VI. Kierkegaard e la dissoluzione idealistica della libertà

I. Fato classico e libertà cristiana alle origini del pensiero moderno

Se il pensiero classico ha indagato soprattutto il rapporto dell’uomo al mondo legando la libertà nelle catene infrangibili della necessità (avna,gkh) del fato, se il pensiero cristiano ha rivelato il manifestarsi di Dio all’uomo come creatore del mondo e redentore dell’uomo dal male e dal peccato offrendo all’uomo il fondamento della libertà nella sua bontà onnipotente e salvifica: il pensiero moderno ha trasferito gradualmente il fondamento della creatività della libertà dall’onnipotenza di Dio alla soggettività infinita dell’uomo, dalla trascendenza di Dio al trascendentale della soggettività umana. Nessuno forse ha accentuato su questo punto più di Hegel la dipendenza del pensiero moderno dal Cristianesimo. Rileggia­mo: «Né i Greci né i Romani, né parimenti gli Asiatici sapevano – afferma Hegel – che l’uomo in quanto uomo e nato libero, ch’egli è libero: nulla sapevano di questo concetto. Essi sapevano che un ateniese, un cittadino romano, un ingenuus, è libero: che si dà [fra gli uomini] libertà e non libertà: non sapevano tuttavia che l’uomo è libero come uomo – cioè l’uomo universale, l’uomo come lo comprende il pensiero e com’esso si apprende nel pensiero. È il Cristianesimo che ha portato la dottrina che davanti a Dio tutti gli uomini sono liberi, che Cristo ha liberato gli uomini, li ha resi uguali davanti a Dio, li ha liberati alla libertà cristiana. Il progresso enorme è che queste determinazioni (della libertà) rendono la libertà indipendente dalle condizioni di nascita, stato, educazione, ecc. che sono ben diverse da ciò che forma il concetto di uomo per essere un (soggetto) libero»340. Più precisamente: mediante Cristo, l’Uomo-Dio, è venuta alla coscienza «l’unità della natura divina e umana» e precisa­mente come unità ch’è in sé e dall’altra nella realtà come culto. A differenza di Proclo, nella conclusione del pensiero greco, che pone l’Assoluto al vertice dell’immediato, qui Cristo fa la mediazione (tra l’uomo e Dio) con la sua morte: «Qui questo dolore che Dio stesso è morto è il luogo di nascita della santificazione e dell’elevazione [dell’uomo] a Dio»341.In questo Hegel reagiva contro il deismo e l’illuminismo che avevano messo la religione rivelata fuori del giro del pensiero e della necessità del concetto pretendendo fondare la libertà di coscienza, la libertà di pensiero, la libertà d’insegnamento… indipendentemente dal contenuto della verità stessa342.Secondo Hegel sia la concezione della libertà nel senso della immediatezza della Glaubensphilosophie sia la dissoluzione della fede cristiana da parte dell’Illuminismo svuotano la libertà del suo fondamento e compimento. Però, osserva Hegel, la fede (cristiana) che i discepoli avevano in Cristo nella riconciliazione degli uomini con Dio, è soltanto l’inizio e il fondamento condizionante e perciò qualcosa di ancora imperfetto. È nell’espansione del «Concetto» ossia dell’attuarsi dell’uomo come spirito, ch’è «l’essere con se stesso», che la libertà attinge la sua verità nell’epoca moderna e soprattutto nelle nazioni germaniche.

In Hegel pertanto è portato a compimento il processo di radicalizza­zione della libertà come soggettività, come «certezza» (Gewissheit), ch’è proprio del cogito moderno nella linea decisiva dell’Io kantiano ch’era stato subito elevato ad Assoluto da Fichte e da Schelling; l’originalità di Hegel è nell’approfondimento della dialettica della coscienza come negatività, non puramente formale o immediata, ma come riflessione della coscienza in se stessa e nella storia. Tale energia di riflessione infinita è stata suggerita per la prima volta, secondo Hegel, dalla rivelazione cristia­na della Incarnazione di Dio come «riconciliazione» (Versöhnung) del finito con l’Infinito. Ma poiché, secondo Hegel, Dio come l’Assoluto si attua soltanto nel pensiero e nell’attività dell’uomo come spirito (Geist), lo spirito allora è l’intelligenza che diventa (ovvero si attua come) volontà sollevandosi al di sopra di ogni contenuto particolare della sfera dell’im­mediatezza. Mediante questo completo ritorno in se stesso, ch’è la negatività dello spirito, ciascuno – osserva Hegel – troverà in sé che può astrarre da tutto ciò che è e quindi [ha coscienza] di determinarsi, di poter porre per mezzo di sé ogni contenuto ed avere appunto nella propria autocoscienza l’esempio per le altre determinazioni. Così l’essere è il pensare ed il pensare è il volere ed infine e soprattutto il volere vuole il volere ovvero nella sua formula astratta: «La volontà libera vuole la volontà libera»343. Ed Hegel spiega: si tratta che l’Io come spirito è la relazione della negatività con se stessa; allora in quanto è relazione a sé è altrettanto indifferente verso questa [cioè verso ogni] determinatezza, la conosce come la sua e ideale, come una pura possibilità, dalla quale non è vincolato ma nella quale esso è, poiché si pone nella medesima. Questa è, per Hegel, la libertà del volere la quale costituisce il suo concetto e sostanzialità, la sua gravità (Schwere) così come la gravità costituisce la sostanzialità del corpo344.È perciò soltanto quando la volontà ha per oggetto se stessa è per sé ciò ch’è in sé. Così Hegel dall’identità d’intellet­to o meglio di ragione e volontà, risolta nell’identità della volontà con se stessa, può affermare l’identità di essere e dover essere e risolvere comple­tamente, senza residui, la morale nel diritto e infine assoggettare senza possibilità di appello le esigenze dei Singoli al potere dello Stato. Se allora si deve riconoscere che la natura di Dio di essere puro spirito diventa manifesta all’uomo nella religione cristiana, si deve insieme proclamare che la storia universale (Weltgeschichte) è l’attuarsi di Dio nell’uomo e che è lo Stato che diventa l’Individuo assoluto come sintesi di particolare e universale e perciò l’unico soggetto sussistente: ogni esistenza sensibile, ogni uomo singolo, è perciò solo un momento transitorio (ein vorüber­gehendes Moment). Nessun uomo come singolo si può dire ch’è davanti a Dio, perché secondo Hegel il Singolo è pura immediatezza riflessa: il Singolo ottiene un rapporto all’Assoluto soltanto con la mediazione dell’u­niversale concreto ch’è lo Stato. È contro questa concezione hegeliana della libertà che si dirige la critica di Kierkegaard, il cui esatto significato non è stato ancora, a nostro avviso, sufficientemente esplorato dalla Kierkegaard-Renaissance.

Pertanto per Hegel l’essenza dello spirito è formalmente la libertà – e su questo anche Kierkegaard conviene: è nella determinazione del soggetto e del fondamento di tale libertà che Kierkegaard si allontana da Fichte-Schelling-Hegel e contesta all’idealismo l’intera sua concezione del­l’uomo e del Cristianesimo. Il punto cruciale, ch’è stato spesso trascurato o traviato, nel confronto di Hegel con Kierkegaard, è qui nella determina­zione dell’essenza della libertà nella assoluta negatività del concetto come identità con sé. Secondo questa determinazione formale il concetto può astrarre da ogni realtà esteriore e dalla sua propria esteriorità; esso può sopportare la negazione della sua immediatezza individuale, il dolore infinito [cf. la «morte di Dio in Cristo»], cioè conservarsi affermativo in questa negatività ed essere identico con sé. In parole più semplici, la verità, la libertà… appartengono unicamente al Concetto universale ch’è lo Spirito come ciò ch’è unicamente con sé e per sé: il Singolo, che Hegel concepisce unicamente come elemento accidentale disperso nell’immedia­tezza, è perciò inessenziale e cade fuori della verità e libertà. È questo assorbimento del Singolo uomo a vantaggio dell’ [di fronte all’] universale ch’è lo Stato, ciò che per Kierkegaard costituisce la mistificazione profonda – malgrado le apparenze di conciliare filosofia e Cristianesimo – che il pensiero moderno – ed Hegel in modo particolare cioè più risoluto e rigoroso – ha fatto della dignità della persona umana e della trascendenza salvifica della rivelazione cristiana. Quelle apparenze infatti sono state dissolte dopo la morte di Hegel per opera della sinistra hegeliana secondo la quale la teologia speculativa hegeliana si risolve effettivamente in «antropologia»: la antropologia trascendentale è diventata infatti il comune denominatore, diversamente interpretato, delle filosofie dominanti della seconda metà dell’Ottocento e del Novecento. Non è infondata allora l’affermazione345 che il crescente allontanamento dal Cristianesimo è uno dei tratti incontrovertibili nell’immagine della filosofia moderna ovvero che se qui o là essa sembra allo storico di aver cercato un avvicinamento al Cristianesimo essa ha mostrato – come in particolare il grande tentativo dell’idealismo tedesco di Fichte, Schelling ed Hegel – che la spaccatura era essenziale e che l’anticristianesimo di Nietzsche appare alla fine come il vertice dell’aspirazione di una libertà sovrana sicura di se stessa che ha determinato la filosofia moderna col cogito fin dall’inizio. A questo movi­mento di svuotamento radicale del messaggio della libertà cristiana appar­tiene certamente anche la concezione heideggeriana del Dasein poiché, anche se Heidegger si richiama per la nozione di Angst ad Agostino, Lutero e Kierkegaard (Sein und Zeit, ed. 1927, p. 199, n. 1), per quella della morte (Tod) specialmente a Paolo e Calvino (p. 249): in realtà egli dichiara che l’analisi esistenziale della colpevolezza (Schuldigsein) nulla dimostra «né pro né contro la possibilità del peccato» (p. 206, n. 1) e pertanto l’ontologia dell’esistente umano (Dasein) nulla «sa» in linea di principio riguardo al peccato (cf. ibid., pp. 176, 179s.).

Nell’idealismo allora, come già nel razionalismo con Spinoza e Leibniz, la libertà va completamente a fondo: nel «sistema» del Tutto dell’essere il Singolo scompare e non c’è posto alcuno per la libertà di scelta. Non ha più senso dire che l’uomo è lui a fare la scelta e le scelte dell’esistenza, ma bisogna piuttosto dire che nell’avanzare della storia egli non tanto è il soggetto che sceglie, quanto colui che «è scelto» nel gioco delle forze che operano nella storia. Il giudizio più drastico e pertinente, più acuta­mente di qualsiasi critico dell’idealismo da Feuerbach a Marx fino ai vari Bloch e Garaudy dei nostri giorni, è quello del giovane Kierkegaard che vale per tutta la filosofia moderna dell’immanenza: «Che Dio possa creare delle nature libere al suo cospetto, è la croce che la filosofia è impotente a portare ma a cui è stata conficcata»346. Heidegger, dopo aver sfruttato abilmente la tematica profonda e l’affascinante semantica del grande danese, ha però esplicitamente respinto le istanze metafisiche e religiose della sua opera. Nell’ultimo saggio dedicato allo scritto di Schel­ling del 1807 sulla libertà, egli contesta la critica di Kierkegaard al «sistema» come non pertinente: 1) perché ha ristretto il significato di «sistema» in filosofia a quello hegeliano e poi di aver frainteso anche questo; 2) perché il suo rifiuto del sistema non ha carattere filosofico ma religioso, ossia ciò ch’egli dice dal punto di vista del credente cristiano contro il «sistema» è anche spiritoso ma filosoficamente senza importanza (belanglos)347. Heidegger considera per suo conto le Untersuchungen di Schelling sull’essenza della libertà come il vertice (Gipfel) della metafisica dell’idealismo tedesco poiché in esse si compie, dopo Fichte ed assieme ad Hegel, la risoluzione dell’essere nel volere (Sein als Wille). E Heidegger cita Schelling: «In ultima e suprema istanza non si dà nessun altro essere che il volere. Il volere è l’essere originario ed a questo volere convengono tutti i predicati del medesimo [essere originario]: abissalità, eternità, indipendenza dal tempo, autoaffermazione. L’intera filosofia aspira soltanto a trovare questa suprema espressione»348.

Anche per Fichte lo spirito è uno e coincide con l’unità dell’essere, ove quindi la collaborazione fra il finito e l’Infinito, fra la creatura e Dio non ha altro senso che come rapporto del fenomeno al noumeno ossia, secondo la terminologia trascendentale, del non essere all’essere. Leggiamo infatti: «Fin quando l’uomo vuol essere ancora qualcosa per se stesso, non si può sviluppare in lui il vero essere e la vera vita; infatti ogni essere proprio è soltanto non essere e limitazione del vero essere; e allora pertanto, o dal punto di vista della sensibilità che aspetta la sua felicità dagli oggetti – pura infelicità, poiché a questo modo nessun oggetto può soddisfare l’uomo; oppure dal secondo punto di vista, della legalità pura­mente formale, certamente nessuna infelicità, ma anche altrettanto meno beatitudine, ma pura apatia (Apathie), freddezza senza interesse ed assolu­ta mancanza di recettività di ogni gioia della vita». L’unica salvezza è nel superamento dell’utilitarismo (inglese?), nel perdere la propria fini­tezza per perdersi – e così salvarsi – nell’Assoluto: «Come invece l’uomo mediante la libertà suprema abbandona e perde la sua propria libertà e autonomia, egli partecipa dell’unico vero essere divino e di tutta la beatitudine che in esso è contenuta»349. È un anticipo della frenesia bacchica del Tutto che annunzierà Hegel, di lì ad un anno, nella «Vorre­de» alla Phänomenologie des Geistes: l’assunzione dell’Uno spinoziano nell’ideale romantico della Vita universale. E Schelling fa un esplicito richiamo alla Sostanza di Spinoza che il principio idealista ha spiritualizza­ta (vergeistigt) ossia riducendola ad energia pura della coscienza. Heideg­ger perciò, da fedele epigono dell’idealismo, fa la riduzione unilineare: essere = volere ed essere = libertà e può perciò dire che affermare la libertà è dichiarare l’unità dell’essere, cioè il panteismo così che libertà e panteismo si corrispondono: «lungi dall’essere il panteismo la negazio­ne della libertà, l’originaria esperienza della libertà esige viceversa il panteismo» (p. 89). Infatti «l’esperienza originaria della libertà implica l’esperienza dell’unità di ogni essente» (p. 83). Ma quest’interpretazione panteistica dell’idealismo conferma la validità e attualità della critica che Kierkegaard ha portato al baluardo del «sistema» ed in particolare alla filosofia hegeliana.

II. Il cogito-volo moderno e la dissoluzione della libertà di scelta secondo la critica di Kierkegaard

Iniziando a rispondere all’accusa di Heidegger diciamo subito pertanto che se è vero che col termine «sistema» Kierkegaard indica di preferenza la speculazione hegeliana, in realtà egli attacca alla radice l’intero indiriz­zo della filosofia moderna a partire dal cogito ergo sum in quanto questo af­ferma l’identità di essere e pensiero e quindi implica, col dubbio assoluto, l’identità di pensare e volere e, di conseguenza, di essere e volere… Da quest’identità, ossia dal nucleo stesso dell’orientamento speculativo del pensiero moderno, Kierkegaard trae la legittima e inevitabile conseguenza che tale filosofia non è tanto da considerare come l’autenticazione della libertà quanto la sua negazione radicale. Kierkegaard infatti, d’accordo in questo con la critica di Feuerbach, interpreta Hegel e l’intero sviluppo precedente del soggettivismo immanentistico – idealista, empirista o razionalista… – come «antropologia» ovvero pseudo-teologia, come filosofia dei fenomeni umani e del loro apparire finito in un mondo finito qual è la natura e la storia dell’uomo ove quindi viene a mancare l’Assolu­to come Persona. E come senza un preciso riferimento all’Assoluto non c’è verità che dirima fra il vero e il falso, così senza un fondamento reale nell’Assoluto non c’è per l’uomo libertà positiva e costitutiva che dirima fra il bene e il male.

Kierkegaard ha considerato l’intero sviluppo della filosofia moderna fino ad Hegel solidale con l’inizio del cogito cartesiano ed è di qui che comincia la sua critica. Io ho un’angoscia per la mediazione, egli confessa. La mia struttura, la mia salute, tutta la mia costituzione non si adattano per la mediazione: chiedo scusa se non riesco a raccapezzarmi con essa. Conosco bene anch’io, confessa, come una filastrocca da bambini, la storia che l’inizio della filosofia moderna è stato con Cartesio e la fiaba filosofica che racconta «come l’errore e il nulla uniscono il loro deficit così che da esso scaturisce il divenire assieme a quella cosa meravigliosa che accadde più tardi nel seguito del racconto, ch’è molto vivace e mosso anche se non è un racconto, ma un puro movimento logico. Tutto questo lo si legge in tedesco e quando lo si legge in Hegel, ecco che spesso ci si volta a far riverenza al Maestro»350.Il nulla hegeliano, insignificante e inconsistente per la vita del pensiero, procede dal dubbio e dal cogito vuoto di Cartesio al quale si richiama ogni passo del pensiero moderno come al suo nuovo Colombo, scopritore dell’io.

Perciò l’accusa complessiva che Kierkegaard lancia all’età moderna è di «disonestà»351:essa ha un senso complesso, teoretico ed etico ad un tempo, come autoinganno e aberrazione. L’autoinganno è alla radice del pensiero moderno e si mostra subito proprio nel cogito ergo sum di Cartesio. Qui Kierkegaard è già nel nucleo essenziale della sua contesta­zione, per la quale Heidegger certamente non ha alcun interesse perché (credo) è stato per lui superato dallo stesso sviluppo del pensiero moder­no. Ma questa autofondazione immanente allo sviluppo del cogito moder­no è una questione per se stessa e non ha avuto ancora una risposta fin quando non risulti fondato quel primo passo, quello del cogito stesso, ch’è precisamente contestato da Kierkegaard. Egli infatti contesta l’identità di essere e pensiero e pone, richiamandosi ai Greci, la priorità dell’essere sul pensiero e la distinzione dell’esistere ch’è un atto di libertà dal pensiero. La soggettività costitutiva dell’Io, e quindi della libertà, non è quella del conoscere ma quella dell’agire: nel conoscere l’uomo resta nel campo oggettivo delle essenze ossia della possibilità (Mulighed) secondo la termi­nologia di Kierkegaard, mentre con l’agire essa si trova cioè «passa» nel campo della «realtà» (Virkelighed). Questa e non quella è perciò la effettiva soggettività, che non può passare (ed esaurirsi) nell’oggettività formale cioè universale ma si sprofonda sempre più in se stessa ossia nell’attuazione della (propria) libertà che ha per soggetto non il pensiero puro, non la Sostanza unica, non la Ragione assoluta o lo Spirito assoluto che sfociano nel panteismo, ma il Singolo ch’è ogni uomo in quanto soggetto di responsabilità della propria libertà. Allora la soggettività reale non è quella conoscente, perché col sapere l’uomo si trova nel medio della possibilità, ma è la soggettività etica esistente. Un pensatore astratto esiste certamente, ma il fatto ch’egli esiste è piuttosto una satira a suo riguardo. Dimostrare la propria esistenza col fatto ch’egli pensa, è una strana contraddizione, poiché in proporzione del grado di astrazione del suo pensiero egli astrae precisamente dal fatto d’esistere. In quanto la sua esistenza diventa chiaramente come un presupposto da cui egli vuole svincolarsi, ecco che con ciò l’astrazione stessa diventa tuttavia una strana dimostrazione della sua esistenza, poiché la sua esistenza cesserebbe per l’appunto se quell’astrazione gli riuscisse appieno. Il cogito ergo sum di Cartesio è stato ripetuto anche troppo. Se s’intende per questo «io» del cogito un uomo singolo, allora la proposizione non dimostra nulla: io sono pensante, ergo io sono; ma se io sono pensante, che meraviglia allora ch’io sia? Ciò evidentemente è stato già detto, e la prima affermazione dice persino di più dell’ultima. Se dunque qualcuno intende l’io, che si trova nel cogito, come un singolo uomo esistente, ecco la filosofia gridare: pazzia, pazzia! qui non si tratta dell’io mio o tuo, ma dell’Io puro. Se non che questo Io puro non può certamente avere altra esistenza che un’esistenza di pensiero. Cosa deve allora significare l’ergo? Qui non c’è alcuna conclusione, perché la proposizione è una tautologia352.Una tauto­logia che indica il vuoto e la perdita del fondamento cioè il nulla.

In questo senso il pensiero moderno è rimasto indietro rispetto all’in­tero paganesimo: l’antico paganesimo, anche se non aveva raggiunto la li­bertà, la cercava e si muoveva soprattutto con l’opera dei filosofi «in dire­zione dello spirito» (i Retning «til» Aand) che fu poi rivelato dal Cristia­nesimo, mentre il pensiero moderno ha fatto l’operazione inversa cioè di an­nientare e mistificare la concezione cristiana in direzione di «abbandonare lo spirito» (Retning «fra» Aand). L’essenza perciò dell’epoca moderna è la «mancanza di spirito» (Aandlosheden) come perdita e mistificazione ad un tempo: «Nella mancanza di spiritualità non c’e alcuna angoscia; essa è troppo felice e contenta e troppo priva di spirito. Ma questa è una ragione molto triste; e qui è il punto in cui il paganesimo si distingue dalla mancanza di spiritualità; quello è determinato come rivolto verso lo spirito, questa invece come allontanantesi dallo spirito. Perciò il paganesi­mo, se si vuole dire così, è assenza dello spirito, ciò ch’è molto differente dalla mancanza di spiritualità. Sotto questo rispetto il paganesimo è di gran lunga da preferire. La mancanza di spiritualità è il ristagno dello spirito e la caricatura dell’idealità»353. Kierkegaard aveva davanti, nel­la cultura ufficiale, la dominante filosofia hegeliana che pretendeva di aver realizzato e fatto progredire il Cristianesimo con la speculazione.

Ma il cogito moderno è impotente a raggiungere la realtà per una ragione ben precisa, perché esso pretende di raggiungere la certezza attraver­so il dubbio: se il pensare è anzitutto dubitare, allora mai l’affermazione del dubbio va compresa qetikw/j e quindi il dubbio non riesce mai a superare se stesso perché il dubbio deve abbandonare ogni certezza per poter dubitare: «Se io voglio continuare a dubitare, non faccio per tutta l’eternità un passo avanti, perché il dubbio continua per l’appunto a rivelare la falsità di quella certezza. Se per un solo momento io mantengo la certezza come certezza, allora per quel momento bisogna ch’io abbando­ni il dubbio. Ma allora non è il dubbio che si abolisce da sé, ma io che cesso di dubitare»354. Perciò il dubbio, da cui prende l’avvio il pensiero moderno, è un falso passo, un’illusione ed un regresso rispetto al pensiero classico, come si legge in un testo preparatorio agli scritti pseudonimi: «È un punto di partenza positivo per la filosofia, quando Aristotele dice che la filosofia comincia con la meraviglia, e non come ai nostri tempi con il dubbio. In generale il mondo deve ancora imparare che non giova cominciare con il negativo, e la ragione per cui fino ad ora il metodo è riuscito, è perché non ci si è mai dati del tutto al negativo, e così non si è mai fatto sul serio ciò che si è detto di fare. Il loro dubbio è una civetteria»355. Si tratta che il dubbio, se deve valere per il primo passo come fondamento, deve poi ripresentarsi e farsi valere ad ogni passo. In altre parole, una volta che l’essenza della coscienza è la negatività, il negativo deve prendere il sopravvento e la coscienza non potrà attuarsi che come negazione del particolare senza trascendere il finito dei singoli atti di negazione del finito (immediato). Non a caso lo stesso Heidegger esce nell’espressione sorprendente, ma coerente, la quale fa a suo modo (fenomenologico trascendentale) il bilancio di tre secoli di pensiero mo­derno, cioè che «l’essere stesso nell’essenza è finito»356. Se infatti il presentarsi dell’essere è l’attuarsi della coscienza (Cartesio), e se la co­scienza si attua di volta in volta mediante la negazione del finito (Spinoza, Hegel), Heidegger si trova perfettamente allineato con Hegel ch’egli cita ed approva espressamente: «Il nulla non rimane l’opposto indeterminato per l’essente, ma si svela come appartenente all’essere dell’essente. – “Il puro essere ed il puro nulla è quindi la medesima cosa” (Wissenschaft der Logik, I Buch, W.W. III., p. 74). Questo principio di Hegel è giusto». E la spiegazione di Heidegger mostra insieme la sua fedeltà allo Hegel essenziale nella radicalizzazione del dubbio ossia del nulla, poiché ciò ch’è il dubbio sotto l’aspetto vuoto o meglio il nulla sotto l’aspetto oggettivo, in Heidegger diventa poi oggettività senza oggetto, perché la verità del Dasein, in Heidegger come in Hegel, si risolve in semplice comportamento (Verhalten, Sein für). Infatti egli spiega subito: «Essere e nulla si appartengono, ma non perché essi coincidono – visti secondo il concetto hegeliano del pensiero – nella loro indeterminatezza e immedia­tezza, ma perché – come già si è visto – l’essere stesso nell’essenza è finito e si manifesta soltanto nell’essere dell’uomo (Dasein) che si è mantenuto fuori nel nulla»357.

Nel recente commento allo scritto schellinghiano sulla libertà Heideg­ger riprende questa sua risoluzione radicale (ch’è anche per noi l’unica legittima) del cogito moderno con la quale egli caratterizza tutto il pensiero dialettico fino a Platone che afferma che «il non-essente è essente»: to. mh.. o’n – o’n. Seguono le posizioni dell’idealismo tedesco: «L’essenza dell’esperienza è l’essenza dell’oggetto di esperienza» (Kant), «L’Io è il Non-Io cioè limitato dal Non-Io» (Fichte), «Io sono la cosa e la cosa e Io» (Hegel). E conclude: «Questi principi filosofici sono dialettici, ciò significa: l’essere che in essi è pensato, dev’essere insieme compreso con il non-essere. Ciò significa: l’essenza dell’essere è in sé finita» (das Wesen des Seyns ist in sich endlich). Di qui l’esigenza da parte dell’idealismo tedesco di ricorrere alla «intuizione intelligibile» come momento complementare della dialettica358.Ovviamente, tolto l’Assoluto metafisico dall’orizzonte del pensiero dell’essere, non resta che la presenza del finito come unica possibile attuazione di presenza della coscienza. In questo senso la «trascendenza» heideggeriana di «esse­re-nel-mondo» si presenta come la forma più radicale dell’immanenza nella guisa di «apertura» (Offenheit) – essenzialmente indeterminata, illimitata… – al finito. Per Kierkegaard invece il dubbio assoluto, l’«Io penso in generale» di Kant, l’Io-Io di Fichte, l’essere vuoto dell’immediatezza di Hegel359 e perciò anche il Sein selbst di Heidegger… sono pure astrazioni, irrealtà inafferrabili.

Per Heidegger quindi, grazie al nulla che sottende il Dasein, la realtà è riportata di volta in volta alla possibilità (come «apertura»), così che libertà e necessità coincidono360.Definito infatti come indirizzato trascen­dentalmente al finito, il suo essere è questo disporsi o darsi in anticipo per un volgersi e rivolgersi di volta in volta. Il contesto heideggeriano è piuttosto ermetico, ma il suo significato è ormai ovvio e per noi importan­te: «Soltanto così, che questo pre-darsi già pre-dato ha in un che di aperto per un che da rivelare che da questo dispone, che lega qualsiasi rappresentare. Il darsi liberamente per una direzione obbligante è possibile soltanto come essere-libero per il manifestarsi di un (che di) aperto. Simile essere libero mostra l’essenza finora incompresa della libertà. Lo stare aperto del comportamento come interna possibilità attiva della esattezza, si fonda nella libertà. L’essenza della verità è la libertà»361. La verità dell’es­sere è il «lasciar(si) essere…» (lassein-sein) dell’essente.

Una siffatta considerazione può essere considerata la risoluzione della tensione fra volontarismo e intellettualismo che ha dominato l’Occidente così che uno neutralizza l’altro poiché lo penetra e l’assorbe nel supera­mento alla radice di ogni dualismo: «La libertà così intesa come il lasciarsi-essere dell’essente riempie e compie l’essenza della verità nel senso del disvelamento dell’essente». In questo senso, quello radicale, la verità non è più la proprietà formale di un giudizio – la pretesa «conformitas intellectus et rei» – ma è la proprietà dell’uomo che «si lascia essere» cioè «ec-siste» e così diventa storico. Affinché la verità-li­bertà attinga l’apertura radicale del disvelamento, il lasciarsi essere dell’es­sente è determinato come il suo comportarsi universale nel tutto: è così che il (manifestare del) lasciarsi essere è insieme in sé un nascondere ed Heidegger può dire che nella libertà ec-sistente si ottiene il nascondimento, essa è il nascondimento. In questo nascondimento si nasconde la possibilità del movimento ch’è l’aprirsi infinito del Dasein dell’uomo in quanto è a sua volta un ritornare (rivolgersi) e un dileguarsi ogni volta nel mistero (Geheimnis) del Tutto e questo rivela, conclude Heidegger, la natura positiva dell’errore e dell’errare (Irrtum, Irre) e la sua appartenenza alla verità: «Il nascondimento dell’essente nascosto nel tutto dispone (waltet) nel nascondimento di volta in volta dell’essente che diventa errore come oblio del nascondimento». L’errore è come in Hegel nel prendere per verità l’evento singolo nel suo isolamento senza riferirsi al Tutto. Di qui l’ultima definizione della libertà-verità: «La libertà, compresa come la ec-sistenza in-sistente dell’esistenza (Dasein) è l’essenza della verità (nel senso di esattezza del porre-innanzi) solo per questo, poiché la libertà stessa procede all’essenza iniziale della verità, alla condotta del mistero nell’errore». L’errore è intrinseco (come esigenza del mistero nel Tutto) alla verità e costitutivo della possibilità della sua storicità e apertura illimitata. È questo anche il punto di arrivo del cogito nell’ultima sua purificazione come attuarsi puro dell’esistente al di là e al di qua di ogni dualismo ed opposizione.

III. Le tappe della dissoluzione moderna della libertà e la ripresa kierkegaardiana

La critica kierkegaardiana aggredisce il pensiero moderno nelle sue istanze fondamentali sotto l’aspetto sia morale come metafisico: proce­diamo in modo schematico.

1. La filosofia moderna in generale, e quella hegeliana in particolare, manca delletica. Si tratta che per Kierkegaard, come per Aristotele e S. Tommaso, la destructio ethicae va di pari passo nella filosofia moderna con la destructio metaphysicae, ch’è immanente al cogito-volo, la quale «libera» l’uomo da ogni rapporto di dipendenza dall’Assoluto e perciò da ogni legge e da ogni sanzione trascendente, fuori delle quali il «dovere» resta un’istanza formale vuota: «Kant pensa che l’uomo sia a se stesso la sua legge (autonomia), cioè, che si leghi alla legge ch’egli stesso si è data. Ma con ciò si pone in sostanza, nel senso più radicale, la mancanza di ogni legge e il puro sperimentare. Questa diventerà una cosa così poco seria, come i colpi che Sancio Panza si dà sulla schiena. È impossibile che in A io possa essere effettivamente più severo di quel ch’io sono in B o che possa desiderare a me stesso di esserlo. Se si deve fare sul serio, ci vuole costrizione. Se ciò che lega, non è qualcosa di più alto dell’Io stesso e tocca a me legare me stesso, dove allora come A (colui che lega) dovrei prendere la severità che non ho come B (colui che dev’essere legato), una volta che A e B sono il medesimo Io?»362.Senza trascendenza teologica non si dà nessun dovere assoluto perché non c’è nessuna legge universale: c’è solo la legge che l’uomo dà a se stesso363. La rivendicazione dell’asso­lutezza dell’ordine morale contro l’invasione del relativismo della storia costituisce il leitmotiv della contestazione d’immoralità che Kierkegaard fa al pensiero moderno: l’opposizione ostinata e sprezzante di Heidegger al richiamo del fondamento dell’Assoluto da parte del filosofo danese ne è la conferma. A questo si riferisce l’accusa di disonestà che Kierkegaard fa alla filosofia moderna in quanto ciò significa – si badi bene! – mancanza di primiti­vità, di originarietà. Anch’egli vede come Heidegger, ma con movimento opposto, la solidarietà di etica (libertà) e verità. È la diagnosi ostinata del saggio citato: La dialettica della comunicazione.

L’errore del pensiero moderno è l’identificare il sapere col potere: «Cos’è in verità l’etica? Già, fin quando interrogo in questo modo, io pongo il problema dell’etica in modo non-etico come tutta la confusione dell’epoca moderna e allora io non la posso fermare. L’etica presuppone che ogni uomo conosca cos’è l’etica. E perché? Perché l’etica esige che ogni uomo in ogni momento la debba realizzare; allora egli anche la conosce. L’etica non comincia con l’ignoranza che dev’essere trasformata in sapere, ma comincia con un sapere ed esige un realizzare. Si tratta qui di essere assolutamente coerenti: basta una sola esitazione nella condotta, ed eccoci preda della confusione moderna»364. A questo punto Kierkegaard distingue due livelli o piani dell’etica, quello dell’etica naturale ossia dell’umano-generale dove ogni uomo sa naturalmente che cosa comporta l’etica e quello dell’etica cristiana dove «l’uomo come tale» non sa da sé che cosa comporta la religione, poiché il cristianesimo è una religione rivela­ta: qui allora «occorre una piccola comunicazione di sapere» – e per questo bastano la Bibbia e il Catechismo – ma poi ritorna la stessa situazione sull’istanza etica, cioè l’impiego di attuare nella propria vita il Vangelo come imitazione del Modello (Cristo). Di qui Kierkegaard coin­volge nella stessa denunzia (di solidarietà) la filosofia moderna amorale cioè indifferente alla distinzione fra il bene e il male e la Cristianità stabilita ch’è indifferente all’imitazione del Modello: «Finora si è educa­to il genere umano nel Cristianesimo come (se si trattasse di) in un sapere (il primo corso) e poi il secondo corso ancora come in un sapere» (p. 379). Quest’impegno per l’ideale è e costituisce per Kierkegaard il «raggiunge­re la realtà» (at naae Virkeligheden), ovvero l’essere nel «medio della realtà» (Virkelighedens Medium) ciò «a cui sia l’antichità come il Cristianesimo pensava e che praticavano: l’essere per la folla, il vivere e insegnare per le strade» (p. 387). Perciò «tutta la scienza moderna intorno all’etica, dal punto di vista etico, è una scappatoia. L’etica è stata soprattutto trascurata nella scienza moderna – ma specialmente manca qui del tutto un moralista esistente. La conseguenza è stata che alla fine ci si è completamente dimenticati di cos’è la verità e per colpire la serietà la si considera per stranezza, che porta all’autoconoscenza, strappa uno dalle illusioni; mentre ogni comunicazione del sapere è presa per serietà – e tuttavia ogni nuova comunicazione non fa che fornire nuovo incentivo per la malattia» (p. 367). Il cardo quaestionis dell’eliminazione moderna dell’etica è di scambiare (e identificare) la comunicazione oggettiva (del sapere) con la comunicazione soggettiva (del potere = libertà).

2. Letà moderna manca dingenuità, di primitività: è questa una conseguenza e la denunzia insieme dell’errore precedente. Quando una vita si presenta all’inizio con molte premesse e poi si mette subito a combinar­le in grovigli così imprevedibili ch’è impossibile parlarne, una simile vita è disonestà ed è in questo senso, precisa Kierkegaard, che si deve parlare di «una mancanza d’ingenuità dell’età moderna» (den moderne Tids Mangel paa Naivitet). Il segno di siffatta mancanza è nella pretesa della scienza moderna d’insegnarci ad abolire la categoria dell’individualità per sosti­tuirla con quella della generazione: per dissipare una siffatta confusione l’unico rimedio è l’istanza etica, ma di etica appunto Hegel non s’intende­va affatto (p. 393). E, per quanto sappia, dell’esigenza etica e della stessa etica in generale nel nietzschiano Heidegger non è rimasto più neppure il nome.

Anche se sembra strano accusare di disonestà (mancanza di «primiti­vità») un pensiero come quello di Hegel che si richiama sempre al fondamento (Grund) o come quello di Heidegger che pone a principio l’esigenza dell’origine (Ursprung) e del «ritorno al fondamento» (Rück­gang in den Grund), il fatto è che dopo Hegel la perdita dell’etica diventa inevitabile e la disonestà ha libero corso «poiché egli scoprì il metodo storicizzante che abolì del tutto ogni primitività» (p. 394), quel metodo che ha portato Heidegger ad equiparare l’essere al tempo (Sein und Zeit) e ad eliminare l’eternità365: ecco allora sorgere dovunque ed imporsi come una marea inarrestabile «la stupidità, l’invidia, la sciat­teria, l’odio, ecc.» (p. 396). La critica di Kierkegaard non colpisce quindi solo Hegel né si ferma al «sistema», come fraintende Heidegger, ma coglie il pensiero moderno alla sua radice denunziando la perdita di ogni valore etico e religioso, della dignità morale della persona e del suo rapporto a Dio. Il primitivo non consiste nella quantità ma nella qualità, non nell’oggettività ma nella soggettività: «Anch’io so quel che ogni persona colta sa sulla Cina, sulla filosofia orientale, greca e moderna da Cartesio a Hegel e sulla filosofia moderna tedesca da Kant a Fichte jr. Se ora volessi parlarne, avrei molte cose da dire» (p. 409). Il problema allora, incalza Kierkegaard contro Hegel e l’idealismo, non è di dissolvere l’individuo nel Soggetto impersonale; non è neppure, potrebbe dire contro Heidegger, di concepire e dissolvere l’uomo nella dimensione orizzontale del tempo. Questo accade in Hegel – come ha mostrato Kierkegaard – e si ripete in Heidegger – aggiungiamo noi – perché essi hanno svuotato all’inizio l’essere dell’ente riportandolo al nulla cioè riducendolo al puro pensare.

Approfondiamo un po’ l’istanza kierkegaardiana della primitività, poi­ché si tratta di un punto capitale ch’è sfuggito per lo più agli interpreti. Chi è veramente primitivo non si preoccupa tanto della storia universale, della storia degli Stati…, quanto d’indagare cos’è l’uomo e di pensare che ci furono già prima altri uomini. Chi è più primitivo, continua Kierke­gaard, non pensa tanto a sposare, quanto si sprofonderà forse nella riflessione su ciò che comporta nella realtà lo sposarsi, a tal punto che finirà per non sposarsi mai. Parimenti un uomo che non ha molta primitività, potrà forse riflettere sull’impiego ch’egli deve cercare: oppure se ha scelto una determinata carriera, p. es. quale nomina sceglierà, se nello Jutland, o a Fy o nella Capitale. Chi è più primitivo si sprofonderà forse nell’altra questione: se questo modo di esistenza è essenziale per l’uomo, a tal punto che non arriverà mai ad ottenere un impiego. Così chi è meno dotato di primitività probabilmente, costui è convinto ch’è una cosa evidente ch’egli è cristiano ed ora si occupa del problema di mettere in ordine la situazione ecclesiastica. Chi invece è più primitivo, costui si sprofonderà forse a tal punto nel problema se egli deve o non assumere il Cristianesimo, che non trova tempo per riformare la Chiesa (p. 409s.).

Questa è l’ultima istanza, la più importante e decisiva certamente, ma non la prima e l’unica come suppone Heidegger nella sua accusa soprariferita. Quest’istanza per un credente come Kierkegaard pone anche l’impegno più radicale della primitività. Ecco l’istanza ch’è insieme l’atto di accusa di disonestà dei tempi moderni: cioè la richiesta che pone il Vangelo ad ogni uomo dopo Cristo e la schermaglia degli uomini per esimersi ad ogni costo. Come andrebbero le cose, si chiede Kierkegaard, per colui che prendesse senz’al­tro sul serio il precetto del Cristianesimo di «cercare prima di tutto il Regno di Dio»? Forse che non verrebbe presto a trovarsi abbandonato e infinitamente distanziato da tutti gli altri! Perché gli altri, essi si arrangiano, ognuno prende la sua parte del finito, e prende probabilmente la prima parte; invece quel poveraccio di lumacone religio­so, egli si sprofonda sempre più per afferrare il senso di quel «prima di tutto il Regno di Dio». Ed anche se egli non arriva al Regno di Dio, ciò avrà sempre per conseguenza che la sua vita sarà provata negli scrupoli della vita cristiana; perché presto, assai presto egli sarà deriso, vilipeso, schernito, sarà ridotto a un nulla – e si sarà del tutto certi sul serio di cercare prima di tutto il Regno di Dio – e privo di tutto, cioè senza attaccarsi a nulla di finito – e può essere sicuro se sul serio cerca prima di tutto il Regno di Dio. Allora questo cercare prima di tutto il Regno di Dio è in fondo la vera primitività. Ma come il malanno fondamentale dei tempi moderni è di trasformare tutto in oggettività, così la disgrazia fondamentale dei tempi moderni è la mancanza di primitività da cui segue naturalmente che gli uomini in fondo non arrivano a porsi la questione primitiva. E in questo consiste ciò ch’io vorrei chiamare la disonestà dei tempi moderni. È innegabile che l’espediente più comodo e più sicuro è quello di attenersi alla tradizione, di fare come gli altri, di opinare, pensare, parlare come gli altri e, quanto prima tanto meglio, di attaccarsi agli scopi finiti. Ma la Provvidenza non è stata mai di questo parere. Ogni esistenza umana deve avere primitività. Ma l’esistenza primi­tiva contiene sempre una revisione del punto fondamentale. Questo si vede nel modo più chiaro in un genio primitivo. Qual è il significato di un genio primitivo? Non è tanto quello di portare qualcosa di assolutamente nuovo, perché in fondo non c’è nulla di nuovo sotto il sole, quanto quello di fare la revisione dell’umano generale, delle questioni fondamentali. Questo è, in un senso più profondo, onestà. E conclude risoluto: «È invece mancare completamente di primitività, e quindi del compito della revisione, prendere senz’altro tutto come usi e costumi dati, e dunque sottrarsi alla responsabilità per fare come gli altri: ecco la disonestà» (p. 411)366.Tale è perciò ogni pensiero impersonale ed ogni storicismo sia hegeliano, come marxista ed esistenzialista, perché hanno tolto la dialettica di «sapere» e «potere», di oggettività e soggettività, di intelletto e volontà, di necessità e libertà, di legge e coscienza, di esterno ed interno.

Heidegger ha inciampato male con Kierkegaard fin da Sein und Zeit (1927): egli sembra apprezzare solo il Concetto dellangoscia (p. 190) che stravolge però a suo modo cioè strappandolo all’orizzonte teologico del peccato originale in cui Kierkegaard muove le sue analisi. Quanto invece al problema dell’esistenza (p. 235) Kierkegaard l’avrebbe afferrato soltanto sotto l’aspetto tradizionale, (als existentielles), mentre la problematica esistenziale (die existentiale Problematik: quella di Heidegger!) gli è così estranea ch’egli sotto l’aspetto ontologico è completamente sotto il domi­nio di Hegel e della filosofia antica com’è vista da lui. Perciò c’è molto più da imparare dai suoi scritti edificanti «che non da quelli teoretici» (p. 235). Si può subito chiedere anzitutto: perché Heidegger non si è allora rivolto agli Opbyggelige Taler, qui lodati? E poi, com’è che qui nel 1927 considera Kierkegaard completamente coperto dall’ombrellone di Hegel, mentre nel testo schellinghiano del 1971 lo accusa di non aver capito Hegel? Certo Heidegger condivide la ripugnanza di Hegel per l’edificante367 e non può ammettere che Hegel possa essere compreso e tanto meno criticato fuori della terra tedesca. Ma andiamo avanti. L’as­serzione citata di Heidegger è fitta di errori così manifesti che si possono spiegare solo con la sufficienza heideggeriana di considerare superato nella storia del pensiero tutto ciò che lo ha preceduto. Infatti la problematica kierkegaardiana dell’esistenza è direttamente in antitesi a quella di Hegel e all’interpretazione che Hegel dà del pensiero greco: – 1) infatti Kierkegaard mediante tutti gli pseudonimi e fin da Aut-Aut polemizza con i capisaldi dell’hegelismo, affermando la trascendenza metafisica dell’Assoluto come propria della religiosità A ed il valore primario della risoluzione o «scelta» religiosa in contrasto col cogito moderno e con la teoria del Geist assoluto hegeliano distruttiva della dignità dell’uomo come persona responsabile ossia del «Singolo davanti a Dio». – 2) Kierkegaard si è for­mato al pensiero greco («sono stato educato al pensiero dei Greci!») sia direttamente sui testi soprattutto di Platone e Aristotele, con la guida pri­ma del Tennemann e poi specialmente di Trendelenburg368, già collega di Hegel a Berlino e poi suo massimo critico: ogni mediocre conoscitore di Kierkegaard conosce bene tutto questo. – 3) Kierkegaard fin dal 1841 (Tesi sullironia) e soprattutto a partire dal 1843 ha preso per modello nella sfera umana naturale il «semplice saggio» ch’è Socrate in un senso diametralmente opposto a quello di Hegel anche se confessa di aver subito (nella tesi sull’ironia) il suo influsso. Più avanti Heidegger ripete la stessa critica anche per il concetto di «momento» in Kierkegaard, ma senza portare alcun riferimento testuale369.Egli afferma che «Kierke­gaard ha visto in modo quanto mai penetrante il fenomeno del “momento” ma che non gli è riuscito (di dare) un’interpretazione esistenziale corri­spondente». Egli, secondo Heidegger, rimane legato al concetto volgare di tempo e determina il «momento» con l’aiuto di «ora» ed «eternità». Quando Kierkegaard parla di «temporalità», egli significa l’«essere-nel-­tempo dell’uomo. Il tempo come temporalità interiore conosce solo lo “ora”, ma non un momento. Ma se questo è sperimentato esistenzialmente (existenziell), allora è presupposta una temporalità più originaria, anche se inesprimibile come esistenziale» (p. 338). Certo, quest’esistenziale di cui Heidegger si fa forte e con lui l’esistenzialismo ateo tedesco e francese, è quello che si fonda sull’apriori spazio-temporale di Kant, così da interpre­tare ormai la storicità hegeliana senza residui teologico-metafisici, come già un secolo prima aveva rivendicato il modesto ma onesto Feuerbach.

La dialettica di Heidegger resta perciò quantitativa, mera successione di finito a finito. La dialettica di Kierkegaard è qualitativa ossia del rapporto sempre aperto fra finito e Infinito, fra tempo ed eternità e perciò tensione reale di libertà fra vero e falso ed in ultima istanza fra bene e male dell’uomo reale, cioè storico ch’è il Singolo davanti a Dio. Della libertà come responsabilità morale, come principio di formazione della persona e fonte di speranza per trascendere la durezza della morte e l’in­giustizia del tempo in Heidegger non c’è traccia quasi meno ancora che in Feuerbach e Marx. Questi sono ancora e vogliono essere uomini vivi e cer­care la comunicazione con uomini vivi: l’uomo di Heidegger è ridotto ad un es impersonale, ad un soggetto incapace di dirsi io, ad una cosa che si «lascia essere». Heidegger ha reso impossibile, perché insignificante, il concetto stesso di libertà.

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340 G. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte…, Einleitung; ed. Hoffmeister, Leipzig 1944, S.W., Bd. XV, p. 63. Cf. in forma più concisa e precisa il testo già citato: Enzyklopädie…, § 482.

341 G. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte…; ed. Michelet, p. 89. Il tema della «morte di Dio» nell’uomo (Gesù Cristo) è centrale per afferrare la vis theoretica della negatività nella speculazione hegeliana; esso appare sia nel saggio Glaube und Wissen del 1802, sia nella Phänomenologie des Geistes del 1807 (cf. C. Fabro, Introduzione allateismo…, t. I, p. 630s.).

342 G. Hegel, Enzyklopädie…, Vorwort zur dritten Ausgabe; ed. Nicolin-Pöggeler, p. 26. Secondo il Lasson qui Hegel si riferisce alla controversia fra la Kirchenzeitung del teologo Hengstenberg e i fautori del razionali­smo dell’Università di Halle (cf. E. Metzke, Hegels Vorreden, Heidelberg 1959, p. 249).

343 «Der abstrakte Begriff der Idee des Willens ist überhaupt der freie Wille, der den freien Willen will» (G. Hegel, Grundlinien…, § 27; ed. Hoffmeister, p. 44).

344 G. Hegel, Grundlinien…, §§ 4 e 7; ed. cit., pp. 28s., p. 32.

345 Cf. G. Krüger, «Christlicher Glaube und existentielles Denken», in Festschrift R. Bultmann, zum 65. Geburtstag überreicht, Stuttgart und Köln 1949, p. 171. – L’idealismo metafisico ha ripreso la tattica che gli Alessandrini e Giuliano l’Apostata (che Hegel rievoca) avevano applicato alle divinità del culto greco, cioè di considerarle come aspetti della razionalità e dell’unità del finito con l’Infinito. Così anche Hegel scrive: «L’identità del soggetto [l’uomo] e Dio viene nel mondo quando il tempo fu compiuto: la coscienza di questa unità è il conoscere Dio nella sua verità» (Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte; ed. Lasson II, p. 733s.). L’espressione hegeliana: «l’unità dell’uomo e di Dio» (die Einheit des Menschen und Gottes) nel senso dialettico che «… lo spirito finito è anche posto come un momento di Dio» (der endliche Geist ist somit selbst als ein Moment Gottes gesetzt) distrugge alla radice non solo tutti i dogmi del Cristianesimo ma la stessa distinzione (e opposizione) reale fra Dio e l’uomo. La fede cristiana distingue fra natura e persona: in Cristo vi sono due nature distinte in una Persona divina e perciò si parla di «unione ipostatica» e non d’unità che sarebbe la negazione in radice del messaggio cristiano della salvezza.

Questa mistificazione era stata energicamente denunziata con vigore in campo cattolico contro Hegel e le scuole hegeliane: «Und in der That, wenn Hegel die christliche Religion die absolute nennt… er sieht in ihr nur eine gewisse Acclamation zu seinem noch viel höhern System, das sich zum christlichen herabläst wie das Esoterische zum Exoterische» (F. A. Staudenmaier, Darstellung und Kritik des Hegelschen Systems, Mainz 1844, p. 24).

346 S. Kierkegaard, Diario 1838, II A 752; ed. P. Heiberg og V. Kuhr, Copenaghen 1910, p. 257; tr. it., nr. 622, t. II, p. 204.

347 M. Heidegger, Schellings Abhandlung…, p. 29. Alla posizione di Kierkegaard viene preferita da Heidegger quella di Nietzsche.

348 W. Schelling, Philosophische Untersuchungen…, S.W., Abt. I, Bd. VII, p. 350.

349 J. G. Fichte, Die Anweisung des seligen Lebens, Neunte Vorlesung; ed. Medicus, Bd. V, p. 235s. Il passo decisivo dell’idealismo rispetto a Kant è l’unificazione della ragion teoretica e della ragion pratica: «Das Begreifen ist eine freie und als frei gesetzte Reflexion auf die vorhin abgeleitete Anschauung» (J. G. Fichte, Aus der Halli­schen Nachschrift der W.-L., § 9, apud: E. Hirsch, Die idealistische Philosophie und das Christentum, Gütersloh 1926, p. 303).

350 S. Kierkegaard, Forord, Morskablaesning for enkelte Staender efter Tid og Leilighed, af Nicolaus Notabene, 1844, nr. VII (S.V. V, p. 53s.). La critica al falso passo di Cartesio, e quindi all’indirizzo di tutto il pensiero moderno, è uno dei motivi costanti da Aut-Aut di Victor Eremita fino ad Anti-Climacus nel quale si legge che «… cogito ergo sum ossia che pensare è essere (at taenke er at vaere) è tutto il segreto della filosofia moderna» (S.V. XI, p. 320). Ora Sygdommen til Döden, che contiene questa dichiarazione, è da almeno mezzo secolo accessibile in lingua italiana, come ora le altre opere principali di Kierkegaard e presenta l’analisi più profonda del problema della libertà nella sua radice metafisica contro la vanificazione hegeliana che Kierkegaard aveva già denunziato nel Concetto dellangoscia e nella Postilla conclusiva non scientifica.

351 Kierkegaard usa l’espressione «den moderne Tids Uredelighed», e spiega fra parentesi: «disonestà – auto-inganno – aberrazione» (le indicazioni sono prese dal saggio incompiuto: Den ethiske og den ethisk-religieuse Meddelelses Dialektik, del 1847. Si trova in Diario VIII2 B 79-89, pp. 143-190; tr. it. di C. Fabro in Scritti sulla comunicazione, Roma 1979, t. I, p. 53ss.).

352 Così nella Postilla…, P. II, Sez. II, c. 3: La soggettività reale, quella etica; il pensatore soggettivo; S.V. VII, p. 304; Opere, p. 423ss. – Il principio di Cartesio: «Io penso, dunque sono», è, a lume di logica, un gioco di parole; poiché quell’ “io sono” non significa altro logicamente se non: “io sono pensante”, ovvero “io penso”» (Diario 1844, V A 30; tr. it., nr. 1007, t. III, p. 125). Sulla solidarietà fra l’ateismo e il cogito, cf. ora C. Fabro, «L’ateismo ieri e oggi», Asprenas 3 (1980) p. 217s.

353 S. Kierkegaard, Il concetto…, c. III, § 1: L’angoscia della mancanza di spiritualità; S.V. IV, p. 402; tr. it. di C. Fabro, Firenze 1953, p. 118. Cf. l’analisi magistrale di G. Malantschuck, Frihedens Problem i Kierkegaards Begrebet Angest, Copenaghen 1971, spec. p. 58ss.

354 S. Kierkegaard, Postilla…, P. II, Sez. II, c. 3, § 2; S.V. VII, p. 324; tr. it., Opere, p. 443 nota.

355 S. Kierkegaard, Diario 1841-42, III A 107; tr. it., nr. 724, t. III, p. 28. – In questo periodo d’intensa riflessione Kierkegaard abbozza un vasto saggio critico sul «dubbio»: Johannes Climacus ovvero De omnibus dubitandum est (Diario 1842-43, IV B 1, pp. 103-182). Dopo una brillante Introduzione autobiografica (p. 104ss.; tr. it., nr. 952, t. III, p. 100ss.), egli abbozza i primi tre capitoli di critica al pensiero moderno: «1-2. La filosofia moderna comincia col dubbio; 3. Si deve aver dubitato per riuscire a filosofare» (p. 116ss.) e viene progettata e iniziata anche una Pars secunda (p. 141) non più polemica ma costruttiva. Questo scritto ha servito di preparazione alla grande Uvidenskabelig Efterskrift del 1846.

356 M. Heidegger, Was ist Metaphysik?5, p. 35. L’ultimo Heidegger fa il discorso completo della riduzione della finitezza dell’essere e dalla dialetticità del pen­siero deduce la finitezza dell’essere ponendo in successione le varie formule: Il non-ente è essente (Platone). L’essenza dell’esperienza è l’essenza dell’oggetto di esperienza (Kant), L’io è il non-io (Fichte), Io sono la cosa e la cosa è io (Hegel). Di qui la conclusione: «Diese philosophischen Sätze sind “dialektisch”, das heisst: Das Seyn, das in ihnen gedacht wird, muss immer zugleich als Nichtsein begriffen werden. Das bedeutet: Das Wesen des Seyns ist in sich endlich» (M. Heidegger, Schellings Abhandlung…, p. 99).

357 M. Heidegger, Was ist Metaphysik?5, p. 36. Cf. anche il nostro «Notes pour la fondation métaphysique de l’être», Revue Thomiste 2 (1966) pp. 214-237 – ora nel vol. Tomismo e pensiero moderno, Roma 1969, p. 291-317.

358 «Die intellektuelle Anschauung im Sinne des deutschen Idealismus und die von ihm ausgebildete Dialektik schliessen sich nicht aus, sondern fordern sich gegenseitig» (M. Heidegger, Schellings Abhandlung..., p. 99).

359 Cf. S. Kierkegaard, Postilla…, P. II, Sez. II, c. 2; S.V. VIII, p. 174ss.; tr. cit., p. 360ss.

360 È la precisa accusa ch’era già stata fatta ad Hegel da un vecchio critico, profondo conoscitore dei testi hegeliani: «Hegel kennt keine Freiheit, welche wirkliche Freiheit ist, die als Vermögen der Wahl angesehen wird; da, wo im Begriffe Alles zum Voraus innerlich schon bestimmt ist, da kann bei der Selbstentfaltung des Begriffs jedes nur so hervogehen, wie es im Begriff enthalten ist, und eben so muss es in denselben wieder zurückkehren». E l’acuto critico anticipa la definizione che darà Heidegger della verità: «Das, was Hegel, das Wahre nennt, ist ihm auch das Freie» (F. A. Staudenmaier, Darstellung und Kritik…, p. 458s.). In questo concorda anche un vecchio hegeliano: «Hegel versteht nämlich hier unter Vernunft eben so sehr die Freiheit… Vernunft und Freiheit sind folglich ebensowohl, Inhalt als Form der Geschichte, und eine Geschichte zu haben, liegt im Begriffe des menschlichen Geistes» (K. Rosenkranz, Kritische Erläuterungen des Hegelschen Systems, Königsberg 1840; rist. Hildesheim 1963, p. 154).

361 Seguo: M. Heidegger, Vom Wesen der Wahrheit, § 4, ed. cit., p. 14ss.

362 S. Kierkegaard, Diario 1849-50, X2 A 396; tr. it., nr. 2771, t. VII, p. 70.

363 Vale perciò solo la legge del più forte – di Napoleone per il sistematico Hegel, di Hitler per l’asistematico Heidegger…: di qui si può spiegare anche la sua ade­sione al nazismo.

364 S. Kierkegaard, La dialettica della comunicazione etica ed etico-religiosa, tr. cit., p. 369.

365 Giustamente un attento commentatore osserva che Heidegger nel Vom Wesen der Wahrheit interpreta la verità dell’essere (come «libertà») «… com’essa è nel plesso temporale e storico; quindi temporale» com’era già stata indicata in Sein und Zeit (V Aufl., p. 19. È un ritorno a Kant che diventa più eplicito: cf. Kants These über das Sein, 1963; Zur Sache des Denkens, 1969, p. 10ss.). Ma il medesimo autore constata che la questione del rapporto di essere-vita in Heidegger non è ancora stata portata a termine (O. Pöggeler, Der Denkweg Martin Heideggers, Pfullin­gen 1963, p. 98).

366 L’accusa di «disonestà» (Uredelighed) è estesa nei Papirer dell’ultimo periodo di compromessi della «Cristianità stabilita» (Cf.: XI1 A 474, p. 364s.: il suo compito è stato di «portare un po’ di onestà»; XI2 A 433, 13 sett. 1855, p. 426; tr. it., nr. 4476, t. XII).

367 «Die Philosophie aber muss sich hüten, erbaulich sein zu wollen» (G. Hegel, Phänome­nologie des Geistes, Vorrede; ed. Hoffmeister, Leipzig 1937, p. 14).

368 Cf. A. Trendelenburg, Logische Untersuchungen, c. 3: Die dialektische Methode; Die logische Frage, Leipzig 18622, Bd. I, p. 36ss.

369 Ha attaccato fra gli altri duramente Heidegger su questo punto spec. W. Perpeet, Kierkegaard und die Frage nach einer Aesthetik der Gegenwart, Halle an der Saale 1940, p. 105. Cf. anche V. Lindström, Stadiernas Teologi…, p. 80 nota.

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