della “volontà di potenza”», Oss. Rom., 19-VI-80, p. 3.

624 I termini danesi corrispondenti sono: hvorledes, hvad (Diario 1850, X2 A 644, p. 467).

625 Sono i protagonisti rispettivamente di Timore e Tremore e di La ripresa, ambedue del 1843.

626 S. Kierkegaard, S.V. III, 128s.; Opere, p. 71. Per altri testi [kierkegaardiani in questo contesto mariano mi permetto di rimandare al vol.] S. Kierkegaard, Il problema della fede, Brescia 1978, 274ss. Cf. anche J. G. Fichte, «L’annunciazione di Maria», a cura di C. Fabro, Humanitas, 2 (1980) 173-186. [Nota del curatore: Il testo fra parentesi quadre è stato omesso nella prima edizione, a quanto sembra, per un errore di stampa].

627 Cf., fra l’altro, gli impressionanti arazzi di Raffaello nella Pinacoteca Vaticana: la disperazione delle madri e lo sgomento di morte dei piccoli.

628 Gli ha dedicato una nota anche Voltaire nei suoi divertenti Nouveaux Mélanges, ma egli nega il carattere storico del fatto e lo sorvola allegramente: «Le massacre des innocents est assurément le comble de l’ineptie, aussi bien que le conte des trois mages conduits par une étoile. Comment Hérode, qui se mourait alors, pouvait-il craindre que le fils d’un charpentier, qui venait de naître dans un village, le détronat? Hérode tenait son royaume des Romains. Il aurait donc fallu que cet enfant eût fait la guerre à l’empire. Une telle crainte peut-elle tomber dans la tête d’un homme qui n’est pas absolument fou? Est-il possible qu’on ait proposé à la credulité humaine de pareilles bêtises, qui sont au dessous de Robert le Diable & de Jean de Paris?» Voltaire, Nouveaux Mélanges, in Oeuvres, t. XVIII, Paris 1776, p. 196, nota.

629 Ed. Guanda, Parma 1966. Per quanto so, il libro dell’A. non ha avuto che scarsa o nessuna risonanza di rilievo nella critica.

630 In Matthaeum, Homilia IX, c. 2. Cf. il riferimento a questa Omelia del Crisostomo da parte dell’editore degli Origenes Werke, Bd. XII: Origenes Matthaeuserklärung, III, Fragmente und Indices (Erste Hälfte), a cura di E. Klo­stermann, Leipzig 1914, § 33, p. 28.

631 Gli editori rimandano alla celebre vita S. Antonio abate, scritta da S. Atanasio che ormai faceva il giro della cristianità e fu ammirata, nei tempi moderni, dallo stesso Feuerbach (Cf. Das Wesen des Christentums, S.W., Bd. VII, p. 89. Cf. C. Fabro, Feuerbach. L’essenza del Cristianesimo, L’Aquila 1977, p. 25ss.).

632 Homilia VIII, c. 2.

633 «Hic mihi diligenter attendite: etenim multi plurima circa pueros istos nugantur, injustitiam fatti criminantes; alii quidem modestius hac de re dubia proponunt; alii vero audacius et furiosius» (Homilia IX, c. 2, p. 332).

634 «Nam si effossum murum vidisset, vel portas eversas, iure forte potuisset milites, qui Apostolum custodiebant, negligentiae accusare. Verum ibi omnia in suo statu manebant, januae clausae erant, custodientium manibus alligatae: erant enim illi simul cum Petro vincti; poteratque ex eis secum reputare, siquidem recte iudicasset, quod gestum fuerat, non humana virtute, neque fraude aliqua, sed divina quadam ac mirabili potentia factum fuisse, atque illum adorare qui haec fecisset, nec poenas de custodibus expetere» (p. 333). La Volgata ha soltanto: «iussit [Herodes] eos duci», mentre l’originale degli Atti ha: avnakri,naj tou/j fula,kaj evke,leusen avpacqh/nai cioè «iussit eos ad supplicium adduci» che significa: «comandò che le guardie fossero giustiziate» (At 12,19).

635 In Matthaeum, Homilia IX, ed. cit., p. 333s.

636 «Celerrima quippe illum facinoris vindicta corripuit, tantique sceleris di­gnas dedit poenas, dira morte et ea quam intulit miserabiliore vitam claudens, innumeraque alia passus mala. Quae discere poteritis si Josephi historiam evolvatis, quam, ne longiore utamur sermone, neu seriem nostram intercipiamus, praesentibus non inserendam esse putavimus» (p. 336). Erode morì «roso alle pudende dai vermi» (cf. G. Flavio, Guerra giudaica, I, 656ss. Cf. G. Ricciotti, Vita di Cristo, Milano 19417, p. 293).

637 Il martirio dei Santi Innocenti fu celebrato (fra l’altro) in un mirabile inno di Prudenzio riportato dal Breviario Romano nel giorno della Festa (28 dicembre): «Solvete flores Martyrum», sul quale Péguy farà un memorabile commento nel suo «Le mystère des Saints Innocents», Paris 1948, p. 315ss. (Cf. il nostro breve saggio «Charles Péguy: Il mistero dei Santi Innocenti», Il Veltro 26 [1981] pp. 1-6).

638 Cf. G. Hegel, Grundlinien…, § 340; ed. Hoffmeister, p. 288.

639 Cf. spec. La malattia… (1848), P. I.; Opere, p. 623ss.

640 E anche quest’infame legge fu sottoscritta e pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» della Repubblica, quindi resa immediatamente operante, con la firma del Presidente Leone cattolico e dei ministri tutti anch’essi di scudo crociato: Andreotti (Presidente del Consiglio), Anselmi (ministro della sanità), Bonifacio (guardasigilli), Morlino e Pandolfi (ministro del bilancio). Non è questo un tradire apertamente il Vangelo? Solo il cardinale Benelli, arcivescovo di Firenze, accusò pubblicamente la pro­pria debolezza – durante una Messa celebrata nella Chiesa della S. Annunziata ai primi di marzo 1976 (prendo la notizia dell’Avvenire). A questo proposito mi permetto di rimandare allo studio: La trappola del compromesso storico, Roma 1979.

641 Non parliamo della «pena ecclesiastica» ch’è ancora da venire.

642 Fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, nr. 40, come: Legge 22 maggio 1978, nr. 194: «Norme per la tutela sociale [della maternità] e dell’interruzione volontaria della gravidan­za», a p. 3642 b – 3646 b. Inizia: «La Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica hanno approvato; – Il Presidente della Repubblicapromulga, la seguente legge»: (3642 b). Non è qui ovviamente, il caso di entrare nell’esame particolareggiato dell’infame legge. [Nota del curatore: le parole racchiuse fra parentesi quadre si trovano nell’articolo pubblicato in Asprenas (1981) p. 320].

643 A. Camus, Actuelles I, in Essais, Paris 1965 (pubbl. da Bibl. de la Pléiade), p. 373s.

644 Paris 1951. – Ci permettiamo di osservare, ovviamente con la dovuta distanza, che la negatività radicale, che il Camus vede nella riflessione esistenziale, non è che la facies externa cioè l’effetto immediato dell’ateismo radicale connesso al cogito moderno le cui prime radici però vanno lontano.

645 Perché solo Socrate e non ancora, e soprattutto, Cristo?

646 Oltre i grandi Santi della carità, p. es. Giovanni di Dio, S. Vincenzo de Paoli, il Cottolengo, Don Orione.., l’intervistatore poteva fare il nome dell’apostolo dei lebbrosi P. Damiano.

647 Ma Camus non ha neppure accennato alla dottrina del Cristianesimo, limitandosi a dire ch’esso è «une religion totale» (corsivo suo), ma senza dir altro. Capisco che un’intervista non può essere un trattato di teologia, ma questo modo di rispondere è una semplice presa in giro. Come lo è la definizione della fede che qui si legge, la quale «… est moins une paix qu’une espérance tragique». Cioè, se intendo bene, una speranza senza esito, un fallimento. È serio questo, per uno che subito si proclama: «Je ne suis pas chrétien» (p. 380)?

648 Cf. «Chiesa morente o Chiesa nascente?», Gente 44 (1974) p. 7ss.

649 A. Camus, LHomme révolté, in Essais, ed. cit., p. 413; ed. 1951, p. 13.

650 A. Camus, ibid., p. 415; ed. 1951, p. 15.

651 Cf. S. Kierkegaard, La malattia… (1850). La parte prima mostra che l’io può esercitare la sua libertà unicamente fondandosi sul «Principio che l’ha posto» ossia diventando un «Io teologico»; la seconda parte espone l’inevitabilità della scelta fra disperazione e fede, cioè la fede storica del Cristianesimo. Sta qui ancora il problema essenziale, checché continui a sermocinare la filosofia contempo­ranea sul proliferare a getto continuo delle «culture».

652 A. Camus, L’Homme…, p. 417; ed. 1951, p. 19.

653 A. Camus, Essais, ed. cit., p. 765. Di lì a poco in una nota Camus arriva a riconoscere a Marx «la méthode critique la plus valable», pur contestandogli il «messianisme utopique» (ibid., p. 766 nota). Così nel concetto dell’uomo essenza ed esistenza, allora coincidono: ma allora a che scopo tutta la polemica? Il tutto sfuma in pettegolezzi di famiglia, in giochi intellettuali.

654 A. Camus, Essais, ed. cit., p. 1082.

655 J.-P. Sartre, Descartes, Paris 1946, p. 47s.

656 Seguo il testo del vol. Voltaire, Philosophie, La Renaissance du Livre, Paris, s.d.

657 Sembra che Voltaire qui intenda scusare l’ottimismo di Leibniz e di Pope, da lui molto ammirati, mentre attacca con violenza il determinismo meccanicista di B. Spinoza: «Il fallait qu’il fût ou un Sophiste gonflé d’un orgueil bien stupide, pour ne pas reconnaître une Providence toutes les fois qu’il respirait et qu’il sentait son coeur battre» (Voltaire, Nouveaux Mélanges…, IV partie, Paris 1770, p. 287).

658 Voltaire, Poème sur le désastre de Lisbonne, ed. cit., p. 235.

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Comments 2

  1. Roma, lunes 23 de mayo de 2016
    Estimados amigos del Verbo Encarnado.net,
    Hoy he descubierto que existe esta página que difunde con mucha gratuidad textos invaluables de personas que nos han iluminado con su vida y con sus reflexiones. Algunos como Santo Tomás, trabajaron individualmente o con algunos secretarios; otros como los Papas, tuvieron equipos de trabajo muy grandes que los ayudaron a trasmitirnos tantas bellas realidades de nuestra vida cristiana.
    Me ha dado pues mucha alegría encontrar textos de Cornelio Fabro pues considero que su síntesis y su grande conocimiento sobre la Filosofia de Santo Tomás y de los filosofos contemporáneos se de grande ayuda para conocer y vivir mejor la revelación cristiana. Felicidades y gracias mil por su dedicación a difundir la luz de la verdad, como dice el Papa Francisco, con caridad y sin proselitismos ni fundamentalismos!

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