II. La dialettica d’intelligenza e volontà nella costituzione esistenziale dell’atto libero

Prologo: senso e limiti della questione

È una controversia che dura quanto il pensiero cristiano, quella fra il primato dell’intelletto o della volontà70: non è di questo che intendo parlare, anche se ovviamente l’argomento sarà toccato ma di scorcio come evn pare,rgw| (Metaph., lib. XII, c. 9, 1074 b 36).

L’oggetto della presente ricerca o tentativo di ricerca è più modesto ed elementare, il dubbio cioè se nella posizione e soluzione del problema della libertà negli autori scolastici – e qui si considera il più autorevole e giustamente il più apprezzato – non ci sia qualche esigenza di fondo che ora, dopo lo sviluppo del pensiero moderno, emerge con maggiore eviden­za generando perplessità e qualche disagio spirituale sul piano sia natu­rale come soprannaturale. È mia modesta ma ferma convinzione che l’origine della controversia storica più clamorosa, quella fra la scuola domenicana che punta sull’intelletto e quella francescana (spec. scotista) che preferisce la volontà, è dovuta al «clima ideologico» del tempo – se così si può dire – in quanto la riflessione ha accentuato l’aspetto formale (il rapporto delle facoltà all’oggetto) lasciando nell’ombra il soggetto reale ch’è la persona concreta ovvero il singolo esistente, come «io» per­sonale, quale principio esistenziale incomunicabile-comunicante nel suo doppio rapporto, cioè al mondo e a Dio. Anche sulla realtà dinamica della «persona» gli Scolastici si sono limitati di solito a considerazioni di tipo metafisico-formale. Lo stesso S. Tommaso, quando afferrò per un momento l’importanza del soggetto singolo spirituale [cioè quando volle rompere il cerchio dell’immanenza averroistica, si fermò]i di preferenza allo hic homo (sin­gularis) intelligit. Ma lo hic homo singularis opera in situazione (vult) come un tutto ch’è appunto la persona concreta nel suo tempo storico. E con­creto diventa allora il rapporto del singolo al fine ultimo come oggetto di realtà concreta e decisione di libertà.

Hegel, fra i moderni, riconosce espressamente al Cristianesimo il merito della scoperta dell’autentico concetto di libertà: «Intere parti del mondo, l’Africa e l’Oriente, non hanno avuto quest’idea, i Greci e i Romani, Platone e Aristotele, non l’hanno avuta. Essi sapevano al contra­rio che l’uomo è realmente libero mediante la nascita (come cittadino ateniese, spartano ecc.) o per forza di carattere, per educazione, mediante la filosofia (il saggio è libero anche come schiavo e in catene). Quest’idea è venuta al mondo mediante il Cristianesimo secondo il quale l’individuo ha come tale un valore infinito, poiché esso è oggetto e scopo dell’amore di Dio, è determinato ad avere con Dio come spirito il suo rapporto assoluto, di avere abitante in sé questo spirito cioè che l’uomo è determinato in sé per la suprema libertà»71. Solo che Hegel stesso poi sottrae col suo monismo panenteistico (l’unificazione dell’uomo con Dio) ogni consistenza al singolo di fronte a Dio, come agenti distinti e pertanto in relazione, unifi­cando la loro azione nella libertà oggettiva assoluta dello Stato72.I Padri, che pur conservano quest’aspetto della sociologia classica, hanno tuttavia camminato di preferenza nel solco speculativo di Platone, e gli Scolastici han­no diviso le preferenze fra Platone e Aristotele. Ma gli uni e gli altri sapevano che la dignità fondamentale dell’uomo aveva la sua origine nella dignità dell’anima creata ad immagine di Dio: un principio al quale S. Tommaso, come vedremo, si richiama espressamente, tramite il Damasceno. Ma si ha l’impressione che la concezione tomistica abbia forse sentito più vivamente l’attrazione dell’intelligenza dello «hic homo intelli­git», lasciando scoperta o nell’ombra la zona dello «hic homo vult, eligit, amat…» che è il campo in cui si decide il senso e l’esito della vita dell’uomo. Soprattutto dopo il Vaticano II, il tema della libertà è diventato un «punto intensivo», non solo nelle discussioni politiche e ideologiche sempre in atto, ma anche nella teologia e nella vita della Chiesa (libertà del cristiano maturo, libertà d’insegnamento, libertà di fede, «Teologia della liberazione» nel Sud-America ecc.)73.Ma quanti equivoci!

È specialmente con S. Paolo e S. Giovanni che il tema della libertà diventa centrale nel NT (Rm 7; Gal 5,1; Gv 8,36) come vittoria che il credente ottiene in Cristo dal peccato, dalla Legge e dalla morte; così, mentre nel mondo antico la libertà è un privilegio sociale e politico, per S. Paolo l’essenza dell’uomo è la libertà (Rm 8,37; 1Co 6,12), non quella che si realizza nel conoscere (qewri,a) bensì quella che si attua nell’amore di Dio e nell’amore del prossimo – è questa la libertà dei «figli di Dio» in Cristo74.L’uomo, creato ad immagine di Dio ab­bandonò il suo creatore per diventare schiavo del peccato e lasciarsi domi­nare dagli «elementi di questo mondo»: il cristiano invece è liberato dal­l’angoscia dell’esistenza per la grazia di Cristo75 il quale per noi è morto e risorto. Qui allora la dialettica è fra natura (quella corrotta dal pecca­to) e grazia, fra ragione e fede, al livello della salvezza per la vita eterna: dialettica della trascendenza. Essa presuppone ed anche comprende la dia­lettica dell’immanenza fra intelletto e volontà che S. Tommaso, richiaman­dosi ad un suggestivo testo aristotelico, risolve nell’immanenza cioè in un incontro misterioso fra Dio e l’anima, al di là (sembra) della soglia della coscienza, come si dirà.

È forse la presenza di Dio – per essentiam, per potentiam, per praesentiam –, quella che Taulero metteva nel fundus animae?76

La polemica del primato fra intelletto e volontà non è puramente accademica: essa ha diviso, e forse divide tuttora, le scuole domenicana e francescana ed è arrivata fin sulla soglia del pensiero moderno il quale, unificando nell’identico atto creativo le due funzioni fondamentali della coscienza, ha tolto ogni pretesto di controversia. Uno storico apprezzato della filosofia moderna dà la seguente formula dell’intellettualismo: «Co­me il conoscere così il volere, come l’intelligenza così la volontà»77. È la formula del determinismo intellettualistico: l’intelletto, aggiunge infatti Fischer, prescrive e la volontà attua, quello comanda e questa esegue. Ma se la situazione del rapporto fra intelletto e volontà fosse in questi termini, il problema della libertà è risolto-dissolto in partenza: la libertà di scelta diventa un’illusione psicologica, una convinzione illusoria, un’a­spirazione vuota – libertà e spontaneità coinciderebbero. Ma così non è, poiché è antica quanto l’uomo la distinzione fra il bene e il male morale, e antichissime sono le leggi che prescrivono il primo e puniscono il secondo; con esse la vita dell’uomo – come ha mostrato il Vico – ha avuto l’inizio, e con esse si mantiene. E con esse, ancora, si mantengono l’incivilimento dell’uomo, la vita familiare e quella associata e la speranza di collaborare al bene comune.

Bisogna però subito osservare che la formula ora indicata dal Fischer non esprime affatto la posizione di S. Tommaso per il quale intelletto e volontà collaborano con un influsso scambievole così da togliere ogni posizione deterministica per lasciare il campo alla responsabilità delle proprie azioni e quindi alla possibilità e capacità di scelta. Tuttavia, resta il fatto, ed è sottolineato anche dal Fischer, che il tomismo è passato alla storia come intellettualismo78 e lo scotismo come volontarismo. È fon­data questa qualificazione?

I. È S. Tommaso stesso che pone la questione: Utrum voluntas sit altior potentia quam intellectus79. Anche nel De Veritate: «Utrum voluntas sit altior potentia quam intellectus, vel e contra» (q. 22, a. 11). «Altior» ha significato non soltanto psicologico ma metafisico in tutta la sua ampiezza, cioè il prior, nobilior… (ibid. ad 6um, ad 2um in contr.). La conferma della superiorità dell’intelletto sulla volontà è data dalla celebre tesi tomistica che la beatitudo o felicità ultima è data dalla visio Dei cioè dall’atto intuitivo dell’intelligenza80.Però si deve subito aggiungere che la posizione tomistica è più articolata; almeno per quanto riguarda l’eser­cizio della libertà in questa vita l’intelletto resta nobilior riguardo ai beni terreni, mentre riguardo a Dio ed ai beni eterni nobilior e altior è la volontà. La ragione della differenza di questa nobiltà alternante è presa dal «modo» delle rispettive operazioni: l’intelletto conoscendo le cose materiali mediante le specie intelligibili le eleva al livello della propria spiritualità, la volontà invece desiderando e amando le cose materiali si abbassa, poiché essa va direttamente alle cose come sono in sé. «Unde melior est amor Dei quam cognitio» (S. Th.) ed in generale «… sic velle (divina) est eminentius quam intelligere»81. Resta però la tesi generale: «Si intellectus et voluntas considerentur secundum se, sic intellectus eminentior invenitur» (S. Th.) ossia «absolute et in universali, non respectu huius vel illius rei, et sic intellectus est eminen­tior voluntate» (De Ver.). Di qui la formula, divenuta classica nella scuola tomistica: l’intelletto è simpliciter altior, eminentior, prior, nobilior… (voluntate), mentre la volontà è altior, nobilior… solo secun­dum quid. L’argomento per la superiorità assoluta dell’intelletto è del tutto formale ossia «… obiectum intellectus est simplicius et magis abso­lutum quam obiectum voluntatis: nam obiectum intellectus est ipsa ratio boni appetibilis: bonum autem appetibile cuius ratio est in intellectu est obiectum voluntatis». Ed ora la spiegazione ancor più formale: «Quanto autem aliquid est simplicius et abstractius, tantum secundum se est nobi­lius et altius: et ideo obiectum intellectus est altius quam obiectum voluntatis»82.Criterio invero strano: perché non ricorrere a quello della perfezione come compiutezza di essere?

Un altro argomento, che assume diverse formule e sembra più afferra­bile, si fonda sul fatto (!) che l’intelletto sarebbe esso il principium movens rispetto alla volontà: «… (Intellectus) absolute et secundum se, prout praecedit voluntatem quasi eam movens»83 e, spiegando la «circolarità» fra l’intendere e il volere: «… Similiter etiam et interio­rem actum voluntatis (intellectus) intelligit, in quantum per actum intel­lectus quodammodo movetur voluntas»84.

Già questo «quodammodo» dell’ultimo Tommaso ci offre il destro od almeno il pretesto di vedere un po’ a fondo qual è il senso della questione all’interno dei princìpi tomistici. Qual è infatti il significato di questo «movere» da parte dell’intelletto rispetto alla volontà? La rispo­sta ora è più chiara, poiché si distingue un movere: a) quantum ad exercitium actus e b) quantum ad determinationem actus. Il primo movere spetta alla stessa volontà, il secondo all’intelletto. Ed ecco la ragione «formale»: «Primum principium formale est ens et verum universale quod est obiectum intellectus, et ideo isto modo motionis intellectus movet voluntatem sicut praesentans ei obiectum suum»85.Ma la ter­minologia si precisa ancora: «Intellectus movet voluntatem per modum quo finis movere dicitur, in quantum scilicet praeconcipit rationem finis et eam voluntati proponit»86. Il fine è il bene perfettivo proprio di ogni natura e come oggetto è appreso dall’intelletto insieme agli altri trascen­dentali con lo ens, cioè res, aliquid, unum, verum. Ciò ch’è proprio della volontà è la inclinatio e lo inclinare al bene conosciuto, cioè il muovere e il muoversi verso le cose. In questo contesto dell’aspirazione al bene, co­me forza traente, l’Angelico coglie l’occasione per dare in modo esplicito alla volontà quanto le spetta: «Quaelibet potentia praeminet alteri in hoc quod est proprium sibi: sicut tactus perfectius comparatur ad calorem quem sentit per se, quam visus qui sentit ipsum per accidens; et similiter intellectus completius comparatur ad verum quam voluntas, et e converso voluntas perfectius comparatur ad bonum quod est in rebus quam intelle­ctus». Era il momento giusto per introdurre la considerazione esistenziale, ma sembra che questo sia il massimo che Tommaso possa concedere alla volontà che qui, sotto l’aspetto appunto della mozione, è detta perfino nobilior: «Unde quamvis intellectus simpliciter sit nobilior voluntate, ad minus respectu aliquarum rerum, tamen secundum rationem movendi, quae competit voluntati ex ratione propria obiecti, voluntas nobilior invenitur»87. Il discorso resta qui sempre formale: il prestigio dell’in­telletto resta indiscusso: è l’intelletto che conosce la verità, che afferma i primi principi, che può avere e realizzare (con l’astrazione!) una presenza delle cose (l’esse intentionale) più perfetta delle cose stesse, cioè spirituale. Quello che sorprende allora è l’affermazione categorica: «Intellectus comparatur ad voluntatem ut movens, et ideo non oportet distinguere in voluntate agens et possibile»88. Un’affermazione tutt’altro che evidente e che esige di essere precisata.

Resta intanto il «primato attivo» della volontà in senso universale: «Actus aliquis attribuitur alicui potentiae dupliciter, vel quia elicit ipsum sicut actum proprium, sicut visus videre et intellectus intelligere, et sic libero arbitrio assignatur actus ille qui est eligere. Alio modo quia imperat ipsum, et hoc modo actus omnium virium per oboedientiam rationi possunt voluntati attribui quae est motor omnium virium: et ita etiam actus diversarum virium libero arbitrio attribuuntur»89.L’espressione «motor» è già esistenziale come lo è, forse più ancora, la seguente contemporanea: «Contingit aliquam potentiam esse determinatam in se, quae tamen universale imperium super omnes actus habet, sicut patet in voluntate: unde liberum arbitrium propter hoc dicitur non pars animae, sed tota anima, non quia non sit determinata potentia, sed quia non se extendit per imperium ad determinatos actus, sed ad omnes actus hominis qui libero arbitrio subiacent»90. Questa dottrina raggiunge la sua pienezza riflessiva ed espressiva nella Q. De Malo: «Si ergo consideremus motum potentiarum animae ex parte obiecti specificantis actum, primum principium motionis est ex intellectu: hoc enim modo bonum intellectum movet etiam ipsam voluntatem. Si autem consideremus motus potentiarum animae ex parte exercitii actus, sic principium motionis est ex voluntate. Nam semper potentia ad quam pertinet finis principalis, movet ad actum potentiam ad quam pertinet id quod est ad finem, sicut militaris movet frenorum factricem, et hoc modo voluntas movet seipsam et omnes alias potentias. Intelligo enim quia volo: et similiter utor omnibus potentiis et habitibus quia volo. Unde et Commentator definit habitum in III De Anima, quod habitus est quo quis utitur cum voluerit»91. È il testo principale per la nostra discussione ove S. Tommaso ripete il principio che l’intelletto muove la volontà, ma in un contesto più elastico ed esistenziale, sia pure ancora vago. Anzi dopo un avvio così felice, come lintelligo quia volo, l’Angelico sembra far ritorno alla prima formula intellettualistica: «Nam et ipse intellectus intelligit seipsum per actum suum, qui non est sensui subiectus; similiter – ecco il punto cruciale! – etiam et interiorem actum voluntatis intelligit, in quantum per actum intellectus quodammodo movetur voluntas, et alio modo actus intellectus causatur a voluntate ut dictum est»92. È stato detto ciò che già sappiamo, cioè del duplice moto ex parte obiecti, e questo tocca all’intel­letto, ed ex parte subiecti e questo è opera della volontà cioè di specifica­zione e di esercizio dell’atto. Così, sembra, ci troviamo ancora al punto di partenza. In realtà un passo avanti c’è ed è l’itinerario già descritto nella Ia-IIae ossia dell’azione scambievole nell’atto di scelta da parte dell’intelletto e della volontà che qui è riassunto con efficacia e precisione, anche se ancora nell’orizzonte formalistico.

Tommaso infatti difende la libertà del volere sia «quantum ad exer­citium actus» sia «quantum ad determinationem actus qui (quae?) est ex obiecto». E spiega: a) «quantum ad exercitium actus, primo quidem manifestum est quod voluntas movetur a seipsa, sicut enim movet alias potentias ita seipsam movet». Entra qui in gioco ciò che Kierkegaard chiama la «riflessione doppia». Spiega infatti: «Nec propter hoc sequi­tur quod voluntas secundum idem sit in potentia et actu. Sicut enim homo secundum intellectum in via inventionis movet seipsum ad scientiam in quantum ex uno noto in actu venit in aliquid ignotum, quod erat solum in potentia notum; ita – ecco il riscontro che calza però fino a un certo punto – per hoc quod homo aliquid vult in actu, movet se ad volendum aliquid aliud in actu». E questo si fa mediante il consilium sui mezzi che suppone la volitio finis: poichè il «… consilium est inquisitio quaedam non demonstrativa – i mezzi formano il campo del probabile e del contingente – sed ad oppositam viam habens, non ex necessitate voluntas seipsam movet». Qui, da teologo attento, Tommaso si affretta a precisare che – poiché la volontà non può procedere all’infinito di consilium in consilium, ma occorre un primo moto ed un Primo movente fuori della volontà per passare al primo atto di volere (cuius instinctu voluntas velle incipiat) –, questo Primo movente è Dio, quale Sommo Bene: «Relinquitur ergo, sicut concludit Aristoteles in capite de Bona fortuna, quod id quod primo movet voluntatem et intellectum sit aliquid supra voluntatem et intellectum, scilicet Deus qui… etiam voluntatem movet secundum eius conditionem, non ut ex necessitate sed ut indeter­minate se habentem ad multa»93. Questa può dirsi la soluzione metafisica della libertà, coerente con il principio della creazione o dipen­denza totale del finito dall’Infinito.

Rimane però ancora scoperta tutta la zona esistenziale ch’è la dinamica del bene e del fine: il problema è che se oggettivamente è il bene ed il fine che «muovono» la volontà – cosicché anche la volontà, come l’appetitus in generale, è detta passiva (di qui il principio: «intellectus movet voluntatem»)94 –: in realtà la volontà, come si è visto, è il mo­tor omnium virium, e per questo è liberrima. Questo primato dinamico del­la volontà non è però di pura efficienza, ma il fine scelto investe tutta la sfera esistenziale ossia «informa», per così dire, l’attività intera del sog­getto come persona, dall’intelligenza fino alle altre facoltà appetitive e conoscitive in una specie di «circulatio libertatis» ch’è una partecipazione dinamica, ma insieme un’assunzione di solidarietà e responsabilità dell’agire da parte della persona come un tutto, guidato bensì dall’intelligenza (più o meno, secondo i casi) ma mosso e dominato dalla volontà. Procediamo con ordine:

1. «Bonum in communi, quod habet rationem finis, est obiectum voluntatis et ideo – afferma con vigore S. Tommaso – ex hac parte voluntas movet alias potentias animae ad suos actus. Utimur enim aliis potentiis cum volumus. Nam fines et perfectiones omnium aliarum poten­tiarum comprehenduntur sub obiecto voluntatis – ch’è per l’appunto il bonum universale ossia la felicità – sicut quaedam particularia bona». E questo vale anche per l’intelletto.

2. «Voluntas movet intellectum quantum ad exercitium actus: quia et ipsum verum, quod est perfectio intellectus, continetur sub universali bono ut quoddam bonum particulare». Viceversa l’intelletto conosce l’og­getto della volontà ed il suo comportamento di conseguenza. La dominan­za della volontà si realizza nell’atto del comando (imperium). Ed ecco la formula dell’intellettualismo ora capovolta: «Intellectus autem non agit nisi per voluntatem»95. La priorità causale della libertà prende quindi un maggior rilievo in senso non puramente estrinseco, ma intrinseco e costitutivo perché interessante direttamente la felicità.

3. Quindi anche se «… omnis actus voluntatis procedit ab aliquo actu intellectus, aliquis tamen actus voluntatis est prior quam aliquis actus intellectus» e così, sotto l’influsso della volontà, l’intelletto speculativo diventa «pratico» e lo diventa nel modo, cioè per il bene o per il male, ch’è imposto dalla volontà secondo il tipo di scelta ch’essa ha fatto. Il testo conclude: «Voluntas enim tendit in finalem actum intellectus qui est beatitudo – è la posizione formalistica –. Et ideo recta inclinatio voluntatis praeexigitur ad beatitudinem, sicut rectus motus sagittae ad percussionem signi»96.Ma l’ultima formula del primato (attivo) della volontà è ancora più esplicita:

4. «De intellectu et voluntate quodammodo est simile et quo­dammodo dissimile. Dissimile quidem quantum ad exercitium actus, nam intellectus movetur a voluntate ad agendum, voluntas autem non ab alia potentia, sed a seipsa»97.Quindi possiamo dire che fra l’apprensione degli oggetti universali cioè l’ens, l’unum, il verum, il bonum e il finis in communi…, c’è un «interim» in cui la volontà «sceglie» e trasmette all’intelletto l’oggetto della sua scelta per procedere al suo conseguimento. È il passaggio dall’intellectus speculativus all’intellectus practicus. Ma, osser­viamo di sfuggita, l’«intellectus» che afferra, secondo S. Tommaso, il bene ed il fine, si può dire speculativo come quando apprende l’ens, l’unum, il verum…? Il bonum non è detto cioè con riferimento alla volontà, la quale è perciò presente in quell’apprensione del bonum? è quindi anche operante e in quale modo? Questo mi sembra il nocciolo del problema esistenziale della libertà.

5. Pertanto il fine ultimo (esistenziale) non può essere l’astratto bonum in communi o la felicità in senso indeterminato, ma dev’essere determinato cioè «scelto» in un bene reale che l’uomo intende consegui­re e godere. S. Tommaso sembra invece attenersi alla formula aristotelica: intentio est de fine (ultimo) e la electio de mediis ad finem98.Per il teista e cristiano Tommaso, che tuttavia rimane aristotelico, la felicità oggettiva è Dio e quella soggettiva, la visione di Dio cioè, appartiene sempre all’intelligenza. L’attività allora dell’intelletto pratico sembra di natura puramente ausiliaria e transitoria: «Assecutio finis quem intelle­ctus practicus intendit, potest esse propria et communis, in quantum per intellectum practicum aliquis se et alios dirigit ad finem, ut patet in rectore multitudinis»99. Ma in quale fine? Certamente al fine ultimo.

6. Il fine ultimo, però, ch’è la felicità, se è un bene come oggetto è insieme e soprattutto (sul piano esistenziale) un compito e progetto di vita e perciò un «oggetto di scelta» da parte della volontà creata. È un fatto evidente – come è evidente la realtà del male morale del peccato – che l’uomo, come si è già detto, può scegliere tanto l’Infinito come il finito, i beni umbratili o la vita eterna. Quindi la electio non riguarda solo i mezzi ma anche (e specialmente) il fine esistenziale, che non è soltanto Dio (anzi, per S. Tommaso Dio lo è in paucioribus)100,ma può essere tutta la gamma dei beni terreni (ricchezze, piaceri, carriera, fama, gloria… con la scienza, l’arte, la filosofia, la letteratura, ecc.). L’inclinazione naturale, propria della volontà, riguarda la felicità in generale ch’è tutto e niente fin quando non viene determinata: è il passaggio a questa determinazione che costituisce l’attuarsi della libertà reale esistenziale ed esige il primato della volontà.

7. S. Tommaso riconosce ovviamente questa polivalenza soggettiva della felicità e si preoccupa di mettere in guardia contro la seduzione dei beni creati101, nei quali tuttavia la maggioranza degli uomini ripone la propria felicità, cercandoli con ostinazione fino allo spasimo. Così si può dire, con espressione heideggeriana, che la felicità sta nella «apertura» (Offenheit) della libertà: «… Quam nequaquam eligimus propter aliud, sed semper propter seipsam. Honorem vero et voluptates et intelligentiam et virtutem eligimus quidem propter seipsa. Eligeremus enim ea vel appeteremus ea, etiam si nihil aliud ex eis nobis proveniret. Et tamen eligimus ea propter felicitatem, in quantum per ea credimus nos futuros felices»102. Perciò S. Tommaso può dire: «Et sicut mens practica est gratia huius finis vel facti vel actionis, ita etiam appetitus est huius particularis finis»103. Così allora, se nella considerazione formale del rapporto oggettivo il fine può essere buono o cattivo, nella considerazione esistenziale dell’attuarsi della volontà dominante si parla di merito e di peccato.

8. A questo proposito S. Tommaso osserva: «Obiectum enim electionis est bonum et malum, non autem verum et falsum quae pertinent ad intellectum»104. Per l’ultimo fine esistenziale si tratta allora di bene e male in concreto ch’è stabilito cioè scelto dal Singolo, nel segreto incomunicabile della sua libertà, ed è commentando Aristotele che l’Ange­lico diventa più esplicito: «Quia ultimus finis est maxime diligibilis, ideo illi qui ponunt voluptatem summum bonum, maxime diligunt vitam volu­ptuosam». E spiega: «Unusquisque id ad quod maxime afficitur reputat vitam suam, sicut philosophus philosophari, venator venari et sic de aliis. Et quia homo maxime afficitur ad ultimum finem, necesse est quod vitae diversificentur secundum diversitatem ultimi finis (qui dunque si parla di fini ultimi concreti). Finis autem habet rationem boni». E l’Angelico assegna tre tipi di esistenza che corrispondono quasi esattamente – mi sembra – ai tre stadi dell’esistenza descritti da Kierkegaard: «Vita ergo voluptuosa dicitur, quae finem constituit in voluptate sensibili. Vita vero civilis dicitur, quae finem constituit in bono practicae rationis, puta in exercitio virtuosorum operum. Vita autem contemplativa, quae constituit finem in bono rationis speculativae vel in contemplatione veritatis»105. Ma sicuramente in questa scelta la decisione è affare della volontà e perciò è una scelta personale di moralità e di responsabilità.

Quindi anche per S. Tommaso bisogna distinguere il fine ultimo formale (cioè astratto) della felicità in generale, al quale ognuno tende per impulso naturale, dal fine ultimo concreto cioè esistenziale che ciascuno sceglie per proprio conto (per esempio la vita voluptuosa, invece di seguire la ragione). L’Angelico aveva del resto la formula esistenziale adeguata affermando che: «voluntas est indeterminata respectu actus» ed anche «respectu ordinis ad finem». Tuttavia queste formule sembrano bloccate in partenza dalla formula che le precede: «voluntas de necessitate appetit finem ultimum» (De Ver., q. 22, a. 6). E questo fine ultimo è la felicità in generale al quale la volontà aspira «naturali quadam necessitate» e gli altri oggetti o beni sono relegati nella categoria dei «mezzi» (De Ver., q. 22, a. 5).

9. Ora possiamo stringere il nodo e chiarire la situazione esistenziale della libertà ch’è tensione dialettica appunto d’intelletto e volontà. Ancora un testo del commento tomistico all’Ethica ci dà i termini precisi in cui si è arenata la posizione della scuola tomistica, malgrado l’apertura moderna – se così possiamo dire – della Q. Disp. De Malo. Il testo presenta i seguenti momenti106.

a) L’oggetto della volontà è il fine: «Dicit [Arist.] quod voluntas magis est finis, quam eius quod est ad finem. Quia ea quae sunt ad finem volumus propter finem. Propter quod unumquodque, illud magis». – Il respondeo è con un «distinguo»: c’è fine e fine, c’è il fine formale indeterminato ch’è la felicità in generale (bonum in communi) al quale la volontà tende per inclinazione naturale e pertanto con necessità – e c’è il fine esistenziale ch’è un certo bene concreto reale esistente, quindi in sé determinato (Dio, la vita virtuosa con la speranza della vita eterna oppure invece qualche bene finito di questa vita temporale…), e questo dev’essere oggetto di scelta: checché dica Aristotele che, probabilmente, non ammet­teva l’immortalità personale. E qui tocca alla volontà decidere: una decisione che costituisce la libertà specificata in atto mediante una scelta concreta radicale.

b) L’oggetto della scelta sono i mezzi al fine: «Sed electio est solum eorum quae sunt ad finem, non autem ipsius finis. Quia finis praesupponitur ut iam praedeterminatus. Ea vero quae sunt ad finem, inquiruntur a nobis disponendo ad finem. Sicut sanitatem, quae est finis medicationis, volumus principaliter sed eligimus medicinalia per quae sanemur». – Respondeo: Bene. Ma la sanità che si vuole, non è un fine presupposto o predeterminato, esso è oggetto di un consilium e di una precisa scelta concreta del progetto di vita. Altrettanto, e più ancora, dicasi (come si è visto) per i beni universali dell’esistenza temporale sopra elencati dallo stesso S. Tommaso.

c) La felicità è aspirazione naturale e non è oggetto di scelta: «Et simi­liter volumus esse felices, quod est ultimus finis et hoc dicimus nos velle. Sed non convenit dicere quod eligimus nos esse felices. Ergo electio non est idem voluntati». – Respondeo: è vero che noi non scegliamo di essere felici, dobbiamo però scegliere ossia «determinare» fra le varie possibilità cioè beni dell’esistenza, quella e quello che vogliamo sia più sod­disfacente alla nostra aspirazione di felicità – è da essa che dipenderà l’in­tero impianto della nostra vita107 –.È in questa scelta del fine esisten­ziale, che può essere diversa da soggetto a soggetto, che l’aspirazione alla felicità diventa insieme operante e significativa cioè portata nel mezzo del­la battaglia della vita. In un testo precedente di questo commento lo stes­so S. Tommaso estende la electio ai fini esistenziali: «Et ita simpliciter perfectum est, quod est semper secundum se eligibile et numquam propter aliud. Talis autem videtur esse felicitas. Quam nequaquam eligimus propter aliud, sed propter seipsam. Honorem vero et voluptates et intelligentiam et virtutem eligimus quidem propter seipsa. Eligeremus ea vel appeteremus, etiam si nihil aliud ex eis nobis provenit». Ed ora il momento della scelta esistenziale: «Et tamen eligimus ea propter felicitatem, in quantum per ea credimus nos futuros felices»108.È questa la zona del «rischio» esistenziale su cui deve portarsi la riflessione della prudenza per preparare la scelta e perciò creare lo spazio delle Grenzsituationen (Jaspers).

10. Il primato esistenziale cioè reale della volontà nella scelta della libertà – l’appetitus boni in communi è formale ed esula dalla sfera esi­stenziale – è pertanto l’esigenza primaria della vita dello spirito. Questo è anche attestato dall’eccellenza (in ordine ad actum) delle virtù morali su quelle puramente intellettuali: «Secundum virtutes morales dicitur homo bonus simpliciter et non secundum intellectuales virtutes, ea ratione qua appetitus movet alias potentias ad suum actum». Più precisamente ancora, la qualità buona o cattiva degli atti (virtuosi o viziosi) dipende dalla qualità della volontà che fa le sue scelte di conseguenza: «Quilibet habens voluntatem, dicitur bonus, in quantum habet bonam voluntatem; quia per voluntatem utimur omnibus quae in nobis sunt. Unde non dicitur bonus homo, quia habet bonum intellectum, sed quia habet bonam volun­tatem. Voluntas autem respicit finem ut obiectum proprium. Et sic quod dicitur: “Quia Deus est bonus, nos sumus”, refertur ad causam finalem»109. Il principio vale anche nel campo teologico: «Per actum scientiae, aut alicuius talis habitus, potest homo mereri secundum quod imperatur a voluntate, sine qua nullum est meritum. Tamen scientia non ad hoc perficit intellectum, ut dictum est. Non enim ex eo quod homo habet scientiam, efficitur bene volens considerare, sed solummodo bene potens: et ideo – si badi bene (!) quando si vuole affermare l’eccellenza dell’intelletto – mala voluntas non opponitur scientiae vel arti, sicut prudentiae vel fidei aut temperantiae»110.Sotto questa prospettiva, ch’è la situazione esistenziale della persona – quindi né puramente pratica né puramente speculativa – quale costitutiva e definitiva per l’esito finale del nostro essere e del significato ultimo della vita dello spirito, il primato della volontà non nuoce ma torna a vantaggio della stessa intelligenza111 secondo una consonanza di scambievole integrazione.

La formula pertanto di quest’integrazione dialettica è fondata sulla di­stinzione dei tre piani di considerazione: formale, metafisica, esistenziale: – 1. Formalmente l’intelletto fonda tutta l’attività volontaria, ma più come «condizione» che come causa; è la volontà che muove se stessa. – 2. Sotto laspetto metafisico il bene ch’è oggetto della volontà ed il fine ch’è la perfezione finale comprende in sé il vero e le perfezioni di tutte le facoltà dell’uomo. – 3. Perciò sotto laspetto esistenziale, ossia del dinamismo dell’azione e della formazione della persona, mediante l’esercizio della libertà, la volontà tiene il primo posto non solo come principio universale attivo movente ma anche, e soprattutto, come principio formale morale: Homo dicitur bonus propter voluntatem bonam.

Precisato il rapporto dialettico d’intelletto e volontà, ora toccherebbe investigare la natura profonda dell’attività volontaria dall’altra parte, cioè sotto l’aspetto – intravisto dal pensiero antico (stoici…) ed affermato dalla Scrittura – che l’uomo è fatto ad immagine di Dio e che quest’im­magine risulta soprattutto nella volontà ch’è per eccellenza causa sui al nominativo, ossia attività originaria e originante. S. Tommaso, trattando della emanazione delle facoltà dall’anima, esclude che la volontà emani dall’anima tramite l’intelligenza112 e con ciò la sottrae alla dipendenza dall’intelligenza in senso efficiente. Parimenti l’Angelico afferma che «… quamvis intellectus sit prior voluntate simpliciter, tamen per refle­xionem efficitur voluntate posterior; et sic voluntas intellectum movere potest»113. Ma qual è la natura di tale riflessione: è riflessione dell’in­telletto o della volontà? La riflessione dell’intelletto può essere tanto sull’atto del conoscere come sull’oggetto conosciuto e sullo stesso atto ed oggetto della volontà. E la riflessione della volontà? Sarà, per analogia, un velle velle, un velle seipsam velle, un velle velle seipsam volentem volitum Si tratta però, mi sembra, di espressioni ancora formali, fin quando non si attinge la peculiarità della volontà come partecipazione dell’attività creativa di Dio come spirito, secondo il testo del Dama­sceno citato nel prologo alla Ia-IIae: «Quia sicut Damascenus dicit, homo factus ad imaginem Dei dicitur, secundum quod per imaginem significatur intellectuale et arbitrio liberum et per se potestativum (…), restat ut consideremus de eius imagine, id est de homine, secundum quod et ipse est suorum operum principium, quasi liberum, arbitrium habens et suorum operum potestatem» [Cf. Damascenus, De fide orthodoxa, lib. II, c. 12; PG 94, col 920]. La «imago Dei» è soprattutto la libertà!

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Si può concludere intanto – ed era l’obiettivo primo di questi appunti – che la concezione tomistica della libertà non cade certamente sotto la formula dell’intellettualismo spinoziano, rimproverata dal Fischer: tuttavia un alone od uno sfondo quasi intellettualistico sembra innegabile. Ed in questa direzione rigida fu interpretato dalla scuola, sfociata alle volte nell’imprudenza di conclusioni conturbanti sul problema dell’elezione divina e della predestinazione114 che ripugnano tanto al credente quanto all’uomo comune.

L’obiettivo secondo di queste note era un confronto fra la concezione tomistica, nel senso dinamico qual è stato delineato, e quella moderna: un confronto che può limitarsi a pochi cenni essenziali.

La prima osservazione è che per la filosofia moderna la libertà non è una «proprietà» dell’anima o di una sua facoltà (la volontà), ma essa co­stituisce l’essenza dello spirito stesso. La tradizione scolastica, ed anche quella tomistica, aveva interpretato (e fondato) la libertà riferendosi all’og­getto: il dominio che esercita la volontà sia sull’oggetto come sull’atto si attua mediante un giudizio d’indifferenza, cioè mediante il «distacco» dal­l’oggetto – ciò ch’è un modo piuttosto strano di dominare l’atto e l’ogget­to per operare la scelta. Dove S. Tommaso parla di inclinare e di inclinatio, di consilium e d’imperium, e pertanto di esercizio di attività con la tensione e l’intensità dell’impegno per il bene (o per il male) – sembra non emerga nessuna tensione e nessuna dialettica e tutto viene riferito, sia per l’inizio come per il compimento, alla razionalità dell’atto libero. L’in­tellettualismo di questa posizione è rovesciato rispetto a quello di Spinoza e degli idealisti trascendentali. Due sono i momenti:

1. – Indifferentia libertatis consistit in potestate dominativa volun­tatis non solum super actum suum, ad quem movet, sed etiam super iudicium a quo movetur.

2. – Proxima et immediata radix libertatis in voluntate est indiffe­rentia iudicii in ratione115.

L’illustre tomista non può portare neppure un testo del Maestro dove si parli d’indifferenza come costitutivo della libertà, ma si fa forte del principio aristotelico a cui (nel suo contesto) ricorre anche l’Aqui­nate ma che il discepolo fraintende: «Totius radix libertatis est in ratione constituta». S. Tommaso spiega infatti l’originalità dell’atto uma­no, rispetto al comportamento istintivo dell’animale, per il dominio che ha la ragione sopra l’atto del giudizio: «Homo vero, per virtutem rationis iudicans de agendis, potest de suo arbitrio iudicare, in quantum cognoscit rationem finis et eius quod est ad finem, et habitudinem et ordinem unius ad alterum et ideo non est solum causa suipsius in agendo, sed etiam in iudicando et ideo est liberi arbitrii ac si diceretur liberi iudicii de agendo vel non agendo»116.Bene: ma come procede l’intelletto a questo giudi­zio? In quanto riflette sul suo atto e sull’oggetto. D’accordo. Ma poiché si tratta del giudizio ultimo pratico e spesso più propriamente di quello «practico-practicum», che ora si dice «esistenziale», l’intelletto (come si è visto) dipende dalla volontà la quale pertanto indirizza – già nella scelta esistenziale del fine ultimo – l’intelletto o la ragione ad orientarsi in una ben definita direzione ch’è in funzione del fine (pre-)scelto. Ed è lo stesso S. Tommaso, mi sembra, a ricordare la strada giusta, cioè a spiegare la natura di siffatto giudizio: «Iudicium cui tribuitur libertas, est iudi­cium electionis; non autem iudicium quo sententiat homo de conclusioni­bus in scientiis speculativis, nam ipsa electio est quasi quaedam scientia de praeconsiliatis»117.In questo dinamismo della libertà, che investe la vita di ogni uomo appena possiede l’uso della ragione, è soprattutto il passaggio dall’aspirazione naturale, ancora indeterminata, alla felicità alla determinazione concreta della felicità ossia alla scelta del tipo di bene concreto in cui si vuole porre e cercare la propria felicità: qui la prima e l’ultima decisione spetta alla volontà. L’entrare poi in azione della ragione, per vagliare sia anzitutto i fini esistenziali e poi scegliere i mezzi adatti, suppone l’orientamento di scelta da parte della volontà stessa: questo, come si è detto, c’è chiaramente in S. Tommaso, e sorprende che i suoi commentatori lo lascino nell’ombra.

Importante ci sembra, per affermare la «mens Doctoris Angelici» sull’essenza della libertà, la spiegazione della differenza fra la libertà di Dio e quella dell’uomo: una differenza ch’è fondata sul diverso modo sia di essere come di conoscere: «Aliter tamen invenitur liberum arbitrium in nobis et in angelis et in Deo: variatis enim prioribus necesse est posteriora variari». Si noti ora l’assenza totale della inclinatio che è propria dell’appetitus in genere e quindi, e tanto più, dell’appetitus rationalis ch’è la volontà:

a) «Facultas autem liberi arbitrii duo praesupponit: scilicet natu­ram et vim cognitivam. Natura enim divina increata est, et est suum esse et sua bonitas; unde in ea non potest esse defectus aliquis nec quantum ad esse nec quantum ad bonitatem. Natura autem humana et angelica creata est, ex nihilo principium sumens; unde, quantum est de se, possibi­lis est ad defectum». È (mi sembra) l’argomento della III via, fondata sulla contingenza, applicato all’azione morale.

b) «Et propter hoc, liberum arbitrium Dei nullo modo flexibile est ad malum; liberum vero arbitrium hominis et angeli, in suis naturalibus consideratum, in malum flexibile est». Ma qual è la causa che in concreto li fa piegare? La conoscenza.

c) «Cognitio enim alterius modi invenitur in homine quam in Deo et in angelis. Homo habet cognitionem obumbratam et cum discursu veritatis notitiam sumentem, unde accidit ei dubitatio et difficultas in discernendo et iudicando»118.Ma perché è caduto allora l’Angelo, la cui conoscenza – anche se finita – era chiarissima?

Bisogna pertanto osservare che la libertà, per quanto riguarda la sua qualità metafisica ch’è la capacità di scelta, è e deve essere identica in Dio e nelle creature spirituali ed è per questo che la creatura spirituale è detta «capax Dei»: la differenza è nella potenza operativa ch’è infinita in Dio e finita nella creatura, non nella libertà come qualità ch’è in sé indivisibile.

Confesso però che le espressioni tomistiche (specialmente del De Veritate), a cui ricorrono i commentatori, mi lasciano perplesso; p. es.: a) «Cum ad operationem nostram tria concurrant scilicet cognitio, appetitus et ipsa operatio, tota ratio libertatis ex modo cognitionis dependet», per concludere: b) «… unde totius libertatis radix est in ratione constituta. Unde secundum quod aliquid se habet ad rationem, sic se habet ad liberum arbitrium»119. Questo rigido parallelismo fra volontà e ragione con la dipendenza (quasi!) totale della volontà dalla ragione non solo va contro l’esperienza, ma distrugge la stessa responsabilità morale: ciò che i tomisti e S. Tommaso certamente non intendono di affermare.

Anzi S. Tommaso, richiamandosi al Damasceno e a S. Bernardo120,attribuisce la «ratio imaginis» dell’uomo con Dio in modo speciale alla libertà. Il richiamo al Damasceno forma nientemeno (come si è visto) il tema programmatico di tutta la considerazione morale della Prima Se­cundae: «Quia sicut Damascenum dicit, homo factus ad imaginem Dei dici­tur secundum quod per imaginem significatur intellectuale et arbitrio liberum et per se potestativum»121.S. Bernardo, che riassume la tradizione agostiniana, distingue tre libertà nell’uomo: «… a peccato, a miseria, a necessitate»; questa ultima è la libertas arbitrii ch’è rimasta nell’uomo intatta anche dopo il peccato al punto – a differenza di Kierkegaard, come si dirà – che «… si liberum arbitrium ita ubique sequitur volunta­tem, ut nisi illa penitus esse desinat, isto non careat, voluntas vero sicut in bono ita etiam in malo aeque perdurat: aeque profecto et liberum arbitrium tam in malo quam in bono integrum perseverat». In esso consiste propriamente la ratio imaginis122:la «intellectualitas», ricor­data dal Damasceno, e lasciata nell’ombra forse perché interessa diretta­mente le due altre libertà, cioè consilii e complaciti che sono state offese e diminuite dal peccato originale.

Certamente nella flessione al male nella creatura spirituale, e special­mente (solamente!?) nell’uomo, interviene la obumbratio: questa però, prima di essere la causa della scelta, sia giusta e virtuosa (merito) oppure errata e perciò viziosa, è l’effetto della «inclinatio» che la volontà dà a se stessa e poi comunica, come si è visto, alle altre potenze e soprattutto all’intelletto il quale perciò giudica e guida in quanto già il soggetto cioè la persona si è orientato nella scelta con un atto di libertà123. In questo senso, bisogna riconoscere, la riflessione esistenziale di Kierkegaard ha visto meglio ossia in modo più metafisico e cristiano124. L’impianto della considerazione kierkegaardiana è molto semplice, squisitamente moderno e insieme profondamente cristiano.

1. Il punto di partenza è nel soggetto concreto ch’è l’io dell’uomo inteso come sintesi di finito e d’infinito e quindi come un rapportarsi dell’io con se stesso (la libertà come possibilità): «L’uomo è spirito. Ma cos’è lo spirito? Lo spirito è l’io. E l’io cos’è? È un rapporto che si rapporta a se stesso. L’io non è il rapporto, ma il rapportarsi a se stesso». Ma l’io dell’uomo, ch’è una creatura, è un rapporto inizialmente posto «da un altro» (Dio), a cui pertanto deve riferirsi l’io nel rapportarsi a se stesso: se non lo fa, cade nella disperazione (il peccato). Quindi l’io può ottenere l’equilibrio, la quiete, e rimanere in tale stato solo se, mettendosi in rapporto con se stesso, si mette in rapporto con ciò che ha posto il rapporto intero. Di qui la formula della salvezza della libertà: «Metten­dosi in rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, l’io si fonda in trasparenza nella potenza che l’ha posto»125. È il momento esistenziale-metafisico. Sotto questo aspetto l’io (come il Singolo) non è semplice soggetto nel senso classico o idealistico, ma il principio tensoriale della scelta nella sintesi di finito e d’infinito ch’è lo spirito. Ciò corri­sponde al «voluntas movet seipsam et per hoc movet alias potentias», ma aggiunge il preciso rapporto a Dio come fondante.

2. Il punto di crisi è il rapporto dell’io a Dio per la costituzione della libertà come realtà (il raddoppiarsi dell’io, come «essere davanti a Dio»). L’io, come principio del rapportarsi del (nel) rapporto, diventa in con­formità della «misura» ch’egli assume per operare il rapporto stesso e può avere molti gradi: il primo è l’ignoranza di avere un io eterno (cioè spirituale), il secondo è la consapevolezza di avere un io in cui c’è qualcosa di eterno; ma qui si rimane ancora nell’immanenza ossia nella determinazione dell’io umano o dell’io la cui misura è l’uomo: «Ma una nuova qualità e qualificazione acquista questo io per il fatto ch’esso è un io di fronte a Dio. Quest’io non è più l’io meramente umano, ma è ciò che, sperando di non essere frainteso, vorrei chiamare l’io teologico»126. Per l’inizio dell’attuarsi effettivo della libertà non ci si può accontentare della vaga apprehensio boni in communi e della inclinatio in bonum universale, ma occorre impegnare la propria scelta mediante il riferimento della propria vita a Dio creatore del mondo ed a Cristo Salvatore dell’uomo: è questo l’impegno di una libertà come quella dell’uomo che ha una realtà e una struttura storica, dopo l’Incarnazione, il rapporto di Dio all’uomo in Gesù Cristo, l’Uomo-Dio.

3. La caduta della libertà è opera della volontà. Come S. Tommaso, (ma con più acuto senso esistenziale) anche Kierkegaard intende la volon­tà come «motor omnium» e può chiarire in un modo più pertinente e profondo la caduta nel male e nel peccato. Ecco: l’uomo, come spirito, è sempre in tensione, la sua vita non conosce tregua, è «attualità». E qui la cosa da rilevare è che la caduta nel peccato oscura la conoscenza e, se il peccato continua, cresce anche l’oscurità nella mente. La spiegazione è un saggio di profonda antropologia dialettica che supera e colma, a mio avviso, la lacuna che resta nella spiegazione tomistica, alla quale si accosta in modo impressionante127.

a) Rapporto diretto tra conoscere e volere: «Dunque se un uomo, nello stesso momento in cui ha conosciuto il bene, non lo fa – allora si affievolisce il fuoco della conoscenza. E poi [si badi bene!] resta il problema che cosa pensa la volontà di ciò che si è conosciuto». È la volontà pertanto la remora dell’intelligenza.

b) Posizione dominante della volontà: «La volontà è un principio dialettico e tiene sotto di sé tutta l’attività dell’uomo. Se a questa non piace ciò che l’uomo ha conosciuto, non ne risulta certamente che la volontà si metta subito a fare il contrario di ciò che ha fatto l’intelligenza: opposizioni così forti sono certamente molto rare. Ma la volontà lascia passare un po’ di tempo in modo da avere un interim, cioè: stiamo a vedere fino a domani come vanno le cose!». È l’indugio per evitare il «rischio» della scelta della fede («davanti a Dio»).

c) Oscuramento volontario dellintelligenza: «Nel frattempo l’intel­ligenza si oscura128 sempre di più e gli istinti più bassi prendono sempre più il sopravvento; ahimé, il bene si deve fare subito, appena conosciuto (ecco la ragione perché nella pura idealità il passaggio dal pensare all’esse­re si fa con tanta facilità, perché qui tutto si fa subito); ma la forza della natura bassa sta nel tirare le cose in lungo».

d) Collusione dellintelligenza e della volontà nel male: «Quando così la conoscenza è divenuta abbastanza oscura129, allora l’intelligenza e la volontà possono intendersi meglio; finalmente vanno completamente d’accordo, perché l’intelligenza ora ha preso il posto della volontà e riconosce ch’è perfettamente giusto ciò che vuole lei». Una volta che così l’intelligenza è soggiogata dalla volontà, ne assume la qualità e soprattutto la perversione in una simbiosi di compromesso e di complicità scambievole: «Una gran massa di uomini forse vive così: a poco a poco essi riescono ad oscurare la loro conoscenza etica o etico-religiosa che li vuole portare a decisioni o conseguenze che non garbano alla loro natura inferiore ed estendono invece la loro conoscenza estetica o metafisica, la quale, dal punto di vista etico, è distrazione». È il divertissement di Pascal in cui affoga ogni idealità morale e religiosa nel naufragio della libertà. A questo punto Kierkegaard mette in rilievo il «passaggio di qualità» fra la concezione socratica che il peccato è ignoranza, ossia che il peccato non esiste, e la concezione cristiana che il peccato è effetto di libertà ossia che «… l’uomo pecca non perché non abbia compreso il bene, ma perché non lo vuole comprendere». Cioè, mentre Socrate – e tutto l’intellettualismo antico e moderno – dichiara che chi non fa il bene, non l’ha neanche compreso, il Cristianesimo risale un po’ addietro e dice che non l’ha compreso perché non l’ha voluto comprendere e questo perché non vuole il bene. La volontà perciò si è intromessa nel cuore dell’intelligenza e l’ha traviata.

Ma nella dialettica cristiana d’intelletto e volontà c’è una situa­zione ancora più grave in cui si consuma il tradimento consapevole del­l’ideale: «E poi (il Cristianesimo) insegna che un uomo fa il male (questa è la vera ostinazione) sebbene comprenda il bene o tralascia di fare il bene benché lo comprenda. Insomma – conclude Kierkegaard – la dottrina cristiana del peccato è tutta piena di rimproveri contro l’uomo; essa è un’accusa, è il diritto di sporgere querela contro l’uomo che la divinità si permette di rivendicare»130. Quindi la responsabilità del bene e del male, per Kierkegaard come per S. Tommaso, fa capo come alla prima radice alla «voluntas bona vel mala» – concordi nella concezione cristiana della responsabilità come costitutivo morale della persona.

La differenza fra questi due sommi interpreti del mistero della salvezza dell’uomo è che Kierkegaard raccoglie il conflitto dialettico all’interno dell’io ch’è chiamato a decidere di se stesso, a scegliere la «qualità» del proprio essere nella tensione di tempo ed eternità davanti a Dio e davanti a Cristo. Immerso nel tempo storico, ch’è dominato dalla venuta del­l’Uomo-Dio, l’io teologico ha di conseguenza due forme o tappe verso la salvezza: essere di fronte a Dio e essere di fronte a Cristo. L’io, allora, nel suo significato moderno come unità di coscienza ed autocoscienza, è il ve­ro principio operante (ut quod, secondo gli scolastici) e le diverse facoltà sensibili e spirituali, compresi l’intelletto e la volontà, sono principi ausiliari (ut quibus, secondo gli scolastici). Per il pensiero moder­no, e anche per Kierkegaard, l’uomo opera come un io cosciente e perciò l’autocoscienza non è semplicemente un quid comitans o con­comitans, ma il vero principium quod della sfera esistenziale. Perciò, riprendendo il principio già enunziato sopra, cioè «più idea di Dio, più io», ora si deve aggiungere: «più idea di Cristo, più io». La struttura e consistenza dell’io dipende dalla «misura» che viene assunta: «Un io è qualitativamente ciò ch’è la sua misura. Nel fatto che Cristo è la misura, si esprime da parte di Dio con la massima evidenza l’immensa realtà che ha l’io; perché soltanto in Cristo è vero che Dio è meta e misura, ovvero misura e meta dell’uomo»131.Pertanto – e questa conclusione vale per la concezione cristiana di tutti i tempi perché per il Cristianesimo il tempo post Christum natum non è indifferente (avdia,foron)132, ma è diventato il kairo,j della salvezza – se la fede in Dio come Assoluto metafisico e la fede in Cristo come l’unico Salvatore (Uomo-Dio) sono un punto di arrivo della libertà, esse costituiscono sul piano esistenziale anche il fondamento per attingere la verità della salvezza e la salvezza della libertà.

Epilogus brevis: «lesigenza esistenziale» della libertà

1. La dialettica tomistica di intelletto e volontà nella fondazione dell’atto di scelta sta agli antipodi della dialettica moderna e di quella fichtiana ed hegeliana in particolare; in questa c’è l’identificazione asso­luta d’intelletto e volontà così che l’uno assorbe l’altra, p. es. la Ragione in Fichte ed Hegel e la Volontà in Schleiermacher, la «esistenza» in Sartre…

2. Per la comprensione della posizione tomistica, anche restando fermo il primato formale dell’intelligenza sulla volontà, bisogna tener [in] conto l’esigenza moderna del posto certamente aeque primario che tiene nella dinamica dell’atto libero la priorità e pertanto la superiorità della volontà della motio quoad exercitium: «Sola creatura rationalis est capax Dei, quia ipsa sola potest ipsum cognoscere et amare explicite» (De Ver., q. 22, a. 2 ad 5um). Ci si chiede a questo proposito:

a) se si possa chiamare motio la comprensione da parte dell’intellet­to e la presentazione dell’oggetto ch’è il bene e il fine.

b) Se si possa a rigore attribuire all’intelletto la «comprehensio» del bene e del fine.

c) Attribuendo (come sembra fare S. Tommaso) alla volontà la semplice intentio finis in communi cioè l’aspirazione alla felicità indeter­minata ed al libero arbitrio la scelta dei mezzi (electio est eorum quae sunt finem), non si resta nell’ambito formale delle presenze come principia quibus e si lascia nell’ombra l’io come soggetto spirituale operante ut quod?

d) La scelta decisiva nella sfera esistenziale riguarda un fine ultimo concreto ossia un certo tipo di bene in cui ciascuno decide di porre e cer­care la propria felicità cioè il tipo di felicità che preferisce; solo mediante tale electio finis in concreto l’uomo attua la propria moralità: la inclinatio naturae al bonum in communi la precede, la electio mediorum la segue ov­vero la presuppone.

e) Anche S. Tommaso ammette che nella scelta concreta del finis, come la propria beatitudo in concreto, è la volontà di ognuno che decide liberamente e muove ossia guida in quella particolare direzione l’intellet­to a convincersi del particolare fine (creato o increato) ed a suggerire ossia a scegliere di conseguenza i mezzi.

3. Tuttavia sembra che non manchino in S. Tommaso autentici spunti esistenziali (quasi) contrastanti il suo atteggiamento formale: a) Il rovesciamento anzitutto della formula aristotelica causa sui dall’ablativo al nominativo, ove s’intende ovviamente d’indicare il soggetto spirituale nel momento della scelta concreta del fine ultimo; b) Il primato del momento soggettivo sull’oggettivo nell’attuarsi della libertà come spiegazione del causa sui qualche volta sembra espressamente riconosciuto senza restrizioni: «Liber causa sui operatur et quantum ad causam finalem operis, et quantum ad causam moventem (il fine concreto e il soggetto concreto). Nam liber propter se operatur sicut proprium finem, et a se quia propria voluntate movetur ad opus»133; c) Anche nella considera­zione della verità rivelata della creazione dell’uomo a immagine di Dio (Gen 2,7) l’Angelico accoglie l’esegesi dei Padri che vede la ratio imaginis dell’ultima sia nell’intelletto come nella volontà anzi qualche volta nomina la sola volontà: «Et homo magis est similis Deo inter creaturas post Angelos. (…) Non autem quantum ad corpus sed quantum ad animam, quae est liberam voluntatem habens et incorruptibilis in quo magis assimilatur Deo quam caeterae creaturae»134; d) Questa «ratio imaginis Dei in homine» è riferita espressamente et aequo iure sia alla conoscenza come all’amore di sé: «Alio modo (apparet similitudo Trini­tatis in creaturis) secundum eandem rationem operationis et sic repraesen­tatur in creatura rationali tantum, quae potest se intelligere et amare, sicut et Deus et sic verbum et amorem sui producere et haec dicitur similitudo naturalis imaginis»135; e) Nella mirabile circulatio di mutua causalità fra intelletto e volontà, l’uomo per arrivare alla decisione definitiva (deliberatio) deve, come spirito finito e corrotto dal peccato, essere mosso da DIO: «… et multo magis liberum arbitrium hominis infirmi post peccatum, per quod impeditur a bono per corruptionem naturae»136. È l’aspetto sviluppato da Kierkegaard nella Malattia mortale (1848).

*    *    *

La nostra attesa conclusione è pertanto che la concezione della libertà in S. Tommaso, pur muovendosi nella scia dell’intellettualismo classico, ha degli spiragli notevoli per soddisfare all’esigenza moderna della principalità dell’io e di conseguenza dell’atto di scelta del «fine concreto esistenziale» come dialettica del doppio rapporto dell’io a se stesso e a Dio (Kierke­gaard) ch’è fondamentale e costitutiva nell’atto di scelta. È vero che il giudizio «practico-practicum», con cui si attua l’imperium, è un atto della ragione, ma esso suppone la causalità della volontà che è sempre all’er­ta: «Primum autem movens in viribus animae ad exercitium actus est voluntas»137.

Una lettura, anche la più accurata e docile dei testi tomistici sul nostro arduo tema, specialmente della Ia-IIae, troverebbe facilmente argomenti per temperarne sia l’interpretazione intellettualistica come quella voluntaristica della libertà. Resta comunque – e giova richiamarci alle precedenti con­siderazioni – che per S. Tommaso:

1) La volontà procede direttamente dall’anima per se stessa e non tramite l’intelligenza138 e che…

2) «Primus voluntatis actus ex rationis ordinatione non est, sed ex instinctu naturae aut superioris causae»139. Che significa questo «aut»? è disgiuntivo o copulativo?

3) Il primato della volontà nella vita spirituale: «Voluntas movet rationem ad suum finem. Unde nihil prohibet, movente voluntate, actum rationis tendere in finem caritatis qui est Deo uniri. Tendit autem oratio in Deum, quasi a voluntate caritatis mota…». E, completando questo testo di lì a poco: «Voluntas movet alias potentias animae in suum finem sicut supra dictum est. Et ideo religio, quae est in voluntate, ordinat actus aliarum potentiarum ad Dei reverentiam. Inter alias autem potentias animae intellectus altior est et voluntati propinquior; et ideo post devo­tionem quae pertinet ad ipsam voluntatem, oratio quae pertinet ad partem intellectivam, est praecipua inter actus religionis, per quam religio intelle­ctum hominis movet in Deum»140.

4) E nel cristiano la virtù della religione è alle dipendenze delle virtù teologali – fede, speranza, carità – secondo il criterio di subordinazione dei mezzi al fine: «Semper potentia vel virtus quae operatur circa finem, per imperium movet potentiam vel virtutem operantem ea quae ordinantur in finem illum. Virtutes autem theologicae scilicet fides, spes et charitas, habent actum circa Deum sicut circa proprium obiectum et ideo suo imperio causant actum religionis quae operatur quaedam in ordine ad Deum». E fra le virtù teologali primeggia la carità: «… quia chari­tas tendit in ultimum finem sub ratione finis ultimi»141.

5) Ora anche la speranza e la carità, come virtù teologali, appartengo­no alla volontà, la fede come adesione infallibile alla prima volontà appartiene all’intelletto, ma in quanto anchessa è mossa dalla volontà (elevata dalla grazia): «Intellectus credentis determinatur ad unum, non per rationem, sed per voluntatem et ideo assensus hic accipitur pro actu intellectus secundum quod a voluntate determinatur ad unum»142.

E pure anche qui spunta l’influsso aristotelico: «Liberum arbitrium non est alia potentia a voluntate ut in Primo dictum est. Et tamen charitas non est in voluntate ratione liberi arbitrii, cuius actus est eli­gere. Electio est eorum quae sunt ad finem, voluntas autem est ipsius finis ut dicitur in II Ethic.143.Unde charitas, cuius obiectum est finis ultimus, magis debet dici esse in voluntate quam in libero arbitrio»144. Il problema esistenziale della libertà sembra ora pertanto concentrarsi sul­l’instinctus al quale S. Tommaso attribuisce (come in sé evidente) l’ori­gine prima del movimento della volontà nell’ordine sia naturale come soprannaturale.

6) Se già al livello dell’ordine naturale l’uomo ha bisogno di fare il primo passo della libertà in virtù di un «divino istinto» che precede la riflessione, questo vale tanto più al livello della vita soprannaturale; non a caso l’Angelico usa il termine di «ulterior instinctus», «quidam superior instinctus», «instinctus Spiritus Sancti»145,il quale sta al fondo del dinamismo della vita soprannaturale della grazia e della virtù teologali. Qui entra la teologia dei «doni dello Spirito Santo» nella quale la libertà dell’uomo, elevata dalla grazia e dalla carità, attinge la massima docilità alla mozione divina e la conformità alla vita divina. A noi interessa l’importanza decisiva dell’«instinctus divinus», misterioso ma necessario per S. Tommaso: «Dona sunt quidem habitus perficientes hominem ad hoc quod prompte sequatur instinctum Spiritus Sancti; sicut virtutes mora­les perficiunt vires appetitivas ad oboediendum rationi. Sicut autem vires appetitivae natae sunt moveri per imperium rationis ita omnes vires huma­nae natae sunt moveri per instinctum Dei, sicut a quadam superiori poten­tia»146. I doni sono delle «disposizioni» per ricevere la divina mozione: «Dona autem Spiritus Sancti sunt quibus omnes vires animae disponuntur ad hoc quod subdantur motioni divinae»147.Ma nulla o troppo poco si dice sulla natura dello «instinctus» e del suo rapporto alla libertà che nel­la vita della grazia viene liberata ad una libertà superiore cioè alla par­tecipazione propria della vita divina.

Sotto l’aspetto esistenziale quindi l’instinctus divinus ci ha fatto avan­zare molto a chiarire la dialettica tomistica della libertà. Questa dialet­tica deve presentarsi, ci sembra, nella linea dell’anima imago Dei e quindi della «partecipazione» della libertà creata alla «creatività per essenza» ch’è propria di Dio. Nulla vieta di pensare – e concludo – che questo «divinus instinctus» operi mediante quella misteriosa totale presenza di Dio «… in profundissimo et occultissimo animae fundo» al quale, con Taulero, abbiamo accennato nel prologo.

________

70 Ha dato una vivace e pertinente esposizione della questione, richiamando i testi tomistici fondamentali, P. Parente, Il primato dellamore e S. Tommaso dAquino, ora in Teologia viva, Roma 1955, t. II, p. 341ss.

71 G. Hegel, Enzyklopädie…, § 482; ed. Nicolin-Pöggeler, p. 388. Contesti simili si trovano anche in altre opere hegeliane: Geschichte der Philosophie, Einleitung, Berlin 18402, p. 63. Ma anche per questo, come per gli altri concetti cristiani, Hegel li sottopone al processo di secolarizzazione illuministica. Spiega infatti: «Solo le nazioni germaniche sono giunte nel Cristianesimo alla coscienza che l’uomo è libero in quanto uomo cioè che la libertà dello spirito costituisce la sua più propria natura» (Philosophie der Geschichte; ed. Lasson, Bd. I, p. 39).

72 È la tesi dell’intero impianto della Philosophie des Rechts: «Aber der Staat ist erst das Dritte, die Sittlichkeit, und der Geist, in welchem die ungeheure Vereinigung der Selbstständigkeit der Individualität und der allgemeine Substantia­lität stattfindet. Das Recht des Staates ist höher, als andere Stufen: es ist die Freiheit in ihrer konkretesten Gestaltung welche nur noch unter die höchste absolute Wahrheit des Weltgeistes ist» (G. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts oder Naturrecht und Staatswissenschaft im Grundrisse; ed. Gans, § 33 Zusatz, Berlin 18402, p. 69).

73 Cf. F. Mussner, Theologie der Freiheit nach Paulus, Quaestiones Disputa­tae 75, Freiburg-Basel-Wien 1976, spec. p. 65ss.

74 H. Schlier, Über das vollkommene Gesetz der Freiheit, Fs. R. Bul­tmann, Stuttgart und Köln 1949, p. 200.

75 R. Bultmann, Der Gedanke der Freiheit nach antiken und christlichen Ver­ständnis, in Glaube und Verstehen, Tübingen 1965, Bd. IV, p. 47s. Cf. Id., Gnade und Freiheit, in Glaube und Verstehen, Tübingen 1952, Bd. II, p. 160.

76 Cf. S. Th., Ia., q. 8, a. 3. Taulero, esposta (in modo sommario) la dottrina di S. Tommaso, il quale …propius ad rem ipsam accessit, continua: «Alii adhuc Doctores quidam multo sublimius hac de re loquentes dicunt (imaginem Dei) in animae intimo, hoc est profundissimo et occultissimo animae fundo, consistere» (D. Johannis Thauleri, Sermones, Sermo in Festo SS. Trinitatis, Coloniae ac denuo Maceratae 1552, p. 309).

77 «Wie das Erkennen, so das Wollen, wie der Verstand, so der Wille» (K. Fischer, Das Verhältnis zwischen Willen und Verstand im Menschen, in Kleine Schriften, Heidelberg 1898, p. 347 – corsivo di Fischer –; cf. p. 350). – Ha fatto un’ampia rassegna della letteratura posthegeliana sulla libertà, E. Zeller, Über die Freiheit des menschlichen Willens, das Böse und die moralische Weltordnung, 1846, ora in E. Zellers Kleine Schriften; ed. Leuze, Berlin 1910, Bd. II, pp. 292-487. Sulla concezione moderna della libertà, cf. anche più avanti c. VI.

78 Per la tradizione tomistica, cf. Jo. a S. Thoma, Philosophia naturalis, P. IV, q. 12, aa. 2-6; ed. Reiser, t. III, p. 386ss., spec. p. 403ss.

79 S. Th., Ia, q. 82, a. 3. Nell’ad 1um si legge la formula tecnica di questo intellet­tualismo moderato: «Verum dicitur magis absolute et ipsius boni rationem significat; unde et bonum quoddam verum est. Sed rursus et ipsum verum est quoddam bonum, secundum quod intellectus res quaedam est et verum finis ipsius». Ma questa è ancora una considerazione formale.

80 Il testo classico è: Utrum, si beatitudo est intellectivae partis, sit operatio intellectus, an voluntatis (S. Th., Ia-IIae, q. 3, a. 4).

81 De Ver., q. 22, a. 11; ed. Leon., 639 b. Questa tesi è ribadita nelle risposte alle obiezioni. Nell’ad 1um la volontà è detta però simplicior et nobilior e nell’ad 10um: «Quamvis anima prius feratur in Deum per intellectum quam per affectum, tamen perfectius pervenit in ipsum affectus quam intellectus» (640 b).

82 S. Th., Ia, q. 82, a. 2. Il De Veritate rileva la perfectio et dignitas intellectus dal fatto che la «species rei intellectae in ipso consistit intellectu, cum secundum hoc intelligat actu» (loc. cit.).

83 De Virt. in comm., a. 6; però a. 3 ad 12um.

84 De Malo, q. 6, a. un. ad 18um.

85 S. Th., Ia-IIae, q. 9, a. 1. Anche il De Ver.: «Intellectus regit voluntatem non quasi inclinans eam in id in quod tendit, sed sicut ostendens ei quo tendere debeat» (q. 22, a. 11, ad 5um; ed. Leon., 640 a).

86 De Ver., q. 22, a. 12; ed. Leon., 642 a.

87 De Ver., q. 22, a. 12 ad 5um; ed. Leon., 643 a.

88 S. Th., Ia, q. 83, a. 4, ad 3um.

89 In II Sent., d. 24, q. 1, a. 2, ad 3um; ed. Mandonnet, t. II, nr. 594. L’espressione «motor omnium virium» è attribuita a S. Anselmo (ibid., a. 3; ed. Mandonnet, t. II, nr. 596).

90 In II Sent., d. 22, q. 1, a. 2, ad 1um; ed. Mandonnet, t. II, nr. 594.

91 De Malo, q. 6, a. un. – Il testo di Averroè, citato dall’Angelico, tratta dell’intelletto agente: «Intellectus secundum quod facit omnem intellectum in potentia esse intellectum in actu; et intendit per istum intellectum illud quod fit, quod est in habitu. (…) Et oportet addere insermone secundum quod facit ipsum intellegere omne, ex se, et quando voluerit: haec est enim definitio huius habitus scil. ut habens habitum intelligat per ipsum illud quod est sibi proprium ex se et quando voluerit, absque eo quod indigeat in hoc aliquo extrinseco» (Averrois Cordub., In III De Anima, tc. 18; ed. veneta minor 1562, fol. 161 r).

92 De Malo, loc. cit., ad 18um.

93 De Malo, loc. cit. Il testo aristotelico citato è: Eth. Eud., lib. VII, c. 14, 1248 a 14. – Cf. S. Th., Ia-IIae, q. 9, a. 4. L’articolo infatti è tutto costruito sull’esigenza della dipendenza causale fra intelletto e volontà nella formazione del consilium: «… Cum enim aliquis vult sanari, incipit cogitare quomodo hoc consequi possit et per talem cogitationem pervenit ad hoc quod potest sanari per medicum et hoc vult (…)». La conclusione: «Sed quia non semper sanitatem actu voluit, necesse est quod inceperit velle sanari ab aliquo movente», è forse il punto cruciale su cui tornerò più avanti.

94 Seguo ancora: S. Th., Ia-IIae, q. 9, a. 1.

95 Quodl., VI, q. 2, a. 2. E ripete nel corpo dell’articolo: «Intellectus autem non agit nisi mediante voluntate; quia motus voluntatis est inclinatio sequens formam intelle­ctam; unde oportet quod quidquid angelus [e lo stesso vale per l’uomo] agit, agat per imperium voluntatis».

96 S. Th., Ia-IIae, q. 4, a. 4, ad 2um.

97 De Malo, loc. cit., ad 10um.

98 Le dichiarazioni al riguardo sono categoriche: «Finis, in quantum est huiusmodi, non cadit sub electione… Ultimus finis nullo modo cadit sub electione» (S. Th., Ia-IIae, q. 13, a. 3). «Sicut intentio est finis, ita electio est eorum quae sunt ad finem» (ibid., a. 4). Eppure lo stesso S. Tommaso, parlando della diversa situazione del diavolo e dell’uomo dopo il peccato, usa il termine electio che qui ha per oggetto certamente Dio: «Et ideo consuevit dici quod liberum arbitrium hominis flexibile est ad oppositum et ante electionem et post; liberum autem arbitrium angeli est flexibile ad utrumque oppositum ante electionem sed non post» (S. Th., Ia, q. 64, a. 2).

99 In IV Sent., d. 49, q. 1, sol. 3 ad 1um; ed. veneta 1750, t. XIII, fol. 463 a.

100 «Sicut et ex complexione naturali, plures homines sequuntur passiones, quibus soli sapientes resistunt» (S. Th., Ia-IIae, q. 9, a. 5 ad 3um).

101 Cf. S. Th., Ia-IIae, q. 2, aa. 1-8 (S. Tommaso considera le ricchezze, gli onori, la fama o gloria, il potere, il bene, la salute, la forza e la bellezza… del corpo, i piaceri, la scienza… ). Per il giovane Tommaso «… hoc perfectum bonum esse voluptatem vel divitias vel virtutem vel quidquid huiusmodi, est per accidens» (In IV Sent., d. 49, q. 1, sol. 1; ed. cit., fol. 473 a). Osserviamo: solo per accidens? Ma se questa scelta è quella che decide se la vita è virtuosa o viziosa e poi decide della stessa vita eterna?

102 In I Ethic., lect. 9, nr. 111. Perciò l’Angelico parla di un «… praestituere sibi finem» così che «… determinatio actionis et finis in potestate liberi arbitrii constituitur» (In II Sent, d. 25, q. 1, e ad 3um; ed. Mandonnet, t. II, nr. 645s.).

103 In VI Ethic., lect. 2, nr. 1136. Ed in generale: «In omnibus quae sub electione cadunt voluntas libera manet, in hoc modo determinationem habens quod felicitatem naturaliter appetit et non determinate in hoc vel illo» (In II Sent., d. 25, q. 1, a. 2; ed. Mandonnet, t. II, nr. 649).

104 In VI Ethic., lect. 2, nr. 1137.

105 In I Ethic., lect. 5, nri. 57-59.

106 In III Ethic., lect. 5, nr. 446.

107 Lo stesso S. Tommaso distingue due aspetti della felicità (beatitudo): «Uno modo secundum communem rationem beatitudinis. Et sic necesse est quod omnis homo beatitudinem velit. (…) Alio modo possumus loqui de beatitudine secundum specialem rationem, quantum ad id in quo beatitudo consistit» (S. Th., Ia-IIae, q. 5, a. 8). Dal punto di vista esistenziale quest’ultima espressione potrebbe essere modificata così: «Alio modo possumus loqui de beatitudine secundum realem rationem quam quisque eligit, seu quantum ad id in quo quisque iudicat se (suam) beatitudinem adepturum».

108 In I Ethic., lect. 9, nr. 111.

109 S. Th., Ia, q. 5, a. 4 ad 3um; (è il «leitmotiv» della riflessione esistenziale).

110 De Virt. in comm., a. 7, ad 5um; ed. Marietti, nr. 725 b). Ed un po’ più sotto: «Homo secundum naturam suam est bonus secundum quid, non autem simpliciter. (…) Simpliciter autem et totaliter bonus dicitur aliquis ex hoc quod habet voluntatem bonam, quia per voluntatem homo utitur omnibus aliis potentiis. Et ideo bona voluntas facit hominem bonum simpliciter; et propter hoc virtus appetitivae partis secundum quam voluntas fit bona, est quae simpliciter bonum facit habentem» (ibid., a. 9, ad 15um; ed. cit., nr. 733 a).

111 Sembra già affermarlo un testo giovanile: «Quamvis iudicium non pertineat ad voluntatem absolute, iudicium tamen electionis, quae tenet locum conclusionis, ad voluntatem pertinet secundum quod in ea virtus rationis manet» (In II Sent., d. 24, q. 1, a. 3, ad 2um; ed. Mandonnet, t. II, nr. 597). Ma sul piano esistenziale c’è un «iudicium elec­tionis» proprio del fine che sta come principio.

112 L’intelligenza però emana per prima: «Voluntas non directe ab intelligentia procedit sed ab essentia animae, praesupposita intelligentia. Unde ex hoc non sequitur ordo dignitatis, sed solummodo ordo originis, quo intellectus est prior naturaliter voluntate» (De Ver., q. 22, a. 11, ad 6um; ed. Leon., nr. 640 a). Cf. De Car., a. 3 ad 12um.

113 De Ver., q. 22, a. 12, ad 1um; ed. Leon., nr. 642 b.

114 A questo proposito nella Q. De Caritate, trattando dell’amore verso i dannati («… ut opera Dei in quibus divina iustitia manifestatur»), l’Angelico ha un’osservazione insolita: «Praescitos autem nondum dannatos debemus diligere ad vitam aeternam habendam; quia hoc nobis non constat, et praescentia divina ab eis non excludit possibi­litatem perveniendi ad vitam aeternam» (a. 8, ad 9um; ed. Marietti, nr. 775 a). Qui sembra chiaro che la «praescientia» non si fonda e non fonda un rapporto di causalità.

115 Jo. a S. Thoma, Philosophia…, P. IV, q. 12, a. 2; ed. cit., pp. 387 a e 389 a. La radice metafisica di questa flessione formalistico-razionalistica della libertà si può indicare nell’oblio dello esse come atto sostituito dalla existentia come fatto anche nella scuola tomistica e nell’assunzione della distinzione di essentia et existentia e quindi della riduzione totale del rapporto di creatura-creatore alla dipendenza estrinseca.

116 De Ver., q. 24, a. 1, in fine; ed. Leon., nr. 681 a. È questo, secondo S. Tommaso, anche l’insegnamento patristico: «Causam liberi arbitrii assignat tam Damascenus quam Gregorius [Nyssenus] quam etiam Augustinus rationem» (ibid., a. 2, ad 4um; ed. Leon., nr. 686 b – Cf. anche a. 1 ad 16um). La ragione profonda, come lo stesso Angelico ricorda, è la creazione dell’anima «ad imaginem Dei», come già si è detto.

117 Ibid., ad 17um; ed. Leon., nr. 693 b.

118 De Ver., q. 24, a. 3; ed. Leon., nr. 688 a.

119 De Ver., q. 24, a. 2; ed. Leon., nr. 685 b. – L’argomento di S. Tommaso è prettamente formale: «Iudicare de iudicio suo est solius rationis quae super actum suum reflectitur, et quae cognoscit habitudines rerum de quibus iudicat et per quas iudicat» (loc. cit.). Ma, come lo stesso S. Tommaso ha esplicitamente riconosciuto, anche la volontà riflette su se stessa: «… Similiter voluntas vult se velle et intellectum intelligere et vult essentiam animae… unde et ipsa voluntas cum fertur super potentias animae… inclinat unamquamque [anche l’intelletto] in propriam operatio­nem» (De Ver., q. 22, a. 12; ed. Leon., nr. 642 b).

120 «Sed contra, ex hoc videtur homo esse ad imaginem Dei quod est liberi arbitrii, ut dicit Damascenus et etiam Bernardus» (De Ver., q. 24, Sed contra 1; ed. Leon., nr. 685 a).

121 S. Th., Ia-IIae, Prologus. – Per il testo del Damasceno, si rimanda al De fide orthodoxa, lib. II, c. 12; PG 94, col. 920 b, sopra citato.

122 «Porro in his tribus libertatibus ipsam ad quam conditi sumus Conditoris imaginem atque similitudlinem contineri; et imaginem quidem in libertate arbitrii, in reliquis autem duabus bipartitam quandam consegnari similitudinem» (S. Bernardus, De Gratia et libero arbitrio, c. IX; PL 182, col. 1016 b). S. Tommaso ricorda queste tre libertà nel De Ver., q. 24, a. 1, ob. 11 e ad 11um; ed. Leon., nr. 678 b e 682 b.

123 Anche S. Tommaso: «Intellectus cum intelligit voluntatem velle, accipit in seipso rationem volendi» (De Ver., q. 22, a. 12; ed. Leon., nr. 642 b).

124 Seguo la mirabile analisi della libertà in La malattia mortale (1848): le pagine rimandano all’ed. nel vol. Opere, Firenze 1972, p. 621ss.

125 S. Kierkegaard, La malattia…, P. I, A, a; ed. cit., p. 625s.

126 S. Kierkegaard, La malattia…, P. II, c. 1; ed. cit., p. 663 a. – Ed è questo anche il fondamento della fede, che libera l’uomo dall’impelagarsi nel finito e perciò dalla disperazione (Fortvivlelse): «Mettendosi in rapporto con se stesso e volendo essere se stesso, l’io si fonda trasparente nella potenza che l’ha posto» (ibid., B, c; ed. cit., p. 645 b). Nell’Esercizio del Cristianesimo, che continua la fondazione dell’io teologico, s’introduce il principio della «contemporaneità» (Samtidighed) che è «l’io davanti a Dio in Cristo» come Dio nel tempo di cui si parla espressamente anche nella conclusione della Malattia mortale.

127 Seguo ancora La malattia…, P. II, c. II; ed. cit., p. 671 ab.

128 Anche S. Tommaso conosce quest’oscuramento, ma sembra tacere l’aspetto esistenziale: «Homo habet cognitionem obumbratam et cum discursu veritatis notitiam sumentem, unde accidit ei dubitatio et difficultas in discernendo et iudicando. (…) Homo in eligendo difficultatem patitur propter incertitudinem et dubitationem» (De Ver., q. 24, a. 3 in fine; ed. Leon., nr. 688 ab).

129 Anche S. Tommaso ammette che «… in hoc vel in illo fine appetendo aut in hoc vel in illo utili eligendo, incidit peccatum voluntatis». Il difetto della ragione è nel giudicare dei beni particolari dove può essere traviata dalle «… vires inferiores quae intense moventur in aliquid [con la conseguenza che] intercipitur actus rationis ut non limpide et firmiter suum iudicium de bono voluntati proponat» (De Ver., q. 24, a. 8; ed. Leon., nr. 700 b). Per Kierkegaard la responsabilità radicale è della volontà.

130 S. Kierkegaard, La malattia…, loc. cit.; ed. cit., p. 671s.

131 S. Kierkegaard, ibid., P. II, B; ed. cit., p. 682.

132 L’espressione viene usata da Aristotele: Metaph., lib. XII, c. 9, 1074 b 36.

133 In Ev. Ioannis Lect., c. XV, lect. III, 2; ed. Taur., nr. 2015. – Il «causa sui» qui sembra all’ablativo, ma non nuoce anzi intensifica nel contesto il dominio della volontà del soggetto.

134 In Symb. Apost., a. 1, in Opuscula Theologica; ed. Taur., t. II, nr. 886.

135 De Pot., q. 9, art. 9. – Strano, ma importante questo spunto di apertura all’esigenza moderna della emergenza (principalità) del soggetto nella riflessione, sia nel conoscere come nella volontà (cognitio sui et amor sui).

136 S. Th., Ia-IIae, q. 109, a. 2 ad 1um; – Lo spunto è indicato in un celebre testo aristotelico dell’Etica a Eudemo (lib. VII, c. 14, 1248 a 14) che è stato già citato (S. Th., Ia-IIae, q. 9, a. 6).

137 S. Th., Ia-IIae, q. 17, a. 1; cf. q. 9, a. 1.

138 «Voluntas non directe ab intelligentia procedit sed ab essentia animae, praesupposita intelligentia» (De Ver., q. 23, a. 2 ad 6um).

139 S. Th., Ia-IIae, q. 17, a. 5 ad 3um. Un po’ più sotto: «In spiritu et veritate orat qui ex instinctu Spiritus ad orandum accedit» (ibid., IIa-IIae, q. 83, a. 13 ad 1um). Il ter­mine «instinctus» in questo contesto c’è già in Bonaventura, ma senza richiamo ad Aristotele: «Cum (liberum arbitrium) habet naturale iudicatorium et quemdam instinctum naturalem, remurmurantem contra malum» (IV Sent., d. 49, p. 1, a. 1, q. 2). È citato da M. Seckler, Instinkt und Glaubenswille nach Thomas von Aquin, Mainz 1961, p. 172, n. 7 (rimanda ad Agostino, De Civ. Dei, lib. XI, c. 27, 2; ed. Dombart I, p. 500, 18ss.). Qui il termine ha un senso più morale che non metafisico.

140 S. Th., IIa-IIae, q. 83, a. 1 ad 2um e a. 3 ad 1um. Però la «dilectio» è considerata «… proxima devotionis causa» (ibid., q. 82, a. 3).

141 S. Th., IIa-IIae, q. 81, a. 1 ad 1um.

142 S. Th., IIa-IIae, q. 2, a. 1 ad 3um. E più sotto: «Ipsum autem credere est actus intellectus assentientis veritati divinae ex imperio voluntatis a Deo motae per gratiam: et sic subiacet libero arbitrio in ordine ad Deum» (ibid., a. 9). E più sotto: «accipere fidem est voluntatis» (ibid., q. 10, a. 8 ad 3um). L’autorità è S. Agostino: «Nullus enim credit nisi qui vult ut Augustinus dicit» (In IV Sent., d. 16, q. 1, a. 3).

143 Aristotele, Eth. Nic., lib. III, c. 9, 1111 b 26.

144 S. Th., IIa-IIae, q. 24, a. 1 ad 3um. Per lo «ut in Primo» la ed. Leon. ri­manda a Ia, q. 83, a. 4.

145 Cf. S. Th. Ia-IIae, q. 68 per totam. Non a caso – ed è veramente sorprendente – nell’articolo 1 si ricorre ben due volte al testo aristotelico del De Bona Fortuna (Eth. Eud., lib. VII, 1248 a 14 e a 32), mentre esso è assente nel Commento alle Sentenze (lib. III, d. 34 e 35). Si trova nel commento della Lettera ai Galati (c. v, lect. VI, nr. 318; ed. Taur. p. 634: «Justi non sunt sub lege, quia motus et instinctus Spiritus sancti, qui est in eis, est proprius eorum instinctus»). Per altri testi, e per un’analisi completa del problema dello «instinctus» nell’ordine sia naturale come soprannaturale sotto laspetto della mozione causale di Dio sulla creatura, si rimanda allo studio di A. Milano, Listinto nella visione del mondo di S. Tommaso dAquino, Roma 1966, spec. p. 96ss., p. 137ss., p. 204s.

146 S. Th., Ia-IIae, q. 67, a. 4 – Più perfetti delle virtù, sia morali che intellettua­li, i doni sono però inferiori alle virtù teologiche (loc. cit., a. 8 e ad 2um). E ciò non sembra chiaro, se i doni attuano quel primordiale «instinctus Dei vel Spiritus Sancti» che è posto come il motore e movimento primigenio della vita soprannaturale.

147 S. Th., loc. cit., a. 8. – Mi sembra importante notare, in forma di «ricorso storico», ma anche come richiamo alla profondità della riflessione sul «fondamen­to», che anche Fichte pone all’inizio del filosofare un «istinto per il concreto» (Trieb zum Concreten. Cf. G. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, in Werke XV; ed. Michelet, Berlin 18442, III Teil, p. 621 e prima p. 588 dove Hegel usa l’espressione «instinctmässig»).

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